16
Nov
2013

Lo schiaffo di Bruxelles meritato dal governo

Ieri è arrivata la pagella europea sulle leggi di bilancio per il 2014 dei paesi membri. E’ la prima volta che il giudizio avviene prima che vengano adottate dai Parlamenti, almeno nel più dei membri e comunque in Italia. Ed è una decisione assunta di comune accordo, proprio per rendere più stringente il controllo sulla convergenza delle politiche di spesa e fiscali. Per l’Italia, appena uscita pochi mesi fa dalla procedura d’infrazione per eccesso di deficit pubblico, e guidata da un governo nato in aprile per navigare sul mare della politica italiana che tempestoso era e tempestoso resta, era un esame da non sbagliare. Per definizione. Invece non è andata così. E se la politica italiana crede di limitarsi a far spallucce, concentrata com’è sulla conta interna al Pdl e sullo scontro congressuale nel Pd, oppure se pensa di limitarsi a una nuova polemica sull’Europa che pensa solo al rigore, sbaglia. Rischia di farsi ancora più male.

Dividiamo i due aspetti, quello nazionale e quello europeo. Sono naturalmente collegati. Perché con le carte pienamente in regola si conta di più al tavolo comunitario. Ma distinguiamoli pure.

Dal punto di vista interno, il no di Bruxelles al margine aggiuntivo di investimenti pubblici – sia pur di pochi miliardi – sbandierato per mesi come conquista acquisita dal governo Letta alla fine della procedura d’infrazione, è un incidente serio. Ancor più serio perché Letta e Saccomanni sono appassionati conoscitori e attori in prima persona degli interna corporis europei. La messa in mora della manovra finanziaria da parte di Bruxelles è motivata per gli insufficienti passi avanti nel contenimento del debito pubblico, che salirà al 134% del Pil, e per non aver dato retta alla raccomandazione dello scorso maggio di tassare meno persone e imprese e più le cose. Oggettivamente, il governo ha prestato il fianco a queste osservazioni. Ed è questa, per molti versi, la cosa incredibile.

Non è un mistero per nessuno che il rischio del deficit sopra il 3%, in ballo per 2013 e 2014, sia dipesa dalla guerra sull’IMU. Niente da dire sul fatto che il governo abbia deciso, per necessità più che per convinzione, di farla propria seppure obtorto collo. Ma la decisione di non indicare mai con chiarezza le coperture necessarie, tanto che ancora in Parlamento sulla tassazione immobiliare è rodeo puro, quella decisione è stata sbagliata.

Il governo ha risposto ieri che il giudizio di Bruxelles non tiene conto del fatto che le coperture, per centrare l’obiettivo di deficit al 2,5% per il 2014, nella legge di stabilità ci sono. Ma noi come osservatori abbiamo il dovere di dire che il contrasto parlamentare è tale che nessuno, oggi, è in grado ancora di dire a quanto davvero saliranno gli anticipi d’imposta per imprese e banche, né quanto saliranno le accise e su che cosa, e nemmeno come e se si eviterà il taglio automatico di 3 miliardi di detrazioni Irpef al 19%, attualmente previsto per il 2014 se non vi saranno tagli alla spesa. Ieri Letta e Saccomanni hanno parlato della spending review affidata a Cottarelli. Ma egli ha appena iniziato a lavorare. E Bruxelles ne sa quanto noi, di quel che davvero saranno i tagli di spesa nel 2014 proposti da Cottarelli. Cioè nulla.

Quanto al debito pubblico in aumento, certamente è colpa della recessione, che in Italia perdura. Ma proprio per questo il governo doveva da mesi pensare a un piano serio di dismissioni pubbliche. Sino a questo momento è stata decisa una modesta partita di giro immobiliare tra Tesoro e Cdp. Mentre Europa e mondo hanno visto il governo, attraverso le Poste, rientrare in Alitalia. Altro che privatizzazioni. Parole su cessioni di quote Eni e altro, ma solo parole.

Agli elementi fattuali, e allo scorno per vedersi arrivare il ceffone proprio dall’Europa quando si è europeisti al punto da non aver voluto dire una parola sulla procedura d’infrazione alla Germania per il suo eccesso di surplus, si aggiungono le conseguenze nella maggioranza. Non crediamo che Letta possa evitare di pensare che Berlusconi non aveva bisogno di questo assist, proprio il giorno in cui mette nel mirino come sleali coloro che nel suo partito distinguono la decadenza del leader dal Senato dal sostegno al governo. Invece, è successo anche questo.

C’è infine il versante europeo. Le osservazioni critiche non sono riservate solo all’Italia, ma tra i maggiori Paesi alla Spagna, alla Francia e alla stessa Germania. Resta il fatto che coloro che hanno beneficato di uno slittamento dal rientro previsto sotto il 3% di deficit, come appunto Spagna e Francia, continuano a cavarsela meglio di noi, che siamo rientrati sotto il limite grazie alla brutale spremuta fiscale che i governi ci hanno riservato. Mentre istituzioni come la Camera continuano ad avere a libro paga anche consulenti artistici. E mentre pensionati attuali e pensionandi futuri, di fronte al buco plurimiliardario dell’Inps per via dell’Inpdap del settore pubblico, si sentono rispondere dal Tesoro che è un banale problema tecnico, un singolare modo per rassicurare milioni di italiani.

Al tavolo per ridiscuterli e cambiarli, questi balzani criteri europei del 3% di deficit, l’Italia nel suo semestre di presidenza europea a giugno prossimo avrebbe dovuto e potuto arrivarci con altra forza e credibilità. Non mancano solo le privatizzazioni, se lo stesso governo ha riconosciuto che l’intervento sul cuneo fiscale era così limitato che tanto valeva destinarlo alla lotta alla povertà. In ogni caso, replicare con stizza o indifferenza è altrettanto sbagliato che piangere sul latte versato. Letta e Saccomanni devono tirare fuori più energia e rischiare il proprio nome su misure energiche, invece di delegare alla giostra parlamentare per il solo fine di durare. Il Capo dello Stato non ha mai detto né pensato, che il governo delle cosiddette larghe intese doveva nascere per tirare a campare. Più volte, nelle ultime settimane, il Quirinale ha usato la striglia, dicendo che bisognava cambiare passo, stringere i tempi, avanzare proposte precise. Ora, è il momento. Altrimenti, se saranno ancor più forti i populismi, questa volta il governo dovrà prendersela anche con se stesso.

15
Nov
2013

Il metodo della trasparenza: lobby e dintorni (seconda parte)

E’ stata qui in precedenza evidenziata l’importanza che un metodo trasparente riveste per lo svolgimento di qualunque attività abbia pubblica rilevanza. Con riferimento a quella di produzione normativa, esso consente alla collettività di operare una verifica del procedimento che ha condotto all’effettuazione di determinate scelte riguardanti specifici interessi e delle motivazioni che ne costituiscono il fondamento. Considerata la sempre maggiore rilevanza dei gruppi di pressione, è necessario che anche la loro operatività sia connotata da criteri di chiarezza ed evidenza: da trasparenza, appunto.

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14
Nov
2013

Finalmente l’INPS ammette l’amara verità dei suoi conti: a farli sballare i pensionati pubblici

Finalmente ci siamo arrivati, anche il presidente dell’INPS Antonio Mastrapasqua stamane ammette di ”avere qualche peoccupazione” su conti del suo istituto. Altro che preoccupazione. L’amara verità sta nelle cifre, note da tempo. ma, sin qui, “silenziate”.

Nel conto economico, l’INPS aveva cumulato nei 4 anni precedenti il 2012 quasi 25 miliardi di euro di saldi positivi (grazie ai trafsrimenti pubblici per le prestazioni assistenziali, badate). Nel 2012 ha perso 9 miliardi secchi. Nel 2013, secondo le stime dello stesso consiglio di vigilanza dell’istituto, ne perderà altri 9,2 se non di più. Ma il presidente Mastrapasqua in passato, a chi reagiva a questo allarme rosso, replicava abitualmente che l’INPS è in piena sicurezza, poiché a inizio 2013 l’avanzo di amministrazione era ancora superiore a 40 miliardi. L’avanzo di amministrazione non è però un indicatore di equilibrio del conto economico, ma un coefficiente di liquidità: è la somma della cassa disponibile più i residui attivi e meno quelli passivi, cioè i crediti e debiti a bilancio.

Mastrapasqua aveva ragione nel sostenere che la cassa per continuare a pagare le pensioni c’è. Ma ha avuto torto nel dire che non c’era da preoccuparsi, prima di cambiare tono, oggi. Le perdite cumulate e previste – altri 10 miliardi nel 2014 e altrettanti nel 2015 – non solo sono tali da sopravanzare l’avanzo di amministrazione, ma renderanno negativo già dal 2015 il patrimonio netto dell’INPS, sceso intorno a 15 miliardi a fine del 2013.

Sappiamo che cosa determini queste perdite colossali. L’incorporazione nel 2012 nell’INPS della gestione Inpdap ed Enpals dei dipendenti pubblici. Il passivo 2012 dell’Inpdap è stato di 7,6 miliardi, con un patrimonio negativo di 23 miliardi. In 20 anni l’Inpdap ha sempre battuto record di profondo rosso. I contributi non sono mai stati sufficienti a coprire le spese per pensioni, che sono più elevate di quelle private a parità di qualifica. Per reggere lo sbilancio, politica e sindacati hanno sempre tifato per l’aumento dei lavoratori pubblici (per averne i contributi): ma con lo stop al turnover di questi anni i dipendenti pubblici hanno iniziato a diminuire, e il deficit tra contributi versati e prestazioni si aggrava.

I “regali” ai pensionati pubblici si aggiungono al rosso storico dei fondi dirigenti, elettrici, telefonici e dei coltivatori diretti. La folle scelta di questi ultimi anni – alzare le aliquote contributive ai lavoratori parasubordinati – per quanto realizzi un attivo di 9 miliardi, è in grado di equilibrare le perdite degli altri fondi di lavoro privato, non quelle del lavoro pubblico.

Prima che la riforma Fornero entri pienamente in vigore, per moltissimi anni le pensioni elevate del sistema retribuitivo pre-Dini continueranno a essere pagate. Servirebbe dunque un intervento equitativo proprio sulle pensioni pubbliche: ma nessuno ci metterà mai mano, in nome della solidarietà. E allora bisogna saperlo: nei prossimi anni occorreranno iniezioni per miliardi dalla fiscalità generale. Perché l’INPS dipenderà sempre più da interventi extra bilancio per le prestazioni economiche temporanee – 50 miliardi annui rispetto ai 255 di pensioni corrisposte – e non solo per quelle. Sapevatelo, come si suol dire.

14
Nov
2013

Il metodo della trasparenza: lobby e dintorni (prima parte)

L’accountability di singoli e istituzioni trova il proprio fondamento nella trasparenza, che non è solo mezzo e al contempo fine, ma altresì metodo di svolgimento di ogni attività che abbia pubblica rilevanza. I soggetti che in qualunque ruolo devono rendere conto del proprio operato sono oggi chiamati ad agire secondo modalità idonee a consentire che i propri comportamenti siano pubblicamente verificati e, comunque, giudicati. In questo modo, la loro responsabilità viene sostanziata mediante il controllo che qualunque interessato può operare sui fini perseguiti, sulle motivazioni che ne sono alla base, sulle valutazioni compiute, sugli obiettivi raggiunti e sulle cause di eventuali scostamenti da quelli inizialmente previsti. Il suddetto controllo può essere, dunque, effettuato solo laddove funzioni istituzionali che richiedono l’utilizzo di pubbliche risorse vengano espletate secondo procedimenti che trovino nella trasparenza il proprio connotato. Di tale principio nelle sue più varie accezioni si è più volte scritto: giova evidenziarne il “filo rosso”.

 

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14
Nov
2013

Un nuovo sito per studiare i progressi dell’umanità

Secondo numerose stime, nessuna epoca storica è stata migliore di questa per abitare il nostro pianeta. In realtà non serve certo un genio per capirlo: basta guardarsi attorno. Ma d’altra parte, come osservava argutamente Herbert Spencer, “tanto più migliorano le condizioni dei tempi, tanto più ci si lamenta dei loro mali”. Purtroppo, il divario tra la realtà e il senso comune è notevole. E oggi più che mai va di moda il pessimismo, a cui contribuiscono le opinioni di persone influenti, politici affermati e studiosi di ogni campo. Ma più di chiunque altro sono i media a bombardarci di cattive notizie, ignorando i tantissimi progressi che l’umanità compie ogni giorno nel rendere il mondo un posto sempre migliore.

A combattere questa tendenza sconsideratamente pessimistica ci aveva provato qualche anno fa un grande scrittore scientifico, Matt Ridley, con il suo saggio “L’ottimista razionale”. Secondo Ridley, “gli standard di vita umani sono molto migliori oggi rispetto a qualsiasi altro periodo della storia: a livello globale, il reddito pro capite si è triplicato solo nel corso della mia vita, tenendo conto anche dell’inflazione; la durata media della vita ha avuto un incremento del 30%; la mortalità infantile si è abbattuta di due terzi. Questi trend sono globali e non locali. Se si guarda alle cifre, non si può non riconoscere che siamo sempre più in salute, felici, liberi, benevoli, più pacifisti, più attenti all’igiene, più uguali e anche più intelligenti. Ovviamente non tutti in tutte le parti del mondo. Ma mediamente è così”.

E su questa stessa linea di pensiero è stato inaugurato recentemente un sito, www.humanprogress.org, che si pone come contraltare delle troppe teorie complottiste e fobie immotivate a cui siamo abituati. Come? Semplicemente mostrando l’evidenza. Creato dal Cato Institute (http://www.cato.org), HumanProgress nasce con l’intento di smontare le false convinzioni sullo stato dell’umanità, attraverso un database di studi e pubblicazioni delle più autorevoli istituzioni planetarie (come ad esempio Banca Mondiale, OCSE, Eurostat e ONU) completo e accessibile per studiosi, giornalisti, studenti e chiunque sia interessato. Tra le tante funzioni offerte, il sito permette di esplorare e confrontare diversi indici di sviluppo all’interno di una vasta gamma di fonti, calcolare gli indicatori di benessere umano dei diversi paesi nel corso del tempo ed esaminare dati su tantissimi temi divisi per categorie (tra cui, per esempio, ricchezza, salute, alfabetizzazione, mortalità infantile, transizione verso fonti energetiche alternative, libertà politica ecc.).

Indubbiamente il mondo è ancora popolato da troppe persone che soffrono la fame, le malattie, la violenza e la mancanza di libertà, e la condizione umana è ben lungi dall’essere perfetta. Ma la tendenza dell’umanità è sorprendentemente chiara: il progresso, nonostante tutto, tende a una costante e irreversibile evoluzione in positivo. Constatare i progressi dell’umanità non significa affidarsi a un cieco ottimismo, odioso quanto superficiale. Significa, invece, mettere da parte le opinioni per dare retta ai fatti. Ed è proprio quello che www.humanprogress.org ha l’ambizione di fare su scala planetaria.

 

13
Nov
2013

Più del secondo figlio, conta se in Cina i comunisti aprono davvero a un pieno diritto di libera proprietà

I media italiani hanno deciso oggi di informare sul plenum del Partito Comunista Cinese dedicato alle riforme economiche puntando nei titoli all’apertura al “secondo figlio”, dopo che dal 1979 Pechino segue la linea del contenimento demografico. In effetti è un tema a forte presa popolare, e la demografia cinese è squilibrata poiché ad alcune coorti demografiche centrali – tipo quella tra i 50 e i 54 anni – mancano molti milioni di individui per effetto della Grande Carestia tra il 1958 e il 1962, nonché dei milioni di persone soppresse negli anni 1966-76 per effetto della Rivoluzione Culturale.

Ma l’importanza della nuova linea cinese sta altrove: nel fatto che si punta a una vera estensione del diritto fondamentale per ogni successiva idea evolutiva di libero mercato, il diritto di proprietà. Vedere per credere, naturalmente. Ma senza di questo dire “più mercato e meno Stato” è un ossimoro, con il partito comunista ferreamente al potere.

E’ vero, il comunicato diramato dal plenum è ancora troppo generico, persino i social network cinesi hanno protestato. Ma già dal tono e da alcuni passaggi del comunicato, emergono segnali di grande importanza.

Innanzitutto compare un aggettivo nuovo rispetto al gergo del PCC: si dice che nei prossimi anni il ruolo del mercato dovrà essere “decisivo”. Sinora, nel post Deng Xiao Ping, si era arrivati nei documenti ufficiali a dire che il mercato aveva un ruolo “basic”, ma mai “decisivo”. L’aggettivo apre la porta a una graduale revisione del meccanismo di controllo politico-amministrativo dei prezzi, che domina ancora vastissimi settori della seconda economia mondiale? Vedremo. La Cina oggi è salita al rango di secondo esportatore e terzo importatore, con un Pil che in un decennio è passato dal 15% planetario a superare il 20%.

Ma i passaggi  di potenziale  vera rottura sono altri. Innanzitutto quello in cui si annuncia di voler rivedere il sistema “a due livelli” di proprietà della terra, che sin qui inibiva – nella vastissima Cina rurale, estranea alle 19 aree a sviluppo speciale costiere – agli agricoltori il pieno diritto proprietario della terra, compresa la sua vendita. “Gli agricoltori devono partecipare ugualmente ai frutti della modernizzazione”, recita il comunicato.

Una successiva affermazione va al centro della questione su cui si gioca la sostenibilità del continuo processo di urbanizzazione avvenuto nell’ultimo quindicennio: 30 anni fa solo il 20% della popolazione cinese era urbanizzata, oggi il 48%. E questa migrazione è necessaria perché in 30 anni grazie ad essa il 40% della manodopera cinese si è spostata dall’agricoltura all’industria e ai servizi. Ebbene a questo proposito il comunicato del plenum annuncia un nuovo criterio di distinzione tra territorio urbano e rurale, consentendo alle città di espandersi più rapidamente e promettendo agli agricoltori un più alto risarcimento se la terra verrà espropriata a fini di sviluppo, oltre che di urbanizzazione.

Un mercato fondiario unificato tra città e campagne superererebbe la negazione stessa dell’idea di mercato sin qui mantenuta in oltre il 75% del territorio cinese. Significa anche la necessità di rivedere il sin qui vigente sistema di registrazione rigida della residenza per i lavoratori rurali, una vecchia eredità dello stalinismo. Ma fare davvero questo porta inoltre – altro passaggio importante della dichiarazione finale – ad aggiornare i livelli sin qui molto asimmetrici dei servizi pubblici tra città e campagne: vengono citati sanità, istruzione e pensioni. Senza servizi adeguati, non si diventa consumatori: ed è questo che serve alla Cina, che deve dipendere meno dal suo export e più dal suo mercato interno.

A deludere gli osservatori, sono invece le frasi dedicate alle grandi imprese che restano controllate dallo Stato. Qui il tono resta ispirato a grande prudenza. Si riconosce che i potenti monopoli di Stato hanno un rendimento economico medio pari alla metà dei gruppi privati delle zone speciali di sviluppo, ma attaccarli direttamente avrebbe significato minare alla base il potere dei militari e del partito. Si preferisce parlare di lotta alla corruzione e agli eccessi della burocrazia, e di graduali aperture per gli investimenti privati ​​e stranieri attraverso la deregolamentazione, già testata nelle zone di libero scambio .

Una forte delusione riguarda poi il silenzio su alcune materie che erano invece molto attese, perché “promesse” dai documenti preparatori del plenum: in particolare per ciò che riguarda un graduale passaggio verso forme di liberalizzazione del tasso d’interesse, e una disciplina più di mercato degli intermediari finanziari pubblici. Il cattivo credito, la pessima qualità degli asset bancari, un vastissimo “sistema bancario ombra”, rappresentano grandi minacce sul futuro della Cina, (meglio non immaginare che cosa avverrebbe nel mondo, in caso di default cinesi a catena). Affrontare questi nodi è premessa obbligata per immaginare una valuta cinese, lo yuan-renmimbi, liberamente fluttuante sui mercati, e non più sottoposta al controllo rigido e politico (ma sin qui sapiente) del suo troppo graduale apprezzamento sul dollaro, come avvenuto in questi anni.

Tuttavia è già molto, che la Cina si metta in moto con tanta ufficialità per un nuovo orizzonte entro il 2020, indicando alcuni dei più importanti terreni della sua persistente arretratezza. Se la paragoniamo all’estenuata mancanza di volontà e coraggio del nostro continente europeo, c’è molto da riflettere.

 

 

12
Nov
2013

Il surplus tedesco e l’infrazione Ue: una grande occasione per ragionare e cambiare, non per insultarsi

Mercoledì la Commissione Europea apre formalmente il dibattito su un punto che, sul Messaggero, da tempo sono stato tra i primi a sollevare. Si tratta di una questione molto delicata. Perché riguarda la coesione europea e il pieno rispetto delle regole europee. Quelle regole alle quali, giustamente, da anni i Paesi eurodeboli – come l’Italia, la Grecia, la Spagna, il Portogallo, l’Irlanda – vengono costantemente richiamati. Solo che questa volta non si tratta di verificare gli estremi di una violazione posta in essere da qualcuno di loro. Si parla della Germania. Ed evidentemente la cosa fa alzare immediatamente la temperatura politica. Perché la Germania è il Paese leader dell’euroarea, ha i bilanci pubblici in regola con un deficit di poco superiore allo 0% del Pil, e per quanto sia salito anche il suo debito pubblico nella crisi di questi anni, è comunque più basso del nostro di 50 punti di Pil.

Come è evidente, non siamo affatto gli unici a conoscere l’esistenza della regola europea violata. La spiegazione è un’altra. La politica italiana, quella di Parigi, e dell’intero blocco dei Paesi eurodeboli a cominciare dalla Spagna, si sente – ed è, inutile girarci intorno – tanto debole, sia pure per ragioni diverse, da preferire non ingaggiare un confronto diretto con Berlino, con la cancelliera Merkel, e con gli stessi socialdemocratici che, da ex forza di opposizione, sconfitti alle urne stanno ora trattando un patto di coalizione proprio con la Merkel. Tuttavia il problema esiste. Lo ha prima solevato il Tesoro statunitense. Ieri il silenzio è stato rotto dal commissario europeo agli affari economici Olli Rehn, e a questo punto il nodo va affrontato.

La regola in questione, in attuazione dell’articolo 121-2 del Trattato che attribuisce al Consiglio Europeo il potere di emanare raccomandazioni a ogni Stato membro, sulla base di proposte e di analisi fatte dalla Commissione esaminando le politiche economiche nazionali di ciascuno, riguarda gli squilibri della posizione netta sull’estero dei Paesi membri. La procedura d’infrazione, con tanto di eventuali sanzioni proporzionate al Pil, scatta se i Paesi registrano o un deficit eccessivo sull’estero di parte corrente, superiore al 4% del Pil sommando le partite commerciali e quelle di trasferimenti di redditi e rimesse, oppure un surplus troppo elevato, superiore per tre anni al 6% del Pil. Il dato di fatto è che la Germania va oltre quella soglia dal 2007, ogni anno.

Quando il Tesoro statunitense, due settimane fa, ha posto il problema, si è giustamente guardato dal richiamare al rispetto di una norma europea. Ne ha fatto una questione generale, e la politica come i media germanici hanno reagito con fastidio e qualche punta di stizza, pregando Obama di badare ai fatti suoi, visto che in Congresso non riesce a raggiungere alcun accordo strutturale con l’opposizione repubblicana su come ridurre il debito pubblico. Ma la regola di cui stiamo parlando è stata posta nel set di norme europee proprio perché gli squilibri sull’estero dei membri finiscono per esercitare effetti sistemici. E questi effetti sono tanto più rilevanti se il Paese in questione è quello leader. E’ esattamente questo l’argomento sostenuto ieri da Rehn. Che non a caso ha accompagnato il caso tedesco alla renitenza a riforme incisive sin qui mostrata dalla Francia, altro paese membro la cui forza e impatto sull’Unione monetaria è molto significativa.

La difficoltà ora è quella di evitare che la vicenda assuma significati impropri. E’ molto probabile che media e opinioni pubbliche, nei Paesi stremati da fisco e recessione come l’Italia, cadano nel riflesso condizionato del “dagli al tedesco”. Vedi oggi il tono usato da grillo verso Letta, definito “un Quisling fantoccio dei etdeschi”. Sarebbe un errore gigantesco, sprofondare in questi toni. E non è soplo un rischio italiano. Se ne sono visti i segni, in questi giorni, anche su testate autorevolissime, come il Wall Street Journal che ha pubblicato opinioni pregiudizialmente a favore del fatto che il surplus tedesco non danneggi certo gli eurodeboli, e il Financial Times o il Daily Telegraph i cui commentatori la pensano invece esattamente all’opposto. In piccolissimo, io stesso ho amici tedeschi che, dopo anni da me trascorsi a polemizzare contro i mancati tagli a spesa pubblica e tasse italiane e le mancate riforme per alzare la produttività- idee alle quali non rinuncio –  mi han chiesto se per caso non mi abbia dato di volta il cervello, sollevando il problema germanico.

Al contrario, bisogna fare tutto il giusto e il possibile perché le regole vengano rispettate. In altre parole, la Commissione dovrà valutare quanto del surplus tedesco in questi anni derivi dalla forza oggettiva delle sue esportazioni, quanto dai flussi di capitale interni ed esterni all’euroarea verso un paese considerato ancora di sicurezza, quanto poi di questi flussi verso gli intermediari bancari germanici abbiano a propria volta influito sostenendo e alimentando le diverse “bolle” degli eurodeboli, prima del 2011.

Il surplus tedesco non è solo mera espressione di forza economica, perché in quel caso si deve solo rendere omaggio alle riforme che i tedeschi hanno fatto – nella finanza pubblica, nel mercato del lavoro e nel welfare – prima e meglio di noi, quando erano il grande malato europeo e seppero rimettersi in piedi. Ma il surplus sale anche per il fatto che il tasso di cambio dell’euro viene temperato verso il basso dalla recessione e dai guai degli eurodeboli, e per l’asimmetria esistente tra eurodeboli ed euroforti non solo nel tasso di cambio ma anche quanto a tasso d’inflazione, visto che gli eurodeboli devono evitare di finire a prezzi negativi mentre l’economia tedesca avrebbe bisogno di un tasso d’interesse più elevato del nostro, vista la sua maggior forza.

Ed è esattamente per queste persistenti asimmetrie del ciclo economico tra deboli e forti, che al Consiglio della BCE della settimana scorsa tedeschi, austriaci e olandesi hanno votato contro il taglio dei tassi proposto da Draghi. Non per cattiveria o perché ci odino, ma perché oggettivamente gli interessi nazionali di chi marcia più spedito sono diversi da quelli di chi giace a terra. Nei grandi Paesi che in passato hanno registrato forti surplus, come il Giappone che pure finì in stagnazione per vent’anni, quasi sempre il riallineamento avviene sotto la spinta del tasso di cambio. Da noi, per gli eurodeboli, l’unica compensazione possibile – per chi non capisce che bisogna rapidamente alzare la produttività e alleggerire la mano del fisco – è la svalutazione del potere reale dei redditi, salari e pensioni. Ma così facendo oltre una certa misura sono le opinioni pubbliche, a ribellarsi nelle urne.

Nessuno può pensare che Berlino voglia in un batter d’occhio alzare salari e pensioni, per “tirare” più importazioni dai Paesi deboli dell’euro. Non è troppo utile neppure illudersi sulla posizione della Spd, visto che le indiscrezioni la vogliono d’accordo con la Merkel nel negare fondi europei dell’ESM alla vigilanza sull’Unione bancaria esercitata dal 2014 dalla BCE. E nel negare altresì che su eventuali salvataggi e fallimenti bancari sia la Commissione ad aver voce in capitolo, invece dei governi nel Consiglio europeo. Ciò malgrado, un confronto serio e ragionevole con Berlino sul suo surplus costituisce una grande occasione: tutti insieme, nella ragionevolezza dei toni, per far fare un passo avanti a un’Europa che oggi è ancora molto lontana dall’aver raggiunto regole che la rendano un’acquisizione stabile davvero, nel tempo e sui mercati. Certo: credere che vinca la ragionevolezza, visto i tempi, è sempre un esercizio di sfrenato ottimismo.

 

11
Nov
2013

La Legge di stabilità, ovvero come ignorare il merito per finanziare gli sprechi

Immaginate di essere l’allenatore di una squadra di calcio e di avere a disposizione due attaccanti. Durante gli allenamenti, in settimana, il primo si allena duramente e segna valanghe di gol; il secondo, invece, arriva sempre in ritardo, è indolente e segna poco. Chi fareste giocare titolare la domenica? Suppongo il primo. Lo Stato, invece, farebbe probabilmente giocare il secondo, e sapete perché? Perché ha manifestato l’intenzione di comprarsi dei nuovi scarpini di marca… Pagati dai tifosi della squadra!

Fuor di metafora, questo è ciò che, essenzialmente, prevede la bozza del Ddl collegato alla Legge di stabilità. il Governo s’impegna a erogare a micro, piccole e medie imprese “finanziamenti a fondo perduto per favorire la digitalizzazione dei processi aziendali e l’ammodernamento tecnologico” per 200 milioni di euro, il tutto nell’ambito di un nuovo programma di politica industriale. Un termine, quest’ultimo, che già da solo fa rabbrividire. Sia chiaro: lo svecchiamento delle imprese italiane è una priorità assoluta per la ripresa economica, e non c’è dubbio che anche la politica debba fare la sua parte in questa direzione. Ma qui non si discute dell’an, bensì del quomodo.

Innanzitutto, ci sono settori e settori, imprese e imprese. E non tutti hanno gli stessi bisogni e necessità, per non parlare di chi gli investimenti nell’ammodernamento della propria azienda li ha già fatti, ma di tasca propria. Non solo. La UE ci ha bacchettato già in diverse occasioni per gli sprechi commessi nella distribuzione a pioggia dei suoi fondi strutturali, e come darle torto?

Abbiamo già assistito troppe volte ad aiuti pubblici alle imprese che, tolta la maschera, si rivelano operazioni clientelari costose e dannose per (quasi) tutti. Secondo una ricerca condotta da Marco Cobianchi nel suo libro “Mani bucate”, i procedimenti aperti dalla UE contro l’Italia per aiuti alle imprese ritenuti potenzialmente illegali ammonterebbero a 38.070 negli ultimi 10 anni. Senza contare gli aiuti de minimis, cioè quelli inferiori a 200.000 euro e che pertanto non devono essere notificati alla UE. Ed è stata la stessa Ragioneria Generale dello Stato a sottolineare, nel suo ultimo rapporto annuale sulla spesa pubblica, la pessima gestione che viene fatta di questi finanziamenti, e in particolare di quelli a fondo perduto. D’altra parte, come si può pensare che lo Stato conosca meglio delle imprese quali siano gli investimenti migliori per renderle competitive?

Il tutto è reso ancor più paradossale dalle dichiarazioni rilasciate poco dopo, in pompa magna, dal premier Letta, secondo cui il cuneo fiscale “si può ridurre di più, ma dobbiamo decidere come”. La pressione fiscale sulle PMI ha raggiunto, nel 2012, la cifra record del 68%. Le imprese che riescono a reggere la concorrenza nonostante questo enorme carico fiscale continuano a sacrificarsi per redistribuire risorse a realtà imprenditoriali fallimentari tramite favori elettorali travestiti da agevolazioni. Di fronte a tutto questo, il nostro Presidente del Consiglio si chiede dove trovare risorse per tagliare il cuneo fiscale: indizio inequivocabile che all’orizzonte non appare nessun segno di discontinuità con quel circolo vizioso di matrice keynesiana tra spesa e tassazione che strozza la nostra economia da decenni.

Se la priorità del Governo è il sostegno alla crescita, ridurre le tasse su lavoro e impresa è la prima misura da prendere. Il che, si badi, non significa necessariamente tagliare la spesa sociale (abbondantemente tutelata da questo Governo, peraltro; si pensi alla social card), ma quelle stesse spese teoricamente a favore dell’economia e che, invece, le si ritorcono contro, togliendo a chi produce e premiando realtà improduttive e sprecone. Non è una questione di ideologie, ma di priorità. Anche perché a favore dell’abbattimento dei finanziamenti alle imprese giocano ragioni di equità: un taglio dell’IRAP o del cuneo fiscale aiuterebbe tutte le imprese, e non solo le poche beneficiarie (vincolate, peraltro, ai diktat del Governo sulle strategie di investimento da intraprendere). Inoltre, la gestione dei fondi da assegnare alle imprese ha dei costi amministrativi da non sottovalutare tra predisposizione dei bandi di gara e verifica degli adempimenti da parte delle imprese beneficiarie. A cui si aggiungono i costi sostenuti dalle imprese per studiare i bandi e predisporre progetti adeguati ai requisiti richiesti. Infine, bisogna considerare i fenomeni di corruzione e di infiltrazione di organizzazioni criminali che fin troppo spesso accompagnano le gare pubbliche.

Letta afferma che le uniche due strade percorribili per tagliare il cuneo fiscale sono restringere la categorie di chi può usufruire delle agevolazioni o attendere il rimpatrio di risorse provenienti dalla Svizzera. Questa seconda ipotesi è evidentemente aleatoria, per non dire irrealistica. La prima, invece, soffre dello stesso identico vizio di questa Legge di Stabilità: ancora una volta prevede l’intervento del Leviatano statale per decidere chi sia meritevole o meno di godere degli sgravi sui redditi. Ma la soluzione, pur non semplice, sarebbe ridurre l’ammontare complessivo degli incentivi erogati alle imprese (la cui media è di 10 miliardi annui, una cifra impressionante) e utilizzare il gettito risparmiato per dar loro un po’ di respiro fiscale, a fronte del totale delle “imposte sugli affari” considerate nel bilancio dello Stato.

Varrebbe la pena lasciare che del tradizionale aut aut tra redistribuzione ed efficienza si occupino i manuali di economia. L’Italia è stufa di perdere le partite per colpa delle scelte autoritarie dei suoi allenatori: lasciamo fuori chi non merita di stare in campo e iniziamo a far giocare i migliori. E vedrete che anche i panchinari inizieranno a impegnarsi di più.

Giacomo Lev Mannheimer