27
Feb
2014

Grecia: la “strage” che si poteva evitare

Segnalavamo tre giorni fa un articolo uscito sul quotidiano La Repubblica che illustrava la “strage degli innocenti” in atto in Grecia a causa dei tagli alla sanità imposti dalla Troika. Nell’edizione di ieri del quotidiano diretto da Ezio Mauro, Barbara Spinelli ha ripreso acriticamente il pezzo di Andrea Tarquini (“Lancet non è un giornale di parte: è tra le prime cinque riviste mediche mondiali. Il suo giudizio sulla situazione ellenica è funesto… le morti bianche dei lattanti sono aumentate fra il 2008 e il 2010 del 43%”). Il fatto che la mortalità infantile in Grecia nel triennio 2010-2012 sia risultata pressoché identica a quella della Germania pare essere un dettaglio trascurabile.

È indubbio peraltro che, nel medio termine, una riduzione consistente della spesa sanitaria avrà ricadute negative la cui reale entità dovrebbe però anch’essa essere descritta evitando toni sensazionalistici.

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27
Feb
2014

SalvaRoma? La Capitale non diventi la Grande Mantenuta

E due. Riappare l’ombra del default sui colli fatali di Roma. Cadde a fine dicembre sotto il veto del Quirinale il mille proroghe, che conteneva anche le misure salva-Roma. E caduto ieri anche il decreto enti locali, in cui le stesse misure erano riproposte. L’ostruzionismo di Lega e Cinque Stelle poneva al governo come unica via porre la fiducia, poiché il decreto scadeva il 28 febbraio. E giustamente Renzi non ha voluto iniziare la vita parlamentare del suo governo con un atto imperativo. Le misure verranno ripresentate venerdì, ferve con il Quirinale il confronto riservato se farlo con un nuovo decreto o no, e se con una sola misura o diverse, visto che anche questo decreto conteneva norme eterogenee, per esempio il rinvio a luglio della web tax.

La polemica è subito diventata rovente. Il sindaco Marino è uscito ieri dall’incontro a Palazzo Chigi contrariato, annunciando che non intende fare il commissario fallimentare. Poi stamane ha aggiunto parole inqualificabili: ha invocato i forconi, ha detto che sospenderà bus e raccolta rifiuti. Non so a voi, ma a me parole simili da parte di un sindaco della Capitale che bisogna salvare dal suo disastro finanziario per la seconda volta dal 2008, danno letteralmente il voltastomaco.  Polemiche di questo tipo non servono a niente, sono solo il frutto di una politica che segue il modello-Masaniello. E’ invece il caso di riflettere seriamente, sulla voragine finanziaria di Roma. Anche per aiutare il governo a scegliere bene.

Primo. Ovviamente ai più può apparire comprensibile, che si debba fare il possibile per evitare il default della Capitale. Governo e parlamento si trovano oltretutto nella condizione di non poter pianamente applicare a Roma Capitale le norme sul default dei Comuni previste all’articolo 244 del Testo Unico Enti Locali, poiché nel 2008 già fu disposto un altro salvataggio, accollando debito pregresso per 12 miliardi a una gestione commissariale. Quel che al governo tocca evitare, però, è che si continui con interventi discrezionali che lanciano segnali sbagliati.

Secondo. Non è un caso, per esempio, che il sindaco di Napoli De Magistris, dopo il salva Roma congegnato nell’autunno scorso a fronte degli aggiuntivi 800 milioni di debiti emersi, chieda esattamente la stessa cosa per Napoli, e per oltre un miliardo. La Corte dei conti ha bocciato il suo piano di rientro, dunque anche Napoli è oggi in condizione di default. Ma come può, un governo nazionale, salvare Roma sì, Napoli no, mentre nel frattempo nel 2012 Alessandria andava dritta al default senza che si levasse una mosca? Che senso ha, discriminare il rispetto della legge a seconda che i sindaci locali siano più o meno dei Masanielli? A questo punto, a Renzi tocca nel salva-Roma – e nel salva-Napoli che si prevede lo accompagni – disporre comunque delle – speriamo – profonde modifiche, che condizionino gli interventi a energici impulsi ai sindaci affinché intraprendano una strada di risanamento del bilancio ordinario, che resta in entrambi i casi fortemente squilibrato a prescindere dal debito pregresso.

Terzo. Una disciplina uniforme, un sistema premiale e non paradossalmente punitivo per amministrazioni che perseguano l’efficienza economica e l’equilibrio finanziario, non è solo una questione di equità orizzontale, tra città e città. C’è anche un tema di equità verticale. Come il governo è chiamato dall’Europa a una severa disciplina dei suoi conti e ad abbattere il debito, lo stesso deve avvenire spalmando e radicando lo stesso dovere nelle Autonomie.

Quarto. Nel caso di Roma, va anche sottolineato che non ha pagato l’atteggiamento parlamentare del Pd. Aver fatto muro in parlamento contro emendamenti della stessa maggioranza di governo – venivano da Scelta Civica, dalla senatoire Lanzillotta – volti a subordinare gli aiuti a Roma a misure condizionali di razionalizzazione delle piante organiche e a cessione di società controllate e partecipate, ha ottenuto l’effetto “chi troppo vuole nulla stringe”. Stride con la realtà, l’aver voluto preservare a ogni costo l’attuale portafoglio di municipalizzate e il numero troppo elevato di dipendenti.

Quinto. Infatti il punto non è solo che oggi, senza un nuovo salva-Roma che abbuoni 600 milioni degli oltre 800 di debito aggiuntivo, salta il pilastro essenziale su cui il sindaco Marino ha fatto approvare il bilancio 2013, lo scorso 6 dicembre. Un bilancio che dava già per scontato il decreto che manca ancora 3 mesi dopo. In ogni caso, ammoniva la Ragioneria Centrale del Comune nelle previsioni per il 2014, senza una seria razionalizzazione della spesa Roma dovrebbe accrescere vertiginosamente molte delle sue entrate: quasi il doppio rispetto all’incasso 2013 da tassa di soggiorno, 15 volte il canone degli impianti pubblicitari, 3 volte quanto ricavato da accertamenti d’infrazioni. E non per ridurre il deficit che resterebbe per centinaia di milioni, ma solo per fronteggiare i minori trasferimenti ordinari al bilancio di Roma dallo Stato, in discesa dagli oltre 700 milioni del 2013 a circa 450 nel 2014.

Sesto. Roma e il sindaco Marino devono percorrere una via alternativa, a quella di diventare l’amministrazione più tassaiola della plurimillenaria storia di Roma. Al governo spetta tracciare una strada che non sia quella di amministrazioni commissariali parallele a cui addossare debiti miliardari di alcune grandi città sì e altre no, un metodo che ai privati è naturalmente negato dai codici. Ma a Marino e alla sua giunta spetta il dovere di comportarsi come una grande azienda in difficoltà. E’ ora di finirla con la finanza creativa, e di procedere a una revisione approfondita della spesa, e delle troppe partecipate e controllate pubbliche. Il sindaco si è lamentato dei disservizi dell’ACEA, ma l’Atac, con quasi 12 mila dipendenti e un fatturato che sfiora 1,2 miliardi di euro, lo deriva per quasi il 70% dai contributi pubblici, cioè dai contribuenti. Una volta utilizzati tutti i ricavi da biglietti e abbonamenti, bisogna ancora coprire il 55% dei costi per il personale, carburante e tutti gli altri. In 4 anni l’Atac ha perso in termini operativi quasi 700 milioni, nonostante circa 3 miliardi di contributi pubblici. Dall’amministratore delegato dell’AMA, abbiamo appreso l’altroieri che dei 7800 dipendenti anche mille in taluni giorni non si presentano al lavoro. Che incentivo al dovere può venire ai dipendenti, se dall’alto il criterio praticato è quello di salvare senza vincoli all’efficienza?

Settimo. Tutti i sindaci lamentano che criticare è facile. Lo sappiamo. Ma Roma Capitale, di colpo di spugna in colpo di spugna e di tassa in sovrattassa, perde attrattività d’impresa e turistica, scende nelle graduatorie internazionali di vivibilità. Con una pressione fiscale in ulteriore crescita, prima che votare con le mani ogni tot anni, impresa e lavoro votano con i piedi ogni giorno: se ne vanno. Ecco perché, approfittando della caduta bis del salva-Roma, sono da preferirsi due cose. La prima è che il governo magari riduca il salvataggio alla parte che consente di tenere in piedi il bilancio 2013, ma eviti di spalmarne sul 2014 gli effetti, per spingere Marino a cambiare marcia. La seconda è che, a quel punto e a maggior ragione, l’amministrazione Marino a propria volta imbocchi una discontinuità vera e profonda ispirata al rigore di spesa, non solo alle maggiorazioni fiscali. Eviti ai romani di pagare le tasse più alte d’Italia. E di farne pagare in più per Roma a tutti gli italiani. Non solo perché le decime ecclesiastiche e le tasse del Papa-Re appaiono ormai come un sogno da rimpiangere, ai cittadini di Roma. Ma perché gli aiuti a più di lista eternano in Italia l’idea di Roma come “Grande Mantenuta”, un archetipo che non ci piace ma che come si vede ha un fondamento, e che i romani non meritano.

 

26
Feb
2014

La posta elettronica pubblica certificata: ovvero gli errori da non continuare e da non ripetere—di Mario Dal Co

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Mario Dal Co.

Come noto, a febbraio 2014 si conclude il contratto stipulato per la CEC PAC, ossia la posta certificata che i cittadini possono richiedere gratuitamente per le comunicazioni con la Pubblica Amministrazione (ed essa soltanto).

L’importo effettivamente corrisposto (tetto di 50 milioni, di cui allocati 25 per i primi 4 anni di servizio che si concludono alla data sopra indicata) non è andato oltre il primo acconto, assai inferiore ai 25 milioni, essendosi poi bloccato il processo dal punto di vista amministrativo tra Telecom/Poste e il Dipartimento Innovazione. Quest’ultimo ha poi attraversato le note vicende, rimanendo un’entità indefinita tra riassetto e soppressione. Tali vicende hanno portato ad una sostanziale non gestione dei rapporti anche verso terzi, come insegna la vicenda dei Fondi High Tech. Anche a giudizio di esperti non di parte, il rapporto contrattuale non è stato gestito e ciò ha portato al sostanziale stallo del progetto, che, per altro, soffriva di limiti intrinseci assai rilevanti (vedi i punti  1-3 infra).

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24
Feb
2014

La Troika e la “strage degli innocenti”

“Grecia, strage degli innocenti: +43% di mortalità infantile dopo i tagli alla sanità”. Così titola oggi la Repubblica un articolo di Andrea Tarquini che riprende i risultati di una ricerca pubblicata sulla rivista Lancet (“Greece’s health crisis: from austerity to denialism” – PDF). In effetti, nel paper a p. 757 si legge:

“The long-term fall in infant mortality has reversed, rising by 43% between 2008 and 2010”.

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24
Feb
2014

Le aberrazioni di un sistema tributario e della sua giustizia – di Antonio De Rinaldis

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Antonio De Rinaldis.

Nel 1985 alcune persone vendettero degli appezzamenti di terra. Nel 1987 l’Ufficio del Registro rettificò il valore percepito e dichiarato nell’atto di vendita. Naturalmente i venditori fecero ricorso all’allora Commissione Tributaria di I° grado che dette loro ragione in toto.

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22
Feb
2014

Le donne arrivano nei Cda: è una buona notizia?

Dalla prima indagine di Federutility sulla presenza delle donne nelle public utilities dopo l’entrata in vigore della legge Golfo-Mosca emerge che la presenza femminile nei cda è quasi raddoppiata. Segno probabile che l’obbligo di mantenere una composizione del consiglio equilibrata nel genere, prevista appunto dalla legge per i primi tre rinnovi dalla sua entrata in vigore, ha funzionato.

È una buona notizia?

Dipende.

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21
Feb
2014

Il meretricio è già tassabile

Da qualche anno non c’è più bisogno di “difendere l’indifendibile” prostituzione – per riprendere il titolo di un agile libro di Walter Block edito in Italia da Liberilibri – quantomeno di fronte al fisco.

Attività non illegale ma nemmeno regolamentata, così da restare nell’opacità delle attività nascoste, essa è comunque riconosciuta dal fisco come fonte di reddito, cosicché chi ad essa si dedica può, anzi deve, pagare le tasse sui proventi ricevuti.

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21
Feb
2014

Eduardo, il panettiere suicida contro uno Stato pazzo

Eduardo De Falco, 43 anni, titolare di un panificio-pizzeria a Casalnuovo nella provincia di Napoli, è una nuova vittima delle aberrazioni del fisco italiano. Si è tolto la vita, una volta raggiunto da una sanzione – 2 mila euro da pagare in  24 ore, 10 mila a seguire – elevatagli dall’Ispettorato del Lavoro. L’accusa: sua moglie lavorava in bottega, ma non versava contributi. Eduardo non è un piccolo imprenditore che preferisce la morte alla vergogna, per esser stato sorpreso dallo Stato a offrire lavoro in nero. E’ invece una vittima. Vittima di ciò che la legge e la prassi fiscale italiane sono divenute negli anni, via via che lo Stato si faceva sempre più assetato e avido di entrate, nei confronti di quella particolare e diffusissima realtà italiana che sono le imprese familiari. Non lo affermiamo per polemica contro lo Stato. Ma guardando all’evoluzione nel tempo di ciò che è stato previsto, in ordine agli obblighi fiscali e contributivi di chi partecipa a un’impresa familiare.

Il codice civile all’articolo 230 bis stabilisce che impresa familiare è quella in cui collaborano coniuge, parenti entro il terzo grado ed affini entro il secondo grado. In pratica, l’impresa ha carattere individuale e l’imprenditore assume in proprio diritti e obbligazioni nascenti dai rapporti con i terzi. Ciò significa che il familiare diverso dal titolare collabora all’impresa, non la cogestisce. Altrimenti, bisognerebbe costituire una società, con tutti gli obblighi conseguenti.

La riforma del diritto di famiglia, a metà anni Settanta, ebbe come conseguenza una nuova disciplina dei diritti patrimoniali e della partecipazione agli utili nelle imprese familiari, collegata al nuovo status paritario della donna. Nonché ai suoi diritti in caso di separazione tra coniugi, o di cessazione delle attività, o di atti eventualmente posti in essere dall’imprenditore in contrasto alla volontà dei familiari. La Cassazione, con diverse sentenze, fissò l’orientamento per il quale deve riconoscersi la qualifica di partecipante all’impresa familiare alla moglie anche casalinga, che effettui però per l’impresa prestazioni anche saltuarie che concorrano alla produttività dell’azienda. Tutte cose sacrosante.

Senonché per decenni il familiare partecipante all’impresa poteva a pieno titolo essere un coadiuvante a titolo gratuito, dunque con nessun obbligo di remunerazione né di contribuzione. E’ questo, il punto rilevante da cui partire per comprendere il dramma di cui è stato vittima Eduardo De Falco. Era una disciplina che aveva un senso eccome, per agevolare la microimpresa familiare, una disciplina che rimase a lungo in vigore quando ancora in Italia sussisteva il cumulo dei redditi tra familiari, prima che la Corte Costituzionale a metà anni Settanta lo facesse decadere, rendendo il fisco italiano il più ostile alla famiglia in tutti i Paesi occidentali, nel nome della scelta che dobbiamo essere tutti solo contribuenti individuali di fronte allo Stato. Una scemenza – al mio punto di vista – che ha contribuito ad abbattere la curva demografica italiana, mentre in Francia resta il quoziente familiare e negli Usa – il sistema che preferisco – i coniugi sono liberi di scegliere tra tassazione individuale e cumulo, che naturalmente abbatte l’aliquota marginale da pagare.

La condizione del coadiuvante a titolo gratuito nell’impresa familiare era ancora coerente alla disciplina fiscale dei componenti l’impresa familiare che venne con il D.P.R. 917 del 1986, il quale precisava che i redditi delle imprese familiari, limitatamente al 49% dell’ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell’imprenditore-capoazienda, sono imputati a ciascun familiare, che abbia però prestato in modo continuativo e prevalente attività di lavoro nell’impresa, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili. Purché, diceva la norma, ciascun familiare attestasse nella propria dichiarazione dei redditi di aver prestato la propria attività di lavoro in modo continuativo e prevalente. Come vedete, nessun obbligo.

Ma le cose cambiarono dieci anni dopo. Il legislatore, allora, si piegò alle istanze insistenti dell’INPS e dell’INAIL, per i quali la disciplina era stata troppo generosa. Lo Stato stava perdendo troppi contributi, sui quali era meglio mettere le mani. Era un errore, affidarsi all’autodichiarazione della prestazione “continuativa e prevalente” da parte degli stessi familiari. Ed ecco che con la legge 335/95 il titolare e i familiari lavoratori divvenero tutti , tutti senza eccezione, tenuti ad iscriversi alla speciale gestione lavoratori autonomi INPS e a versare i relativi contributi. I quali, di fatto, vengono corrisposti dal titolare dell’impresa familiare, che ha anche diritto ad esercitare il diritto di rivalsa nei confronti di ciascun partecipante per la quota dallo stesso dovuta.

Eccolo, l’obbligo evaso contestato a Eduardo. Eccola, la norma che l’ispettore del lavoro ha creduto bene di applicargli. Eppure, malgrado la sete statale di entrate, malgrado quella legge generale dell’obbligo contributivo. ancor oggi non è affatto detto che debba essere applicata senza eccezioni. La Corte di Cassazione, con la sentenza del 30 maggio 2013 n. 13580, ha stabilito infatti che l’obbligo di iscrizione alla gestione assicurativa degli esercenti attività commerciale dell’impresa familiare non è generale, ma sussiste solo quando l’attività lavorativa ha carattere continuativo e non occasionale. E il caso impugnato fino alla Cassazione era proprio quello di un titolare di una vendita di articoli sportivi ai cui coadiuvanti familiari era stata applicata la stessa norma e lo stesso mancato pagamento contributivo contestati a Eduardo per sua moglie.

Eduardo, con ogni probabilità, non ha avuto il tempo e il modo di ricorrere a un consulto con un avvocato del lavoro. Di fronte alla multa e alle migliaia di euro dovute, gli è mancata la terra sotto i piedi.  Ha collegato la marmitta all’abitacolo della sua auto. Ha acceso il motore. E se n’è andato così. Lasciando amici e familiari nel dolore. E noi tutti muti, di fronte alle vittime che lo Stato tassatore cieco e ingiusto continua a produrre ogni giorno nel nostro impoverito Paese.

20
Feb
2014

Gli LSU e le scuole occupate: triste parabola delle non-scelte pubbliche

E’ rientrata dopo due giorni in tutta la Campania, l’emergenza dell’interruzione di pubblico servizio scolastico da parte dei lavoratori ex LSU addetti alla pulizia degli istituti. Iniziamo a dire che si tratta di un reato, e come tale andrebbe perseguito. Aggiungiamo che non è stata questa, la riposta delle istituzioni. Né di quelle locali, a cominciare dal sindaco di Napoli De Magistris, che ha pregato solo al secondo giorno chi picchettava le scuole di lasciarle funzionare, visto che “l’emergenza occupazione era stata segnalata”. Né della stessa amministrazione scolastica, visto che il direttore dell’Ufficio Scolastico Regionale Bouchè ha ritenuto di sensibilizzare i dirigenti scolastici a chiedere l’intervento delle forze dell’ordine solo in “nuovi casi” di occupazione.

Ma parliamoci chiaro: l’occupazione delle scuole senza reazioni immediate da parte delle istituzioni non rivela solo il venir meno, anche nella scuola, di quel principio di ininterrompiblità del servizio pubblico essenziale che dovrebbe essere pilastro di una società ordinata, ma in Italia non lo è. E non è questione che si risolva ora in una raffica di denunce penali, visto che di fatto sono i vertici stessi delle amministrazioni territoriali e scolastiche – come a genova furono quelle dei trasporti – a “comprendere” benissimo chi ha impedito le lezioni ad allievi e docenti.

La vicenda degli ex LSU, la loro protesta e la reazione che ha suscitato, apre uno squarcio di luce assai più ampio dell’ormai inesistente senso dello Stato. Inquadra una delle maggiori difficoltà italiane. L’incapacità di assumere decisioni chiare, numeri alla mano da una parte e vite delle persone dall’altra. E’ in realtà una delle scelte più difficili ma insieme più necessarie della politica, decidere nelle difficoltà. In Italia, per decenni si è preferito il rinvio, la protrazione di una promessa a tempo. Costosa per il contribuente. E tale da indurre dipendenza nei beneficiari a tempo, invece di indurli a propria volta a scelte per il propruio meglio.

E’ di questo tipo, infatti, la storia dei più di 24 mila ex Lavoratori Socialmente Utili, categoria creata in Italia non all’interno di una organica riforma del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali, ma tre decenni fa per tentare di assorbire in grandi città del Mezzogiorno almeno una parte dei disoccupati di lungo periodo, ormai specializzatisi nell’esercitare pressioni sulla politica e nei macrocontesti urbani attraverso autocoordinamenti stabili nel tempo e molto attivi. Napoli ne sa qualcosa, per anni e anni le “liste storiche” dei disoccupati sono state una costante dei blocchi stradali cittadini. Senza preavviso, ovviamente.

Nel 1994-96 due esigenze si incrociarono. Anche in quel caso, non attraverso una scelta meditata e stabile nel tempo. Da una parte il sistema scolastico si piegava al fatto che il personale tecnico ATA – quelli che un tempo si chiamavano bidelli, ora per carità parola da non usare sotto pena d’interdetto– non era adeguato alla necessità che aveva espletato per decenni, pulire le scuole. Di conseguenza, si sarebbero utilizzati con rapporti a tempo gli ex LSU e non solo loro, diverse decine di migliaia di lavoratori esterni che oggi guadagnano circa 850 euro al mese. Gli ex LSU, per parte loro, vedevano eternata una vita precaria, arrangiandosi facendo anche altro. Ma era meglio di niente, in un sistema pubblico che per decenni continua a offrirti rapporti né formativi né di ricollocamento.

La spesa nazionale per questa sola voce giunse ad assommare a oltre 600 milioni, fino al punto in cui nel 2012 la crisi obbligò il Ministero a un’altra scelta. Occorreva una gestione efficiente e trasparente dei servizi di pulizia scolastici, e anche in grado di pretendere standard di efficienza verificabile, come con gli ex LSU è di fatto da sempre impossibile. Per questo il compito venne affidato alla CONSIP, che nel 2013 ha diviso l’intero territorio nazionale in 13 lotti di gara, e ne ha banditi 10.

Quando si è trattato di bandire la gara in Campania, dove si concentra oltre la metà degli ex LSU, guarda caso a un burocrate è scappato di penna un pasticcio, che ha determinato un primo annullamento. A quel punto la legge di stabilità aveva però stabilito che a fine febbraio 2014 le risorse per gli ex LSU della scuola si sarebbero esaurite. Ecco perché sono partiti i blocchi delle scuole, a Napoli e in Campania. E che cosa ha fatto la politica? Ha saputo dare una risposta adeguata al pasticcio accumulato nel tempo, e a quello aggiuntivo che si compie oggi? No, il ministro Carrozza ha reperito nell’urgenza 20 milioni, e così si tira avanti un altro mese. Dopo quasi vent’anni di LSU nella scuola, non sono loro a poter offrire prezzi e standard competitivi con le imprese specializzate che partecipano alle gare. Ma è anche vero che lo Stato non li ha formati per questo, li ha solo eternati come spazzini. E loro dall’altra parte vogliono essere assunti come personale scolastico ATA a tutti gli effetti. Ormai cinquantenni e oltre, è tutta una vita che inseguono il posto fisso.

In quanti altri casi italiani, la politica per decenni non ha saputo scegliere tra una riforma equilibrata ed efficiente del welfare, e il costo umano della delusione di dover dire “ rispecializzati per un tempo limitato e ricollocati”, piuttosto che promettere contratti a tempo privi di formazione da rinnovare dopo ogni elezione? Lo sappiamo, tantissime volte. Chissà se l’Italia di Renzi saprà adottare scelte di questo tipo. E’ necessario, come è avvenuto con i pacchetti Hartz in Germania. Non tanto e solo perché le scuole non interrompano le lezioni. Il punto è che a furia di non scegliere, la politica ha trattato quei disoccupati per troppo tempo come se fossero dei mendicanti di Stato, e il danno inflitto alle loro vite e alla loro dignità in venti e più anni è irrisarcibile.