18
Nov
2013

Il protezionismo svedese sull’alcool: una soluzione che peggiora il problema

Esercizio di immaginazione: sono le cinque di un sabato pomeriggio e siete nella capitale di uno dei più ricchi paesi occidentali. La sera avete in programma una cena da amici, e volete portare una bottiglia di vino. Per fare ciò, però, siete costretti a dirigervi nel retrobottega di un negozio dove il losco proprietario tiene ammucchiate casse di alcolici di ogni genere, che vende di contrabbando. Dopo aver girato tra gli scatoloni, prendete una bottiglia di vino, pagate e uscite senza dare nell’occhio. Domanda: dove vi trovate?

Avete risposto “nell’America ai tempi del proibizionismo”? Può anche darsi. Ma è quello che potrebbe succedervi anche oggi stesso a Stoccolma e in ogni altra città della Svezia.

Quello tra gli svedesi e l’alcool è sempre stato un rapporto tormentato. Che i nordici bevano parecchio non è una novità, e proprio per contrastare gli effetti del bere il Governo svedese decise, agli inizi del ‘900, di assumere il controllo capillare della distribuzione di bevande alcoliche. Un monopolio che dura fino a oggi. In realtà, i supermercati possono vendere “liberamente” birre e alcolici… A patto che non superino i 3,5° di volume. Il che, come può facilmente capire chiunque non sia astemio, significa non poter vendere nient’altro che birre annacquate.

Per acquistare bevande con una gradazione superiore, invece, bisogna recarsi nei Systembolaget, supermercati aventi l’esclusiva funzione di vendere alcolici e gestiti direttamente dallo Stato. E che, quindi, vendono solo ciò che lo Stato decide di vendere, nei giorni e negli orari in cui lo vuole vendere (non dopo le 15 di sabato né di domenica, per esempio). I Systembolaget, inoltre, sono solo 418 in tutto il territorio svedese (uno ogni 22.000 abitanti), in ottica evidentemente dissuasiva. E sempre per disincentivare l’acquisto di alcolici al loro interno sono vietate le pubblicità dei marchi e le offerte speciali.

Si aggiunge a tutto ciò, in un tristemente coerente pendant, un’elevatissima pressione fiscale. L’aliquota sugli alcolici dipende dalla gradazione: la vodka, per esempio, è tassata al 40%; il vino al 14%; la birra “solo” al 4.5%. Ma non è finita: questa imposta si cumula all’applicazione della VAT (l’equivalente dell’IVA), che è del 12% per le bevande con gradazione al di sotto dei 3.5° e del 25% per quelli con gradazione superiore. Fino al 2007 era riservata al monopolio statale anche l’importazione di bevande alcoliche: se un cittadino avesse voluto importare privatamente del vino italiano, avrebbe dovuto rivolgersi alla Systembolaget (che tratteneva il 17% del prezzo), finché una sentenza della Corte di Giustizia Europea ha dichiarato la normativa in contrasto con il principio della libera circolazione delle merci all’interno dell’UE.

La prima considerazione che mi sembra opportuno fare su questo sistema proibizionista è di carattere psicologico: scoraggiare l’acquisto di alcool con metodi repressivi, invece che educativi, alimenta la percezione che si tratti di un prodotto eversivo, attirando così l’attenzione dei più giovani, notoriamente attratti da comportamenti borderline che li aiutino ad affermarsi ed emanciparsi. Con due ovvie conseguenze: innanzitutto, potendo acquistare alcolici solo fino a una cert’ora e in un solo luogo, la tendenza è quella di comprarne (e, di conseguenza, consumarne) più del necessario. In secondo luogo tutte queste restrizioni, unite a prezzi così elevati, favoriscono la formazione del mercato nero.

Gli effetti economici, poi, sono drammatici: il monopolio statale annichilisce la concorrenza, sprecando enormi opportunità imprenditoriali e sacrificando numerosi posti di lavoro potenziali. Come sempre in questi casi a farne le spese sono soprattutto i consumatori, in particolare quelli meno abbienti (che, tra l’altro, saranno istintivamente portati a percepire l’alcool come un bene di lusso, e come tale ad esserne attratti). Basta passare un weekend a Malmö per rendersi conto di quanti siano gli svedesi che prendono il traghetto fino in Germania e tornano con la macchina strapiena di scorte. E lo stesso accade ai confini con la Danimarca e la Finlandia. Si potrebbe pensare che, quanto meno, il consumo di alcool si sia ridotto grazie a queste politiche. E invece è aumentato del 30% dal 1995 al 2005, con una (seppur lieve) diminuzione negli ultimi 8-10 anni, cioè proprio da quando la Svezia ha aperto le frontiere all’importazione. Una coincidenza?

Piuttosto l’ennesima dimostrazione dell’assoluta inefficacia dei sistemi monopolistici, in particolare laddove ci siano in ballo questioni etiche. Il punto è che il consumo di alcool è connaturato alla società occidentale, piaccia o meno. E l’unica strada per limitarne abusi e conseguenze problematiche è di natura culturale: libertà e consapevolezza, unite, possono fare molto più della repressione. Evitando che gli svedesi si trovino costretti a dover trattare con l’Al Capone di turno per poter comprare una bottiglia di vino il sabato pomeriggio.

Giacomo Lev Mannheimer

 

 

17
Nov
2013

Alitalia e il lungo raggio (I parte)

La nuova Alitalia non ha chiuso in attivo alcun esercizio dalla sua nascita ad oggi, tuttavia le aviolinee mondiali hanno registrato buoni risultati nel triennio successivo alla recessione del 2009: le 76 maggiori compagnie dei cinque continenti hanno ottenuto complessivamente nel triennio 2010-12 un risultato operativo pari a 58 miliardi di dollari e profitti netti dopo le tasse pari a 28 miliardi. Read More

16
Nov
2013

Lo schiaffo di Bruxelles meritato dal governo

Ieri è arrivata la pagella europea sulle leggi di bilancio per il 2014 dei paesi membri. E’ la prima volta che il giudizio avviene prima che vengano adottate dai Parlamenti, almeno nel più dei membri e comunque in Italia. Ed è una decisione assunta di comune accordo, proprio per rendere più stringente il controllo sulla convergenza delle politiche di spesa e fiscali. Per l’Italia, appena uscita pochi mesi fa dalla procedura d’infrazione per eccesso di deficit pubblico, e guidata da un governo nato in aprile per navigare sul mare della politica italiana che tempestoso era e tempestoso resta, era un esame da non sbagliare. Per definizione. Invece non è andata così. E se la politica italiana crede di limitarsi a far spallucce, concentrata com’è sulla conta interna al Pdl e sullo scontro congressuale nel Pd, oppure se pensa di limitarsi a una nuova polemica sull’Europa che pensa solo al rigore, sbaglia. Rischia di farsi ancora più male.

Dividiamo i due aspetti, quello nazionale e quello europeo. Sono naturalmente collegati. Perché con le carte pienamente in regola si conta di più al tavolo comunitario. Ma distinguiamoli pure.

Dal punto di vista interno, il no di Bruxelles al margine aggiuntivo di investimenti pubblici – sia pur di pochi miliardi – sbandierato per mesi come conquista acquisita dal governo Letta alla fine della procedura d’infrazione, è un incidente serio. Ancor più serio perché Letta e Saccomanni sono appassionati conoscitori e attori in prima persona degli interna corporis europei. La messa in mora della manovra finanziaria da parte di Bruxelles è motivata per gli insufficienti passi avanti nel contenimento del debito pubblico, che salirà al 134% del Pil, e per non aver dato retta alla raccomandazione dello scorso maggio di tassare meno persone e imprese e più le cose. Oggettivamente, il governo ha prestato il fianco a queste osservazioni. Ed è questa, per molti versi, la cosa incredibile.

Non è un mistero per nessuno che il rischio del deficit sopra il 3%, in ballo per 2013 e 2014, sia dipesa dalla guerra sull’IMU. Niente da dire sul fatto che il governo abbia deciso, per necessità più che per convinzione, di farla propria seppure obtorto collo. Ma la decisione di non indicare mai con chiarezza le coperture necessarie, tanto che ancora in Parlamento sulla tassazione immobiliare è rodeo puro, quella decisione è stata sbagliata.

Il governo ha risposto ieri che il giudizio di Bruxelles non tiene conto del fatto che le coperture, per centrare l’obiettivo di deficit al 2,5% per il 2014, nella legge di stabilità ci sono. Ma noi come osservatori abbiamo il dovere di dire che il contrasto parlamentare è tale che nessuno, oggi, è in grado ancora di dire a quanto davvero saliranno gli anticipi d’imposta per imprese e banche, né quanto saliranno le accise e su che cosa, e nemmeno come e se si eviterà il taglio automatico di 3 miliardi di detrazioni Irpef al 19%, attualmente previsto per il 2014 se non vi saranno tagli alla spesa. Ieri Letta e Saccomanni hanno parlato della spending review affidata a Cottarelli. Ma egli ha appena iniziato a lavorare. E Bruxelles ne sa quanto noi, di quel che davvero saranno i tagli di spesa nel 2014 proposti da Cottarelli. Cioè nulla.

Quanto al debito pubblico in aumento, certamente è colpa della recessione, che in Italia perdura. Ma proprio per questo il governo doveva da mesi pensare a un piano serio di dismissioni pubbliche. Sino a questo momento è stata decisa una modesta partita di giro immobiliare tra Tesoro e Cdp. Mentre Europa e mondo hanno visto il governo, attraverso le Poste, rientrare in Alitalia. Altro che privatizzazioni. Parole su cessioni di quote Eni e altro, ma solo parole.

Agli elementi fattuali, e allo scorno per vedersi arrivare il ceffone proprio dall’Europa quando si è europeisti al punto da non aver voluto dire una parola sulla procedura d’infrazione alla Germania per il suo eccesso di surplus, si aggiungono le conseguenze nella maggioranza. Non crediamo che Letta possa evitare di pensare che Berlusconi non aveva bisogno di questo assist, proprio il giorno in cui mette nel mirino come sleali coloro che nel suo partito distinguono la decadenza del leader dal Senato dal sostegno al governo. Invece, è successo anche questo.

C’è infine il versante europeo. Le osservazioni critiche non sono riservate solo all’Italia, ma tra i maggiori Paesi alla Spagna, alla Francia e alla stessa Germania. Resta il fatto che coloro che hanno beneficato di uno slittamento dal rientro previsto sotto il 3% di deficit, come appunto Spagna e Francia, continuano a cavarsela meglio di noi, che siamo rientrati sotto il limite grazie alla brutale spremuta fiscale che i governi ci hanno riservato. Mentre istituzioni come la Camera continuano ad avere a libro paga anche consulenti artistici. E mentre pensionati attuali e pensionandi futuri, di fronte al buco plurimiliardario dell’Inps per via dell’Inpdap del settore pubblico, si sentono rispondere dal Tesoro che è un banale problema tecnico, un singolare modo per rassicurare milioni di italiani.

Al tavolo per ridiscuterli e cambiarli, questi balzani criteri europei del 3% di deficit, l’Italia nel suo semestre di presidenza europea a giugno prossimo avrebbe dovuto e potuto arrivarci con altra forza e credibilità. Non mancano solo le privatizzazioni, se lo stesso governo ha riconosciuto che l’intervento sul cuneo fiscale era così limitato che tanto valeva destinarlo alla lotta alla povertà. In ogni caso, replicare con stizza o indifferenza è altrettanto sbagliato che piangere sul latte versato. Letta e Saccomanni devono tirare fuori più energia e rischiare il proprio nome su misure energiche, invece di delegare alla giostra parlamentare per il solo fine di durare. Il Capo dello Stato non ha mai detto né pensato, che il governo delle cosiddette larghe intese doveva nascere per tirare a campare. Più volte, nelle ultime settimane, il Quirinale ha usato la striglia, dicendo che bisognava cambiare passo, stringere i tempi, avanzare proposte precise. Ora, è il momento. Altrimenti, se saranno ancor più forti i populismi, questa volta il governo dovrà prendersela anche con se stesso.

15
Nov
2013

Il metodo della trasparenza: lobby e dintorni (seconda parte)

E’ stata qui in precedenza evidenziata l’importanza che un metodo trasparente riveste per lo svolgimento di qualunque attività abbia pubblica rilevanza. Con riferimento a quella di produzione normativa, esso consente alla collettività di operare una verifica del procedimento che ha condotto all’effettuazione di determinate scelte riguardanti specifici interessi e delle motivazioni che ne costituiscono il fondamento. Considerata la sempre maggiore rilevanza dei gruppi di pressione, è necessario che anche la loro operatività sia connotata da criteri di chiarezza ed evidenza: da trasparenza, appunto.

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14
Nov
2013

Finalmente l’INPS ammette l’amara verità dei suoi conti: a farli sballare i pensionati pubblici

Finalmente ci siamo arrivati, anche il presidente dell’INPS Antonio Mastrapasqua stamane ammette di ”avere qualche peoccupazione” su conti del suo istituto. Altro che preoccupazione. L’amara verità sta nelle cifre, note da tempo. ma, sin qui, “silenziate”.

Nel conto economico, l’INPS aveva cumulato nei 4 anni precedenti il 2012 quasi 25 miliardi di euro di saldi positivi (grazie ai trafsrimenti pubblici per le prestazioni assistenziali, badate). Nel 2012 ha perso 9 miliardi secchi. Nel 2013, secondo le stime dello stesso consiglio di vigilanza dell’istituto, ne perderà altri 9,2 se non di più. Ma il presidente Mastrapasqua in passato, a chi reagiva a questo allarme rosso, replicava abitualmente che l’INPS è in piena sicurezza, poiché a inizio 2013 l’avanzo di amministrazione era ancora superiore a 40 miliardi. L’avanzo di amministrazione non è però un indicatore di equilibrio del conto economico, ma un coefficiente di liquidità: è la somma della cassa disponibile più i residui attivi e meno quelli passivi, cioè i crediti e debiti a bilancio.

Mastrapasqua aveva ragione nel sostenere che la cassa per continuare a pagare le pensioni c’è. Ma ha avuto torto nel dire che non c’era da preoccuparsi, prima di cambiare tono, oggi. Le perdite cumulate e previste – altri 10 miliardi nel 2014 e altrettanti nel 2015 – non solo sono tali da sopravanzare l’avanzo di amministrazione, ma renderanno negativo già dal 2015 il patrimonio netto dell’INPS, sceso intorno a 15 miliardi a fine del 2013.

Sappiamo che cosa determini queste perdite colossali. L’incorporazione nel 2012 nell’INPS della gestione Inpdap ed Enpals dei dipendenti pubblici. Il passivo 2012 dell’Inpdap è stato di 7,6 miliardi, con un patrimonio negativo di 23 miliardi. In 20 anni l’Inpdap ha sempre battuto record di profondo rosso. I contributi non sono mai stati sufficienti a coprire le spese per pensioni, che sono più elevate di quelle private a parità di qualifica. Per reggere lo sbilancio, politica e sindacati hanno sempre tifato per l’aumento dei lavoratori pubblici (per averne i contributi): ma con lo stop al turnover di questi anni i dipendenti pubblici hanno iniziato a diminuire, e il deficit tra contributi versati e prestazioni si aggrava.

I “regali” ai pensionati pubblici si aggiungono al rosso storico dei fondi dirigenti, elettrici, telefonici e dei coltivatori diretti. La folle scelta di questi ultimi anni – alzare le aliquote contributive ai lavoratori parasubordinati – per quanto realizzi un attivo di 9 miliardi, è in grado di equilibrare le perdite degli altri fondi di lavoro privato, non quelle del lavoro pubblico.

Prima che la riforma Fornero entri pienamente in vigore, per moltissimi anni le pensioni elevate del sistema retribuitivo pre-Dini continueranno a essere pagate. Servirebbe dunque un intervento equitativo proprio sulle pensioni pubbliche: ma nessuno ci metterà mai mano, in nome della solidarietà. E allora bisogna saperlo: nei prossimi anni occorreranno iniezioni per miliardi dalla fiscalità generale. Perché l’INPS dipenderà sempre più da interventi extra bilancio per le prestazioni economiche temporanee – 50 miliardi annui rispetto ai 255 di pensioni corrisposte – e non solo per quelle. Sapevatelo, come si suol dire.

14
Nov
2013

Il metodo della trasparenza: lobby e dintorni (prima parte)

L’accountability di singoli e istituzioni trova il proprio fondamento nella trasparenza, che non è solo mezzo e al contempo fine, ma altresì metodo di svolgimento di ogni attività che abbia pubblica rilevanza. I soggetti che in qualunque ruolo devono rendere conto del proprio operato sono oggi chiamati ad agire secondo modalità idonee a consentire che i propri comportamenti siano pubblicamente verificati e, comunque, giudicati. In questo modo, la loro responsabilità viene sostanziata mediante il controllo che qualunque interessato può operare sui fini perseguiti, sulle motivazioni che ne sono alla base, sulle valutazioni compiute, sugli obiettivi raggiunti e sulle cause di eventuali scostamenti da quelli inizialmente previsti. Il suddetto controllo può essere, dunque, effettuato solo laddove funzioni istituzionali che richiedono l’utilizzo di pubbliche risorse vengano espletate secondo procedimenti che trovino nella trasparenza il proprio connotato. Di tale principio nelle sue più varie accezioni si è più volte scritto: giova evidenziarne il “filo rosso”.

 

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14
Nov
2013

Un nuovo sito per studiare i progressi dell’umanità

Secondo numerose stime, nessuna epoca storica è stata migliore di questa per abitare il nostro pianeta. In realtà non serve certo un genio per capirlo: basta guardarsi attorno. Ma d’altra parte, come osservava argutamente Herbert Spencer, “tanto più migliorano le condizioni dei tempi, tanto più ci si lamenta dei loro mali”. Purtroppo, il divario tra la realtà e il senso comune è notevole. E oggi più che mai va di moda il pessimismo, a cui contribuiscono le opinioni di persone influenti, politici affermati e studiosi di ogni campo. Ma più di chiunque altro sono i media a bombardarci di cattive notizie, ignorando i tantissimi progressi che l’umanità compie ogni giorno nel rendere il mondo un posto sempre migliore.

A combattere questa tendenza sconsideratamente pessimistica ci aveva provato qualche anno fa un grande scrittore scientifico, Matt Ridley, con il suo saggio “L’ottimista razionale”. Secondo Ridley, “gli standard di vita umani sono molto migliori oggi rispetto a qualsiasi altro periodo della storia: a livello globale, il reddito pro capite si è triplicato solo nel corso della mia vita, tenendo conto anche dell’inflazione; la durata media della vita ha avuto un incremento del 30%; la mortalità infantile si è abbattuta di due terzi. Questi trend sono globali e non locali. Se si guarda alle cifre, non si può non riconoscere che siamo sempre più in salute, felici, liberi, benevoli, più pacifisti, più attenti all’igiene, più uguali e anche più intelligenti. Ovviamente non tutti in tutte le parti del mondo. Ma mediamente è così”.

E su questa stessa linea di pensiero è stato inaugurato recentemente un sito, www.humanprogress.org, che si pone come contraltare delle troppe teorie complottiste e fobie immotivate a cui siamo abituati. Come? Semplicemente mostrando l’evidenza. Creato dal Cato Institute (http://www.cato.org), HumanProgress nasce con l’intento di smontare le false convinzioni sullo stato dell’umanità, attraverso un database di studi e pubblicazioni delle più autorevoli istituzioni planetarie (come ad esempio Banca Mondiale, OCSE, Eurostat e ONU) completo e accessibile per studiosi, giornalisti, studenti e chiunque sia interessato. Tra le tante funzioni offerte, il sito permette di esplorare e confrontare diversi indici di sviluppo all’interno di una vasta gamma di fonti, calcolare gli indicatori di benessere umano dei diversi paesi nel corso del tempo ed esaminare dati su tantissimi temi divisi per categorie (tra cui, per esempio, ricchezza, salute, alfabetizzazione, mortalità infantile, transizione verso fonti energetiche alternative, libertà politica ecc.).

Indubbiamente il mondo è ancora popolato da troppe persone che soffrono la fame, le malattie, la violenza e la mancanza di libertà, e la condizione umana è ben lungi dall’essere perfetta. Ma la tendenza dell’umanità è sorprendentemente chiara: il progresso, nonostante tutto, tende a una costante e irreversibile evoluzione in positivo. Constatare i progressi dell’umanità non significa affidarsi a un cieco ottimismo, odioso quanto superficiale. Significa, invece, mettere da parte le opinioni per dare retta ai fatti. Ed è proprio quello che www.humanprogress.org ha l’ambizione di fare su scala planetaria.

 

13
Nov
2013

Più del secondo figlio, conta se in Cina i comunisti aprono davvero a un pieno diritto di libera proprietà

I media italiani hanno deciso oggi di informare sul plenum del Partito Comunista Cinese dedicato alle riforme economiche puntando nei titoli all’apertura al “secondo figlio”, dopo che dal 1979 Pechino segue la linea del contenimento demografico. In effetti è un tema a forte presa popolare, e la demografia cinese è squilibrata poiché ad alcune coorti demografiche centrali – tipo quella tra i 50 e i 54 anni – mancano molti milioni di individui per effetto della Grande Carestia tra il 1958 e il 1962, nonché dei milioni di persone soppresse negli anni 1966-76 per effetto della Rivoluzione Culturale.

Ma l’importanza della nuova linea cinese sta altrove: nel fatto che si punta a una vera estensione del diritto fondamentale per ogni successiva idea evolutiva di libero mercato, il diritto di proprietà. Vedere per credere, naturalmente. Ma senza di questo dire “più mercato e meno Stato” è un ossimoro, con il partito comunista ferreamente al potere.

E’ vero, il comunicato diramato dal plenum è ancora troppo generico, persino i social network cinesi hanno protestato. Ma già dal tono e da alcuni passaggi del comunicato, emergono segnali di grande importanza.

Innanzitutto compare un aggettivo nuovo rispetto al gergo del PCC: si dice che nei prossimi anni il ruolo del mercato dovrà essere “decisivo”. Sinora, nel post Deng Xiao Ping, si era arrivati nei documenti ufficiali a dire che il mercato aveva un ruolo “basic”, ma mai “decisivo”. L’aggettivo apre la porta a una graduale revisione del meccanismo di controllo politico-amministrativo dei prezzi, che domina ancora vastissimi settori della seconda economia mondiale? Vedremo. La Cina oggi è salita al rango di secondo esportatore e terzo importatore, con un Pil che in un decennio è passato dal 15% planetario a superare il 20%.

Ma i passaggi  di potenziale  vera rottura sono altri. Innanzitutto quello in cui si annuncia di voler rivedere il sistema “a due livelli” di proprietà della terra, che sin qui inibiva – nella vastissima Cina rurale, estranea alle 19 aree a sviluppo speciale costiere – agli agricoltori il pieno diritto proprietario della terra, compresa la sua vendita. “Gli agricoltori devono partecipare ugualmente ai frutti della modernizzazione”, recita il comunicato.

Una successiva affermazione va al centro della questione su cui si gioca la sostenibilità del continuo processo di urbanizzazione avvenuto nell’ultimo quindicennio: 30 anni fa solo il 20% della popolazione cinese era urbanizzata, oggi il 48%. E questa migrazione è necessaria perché in 30 anni grazie ad essa il 40% della manodopera cinese si è spostata dall’agricoltura all’industria e ai servizi. Ebbene a questo proposito il comunicato del plenum annuncia un nuovo criterio di distinzione tra territorio urbano e rurale, consentendo alle città di espandersi più rapidamente e promettendo agli agricoltori un più alto risarcimento se la terra verrà espropriata a fini di sviluppo, oltre che di urbanizzazione.

Un mercato fondiario unificato tra città e campagne superererebbe la negazione stessa dell’idea di mercato sin qui mantenuta in oltre il 75% del territorio cinese. Significa anche la necessità di rivedere il sin qui vigente sistema di registrazione rigida della residenza per i lavoratori rurali, una vecchia eredità dello stalinismo. Ma fare davvero questo porta inoltre – altro passaggio importante della dichiarazione finale – ad aggiornare i livelli sin qui molto asimmetrici dei servizi pubblici tra città e campagne: vengono citati sanità, istruzione e pensioni. Senza servizi adeguati, non si diventa consumatori: ed è questo che serve alla Cina, che deve dipendere meno dal suo export e più dal suo mercato interno.

A deludere gli osservatori, sono invece le frasi dedicate alle grandi imprese che restano controllate dallo Stato. Qui il tono resta ispirato a grande prudenza. Si riconosce che i potenti monopoli di Stato hanno un rendimento economico medio pari alla metà dei gruppi privati delle zone speciali di sviluppo, ma attaccarli direttamente avrebbe significato minare alla base il potere dei militari e del partito. Si preferisce parlare di lotta alla corruzione e agli eccessi della burocrazia, e di graduali aperture per gli investimenti privati ​​e stranieri attraverso la deregolamentazione, già testata nelle zone di libero scambio .

Una forte delusione riguarda poi il silenzio su alcune materie che erano invece molto attese, perché “promesse” dai documenti preparatori del plenum: in particolare per ciò che riguarda un graduale passaggio verso forme di liberalizzazione del tasso d’interesse, e una disciplina più di mercato degli intermediari finanziari pubblici. Il cattivo credito, la pessima qualità degli asset bancari, un vastissimo “sistema bancario ombra”, rappresentano grandi minacce sul futuro della Cina, (meglio non immaginare che cosa avverrebbe nel mondo, in caso di default cinesi a catena). Affrontare questi nodi è premessa obbligata per immaginare una valuta cinese, lo yuan-renmimbi, liberamente fluttuante sui mercati, e non più sottoposta al controllo rigido e politico (ma sin qui sapiente) del suo troppo graduale apprezzamento sul dollaro, come avvenuto in questi anni.

Tuttavia è già molto, che la Cina si metta in moto con tanta ufficialità per un nuovo orizzonte entro il 2020, indicando alcuni dei più importanti terreni della sua persistente arretratezza. Se la paragoniamo all’estenuata mancanza di volontà e coraggio del nostro continente europeo, c’è molto da riflettere.