25
Mar
2014

Quote rosa in Parlamento europeo: libertà di voto si va cercando

Il Senato ha pochi giorni fa approvato una modifica alla legge elettorale per il Parlamento europeo, che introduce alcuni vincoli di genere alle candidature.

La legge, ora passata alla Camera, ripropone anche per la rappresentanza europea il tema delle quote rosa, con effetti e problematiche tuttavia molto diversi rispetto a quelli che si sarebbero avuti nel caso di introduzione delle quote di genere per l’elezione al parlamento nazionale.

Read More

24
Mar
2014

Pagare i politici per quel che valgono

La discussione sulle retribuzioni dei manager  pubblici, seguita all’ipotesi di tagli prospettata dal governo, com’era immaginabile, si è polarizzata ideologicamente tra le voci del sentimento anticasta, che plaudono all’idea di dare finalmente un taglio ai burocrati nominati dagli amici degli amici e i bastian contrari, che pur di non  apparire demagogici, si arrampicano sugli specchi a difendere l’indifendibile.

La questione è in realtà un poco più complicata di così e ha ben poco a che fare con la concorrenza e il mercato, come ho provato a spigare in questo post.
Dai manager ai politici il passo è breve ed ecco, ad esempio, Luca Telese su linkiesta,  paventare l’ascesa dei mediocri qualora ci permettessimo di pagare troppo poco gli eletti dal popolo.
Quanto è giusto pagare un sindaco o un deputato?
Si tratta di una domanda alla quale è quasi impossibile rispondere, poiché è estremamente complicato quantificare  il contributo che queste persone danno alla collettività e, di conseguenza, il compenso adeguato per questo contributo non è certo determinabile da un sistema di mercato.
O forse si?
Facciamo un passo indietro. La difficoltà nel determinare il compenso adeguato per l’attività politica deriva dall’assimilazione dello stesso a un lavoro vero e proprio. In quest’ottica, non esiste un motivo valido per sostenere che un deputato debba essere pagato quanto un medico o  un ingegnere piuttosto che quanto un operaio o un netturbino.
Se proviamo invece a partire da un presupposto differente tutto diventa più semplice e lineare. Se intendiamo la politica come un servizio temporaneo per la collettività e fin troppo banale determinare qual è il compenso equo che consenta di evitare la selezione avversa dei migliori: è sufficiente retribuire chi fa politica in misura proporzionale a quando ha dichiarato negli ultimi anni prima di candidarsi.
Se per un certo periodo un agricoltore, un avvocato o un idraulico decidono di servire la comunità, verranno compensati con un importo pari alla media dei redditi dichiarati negli anni precedenti alla loro elezione. Una persona che, con le proprie capacità, riusciva  a guadagnare 30 o 50 o 100mila euro l’anno prima di fare politica, guadagnerà altrettanto nel limitato periodo di tempo in cui decide di servire la collettività.
I vantaggi più evidenti di questa soluzione sono che:
  • nessuno potrebbe guadagnare dall’attività politica più di quanto ottiene dal suo lavoro ordinario
  • chi percepisce redditi non dichiarati dovrebbe rinunciarvi per fare politica
  • il limite al tempo consentito all’attività politica favorirebbe un utile ricambio
  • si abolisce o ridimensiona la figura del politico di mestiere che spesso non riesce a comprendere le esigenze dei cittadini che devono lavorare per vivere
  • il peso dell’ultima retribuzione verrebbe  mediato con gli anni precedenti limitando la convenienza di “aumentarlo ad arte”
Onde evitare gli inconvenienti,che potrebbero verificarsi agli estremi, si può immaginare di prevedere un minimo e un massimo alle retribuzioni parametrandole, ad esempio, al pil pro capite oppure ad altre soglie derivanti dalla distribuzione per reddito della popolazione.
Insomma, se la politica venisse considerata un servizio piuttosto che un mestiere esiste un compenso equo per chi vi si dedica a e coinciderebbe con il costo opportunità del tempo dedicato a questa attività che, per definizione, dovrebbe essere limitato (es due mandati).
19
Mar
2014

Auto: i numeri del mercato, brand e sconti dicono che per Fiat resterà dura

Il salone di Ginevra che si è appena chiuso è l’occasione tradizionale per fare il punto sulle prospettive annuali dell’auto in Europa, come quello di Detroit a gennaio tradizionalmente lo è per il mercato americano. Così, se a Ginevra non è mancata una raffica di straordinarie novità – per me sopra tutte la Ferrari California T, la Lamborghini Huracan, il minivan BMW serie 2 Active Tourer, la Peugeot 308 SW e il coupé Mercedes classe S – quel che è contato di più è il sentiment di mercato che si è respirato nei padiglioni delle case costruttrici. Senza essere ottimisti questa volta si può dire: finalmente, una svolta positiva.

I dati appena usciti delle immatricolazioni europee a febbraio confermano che ci siamo. Il 2014 per come è partito dovrebbe proprio essere per l’auto in Europa il primo anno di ritorno alla crescita, dopo sei consecutivi di drammatico calo. Certo, bisogna guardarsi dai trionfalismi. E’ vero che a febbraio le immatricolazioni continentali sono salite dell’8%, che dopo il +5% di gennaio la media del primo bimestre è di + 6,6%, e che siamo al sesto mese consecutivo di ripresa della crescita. Ma  in ogni caso si resta lontanissimi dai numeri pre-crisi, e le previsioni più autorevoli restano ancorate a un 2014 già soddisfacente per l’auto in Europa se chiudesse a dicembre con un +3%. Significherebbe, rispetto ai 12,2 milioni di veicoli nel 2013 nell’area Ue più paesi EFTA, superare di poco i 12,5 milioni. Per rinviare al 2015 il superamento di quota 13 milioni, e solo al 2017 la soglia dei 14. Una prospettiva di questo tipo significa per l’Italia superare nel 2014 di poco 1,3 milioni di unità del 2013, tornare verso il milione e mezzo se va bene nel 2015, e nessuno riesce a essere così ottimista sulla crescita del nostro paese da azzardare quando, di qui al 2020, con l’attuale curva demografica e perdita di reddito dei ceti medio-bassi, sia davvero pensabile tornare verso quota 1,8-1,9 milioni. Come raffronto, la Germania nel 2014 torna a superare di slancio quota 3 milioni, il Regno Unito sale verso quota 2,3 e la Francia supererà il milione e ottocentomila. Se pensiamo al pre-crisi, per l’Italia siamo ancora a meno 48%, meno 54% per la Spagna, meno 14% per la Francia, mentre Germania e Regno Unito nel 2014 dovrebbero tornare sopra il livello del 2007

Quali sono i maggiori trend di mercato, in questi primi mesi di ritorno a un sia pur moderato ottimismo europeo? E c he cosa dicono, a un gruppo come Fiat-Chrysler in Europa? Per capire meglio distinguiamo tre livelli: produttori, classi di veicoli, politiche del prezzo.

Iniziamo dalle case produttrici. Nel 2013, le uniche due ad aver chiuso con un segno positivo, mentre il mercato complessivo europeo chiudeva con un meno 1,8% sul 2012, sono state Renault e Daimler, entrambe con un +4%, Si va poi da perdite fino all’1% – Toyota, BMW, VW – tra il meno 3 e meno 4% – Ford e GM – per poi arrivare al meno 7,3% del gruppo Fiat-Chrysler, e al meno 8,5% del gruppo francese PSA.

Se all’interno dei gruppi costruttori consideriamo i brand, rispetto al 2012 in testa a tutti è stata la Dacia (che ha trascinato in alto il suo gruppo Renault) con uno spettacolare +23%,  Mazda con più 18% (la sua CX-6 è diventata la giapponese più venduta in Ue) , Jaguar con più 15,7% (la F-Type è stata un successo) e Seat con più 11%. Bene anche Mercedes, Mitsubishi e Skoda, tra il più 4 e più 5%. In fondo alla classifica, tra chi ha fatto il peggio del peggio rispetto al -1,8% del mercato, Alfa Romeo con -28,4% (64 mila auto vendute in Europa), Lancia con meno 20% (74mila), Chevrolet con meno 18%, ma anche Jeep con meno 14% (143 mila).  Non è un caso che GM  abbia deciso di ritirare Chevrolet  dall’Europa per non danneggiare oltre Opel-Vauxhall. E che Marchionne a dicembre scorso abbia mestamente annunciato che Lancia sparisce dai mercato europei per concentrarsi solo in Italia, dove vende più dell’80% della sua Ypsilon. Del rilancio Alfa Romeo, mai caduta a livelli così bassi in Europa dal 1964, certo saprete che è stato annunciato per la quarta volta in sei anni da Marchionne: mah, vedremo, non resta altro da dire.

Se passiamo ai diversi segmenti di mercato, l’acquirente europeo nel 2013 ha dato segnali molto precisi. In testa a tutti, per miglioramento sul 2012, il segmento degli Small SUV e Crossover: addirittura più 77% sul 2012, passando da 290 mila unità 2012 a 515mila nel 2013. Con tre modelli a combattersi la palma: Nissan Juke, Dacia Duster e Renault Capture, tutti intorno o poco sopra quota 100mila. Le auto elettriche crescono del 74%, ma sono ferme a quota31mila in tutt’Europa, robetta. Pesa molto di più il 24% guadagnato dalle Compact Premium, che balzano oltre quota 780mila e dove i protagonisti assoluti sono la serie A3 Audi con quasi 170mila unità, la serie 1 BMW a quota 142mila, le Mercedes classi A e B che sommate superano quota 236mila unità.

Il segmento Subcompact – quello che pesa di più in Europa con 2,7 milioni di unità vendute nel 2013 e un leader ormai maturo Ford Fiesta, con un altro in forte ascesa, Renault Clio, e presenze forti ma mature in discesa come VW Polo e Opel Corsa – ha perso complessivamente il 3,6% sul 2012.  Quello Compact – complessivamente 2,4 milioni in Europa nel 2013, con la Golf che da sola vale 490mila pezzi, Ford Focus a 250mila, Opel Astra a 200mila e Skoda Octavia a 193mila – è andato invece meglio, con un più 2,4% sul 2012.  Le Minicar – il regno tradizionale italiano, con Fiat 500 leader a quota 161mila e l’inossidabile Panda a 152mila, per capirci Renault Twingo deve accontentarsi di meno della metà – ha segnato un terribile meno 6,1%.  I Compact SUV – leader Nissan Qashqai a quota 215mila, poi VW Tiguan a 150mila – ha comunque guadagnato un 2%, di fatto eguagliando le Minicar, oltre quota un milione.  Tra i segmenti di maggior impatto, male il MidSize Premium – vale mezzo milione di auto in Ue, leader la BMW serie 3 a quota 200mila e l’Audi4 a 130mila – che ha perso l’8,5%. E male anche il Large Premium- 400 mila unità nel 2013, leader BMW serie 5 a quota 113mila e la classe E Mercedes a 90 mila – che ha perso il 5%.

E’ evidente che i segmenti Compact Premium e Small SUV sono quelli che concentrano, agli occhi del consumatore europeo, il massimo di appeal, prestazioni e dotazioni rispetto ai prezzi praticati. Per i costruttori, sono diventati i segmenti in cui si guadagna di più, con margini inferiori del segmento Premium elevato, ma con volumi che consentono di rifarsi del minor margine unitario. Inutile aspettare un rilancio -bomba del segmento MINICAR, il tradizionale bacino dei Paesi latini e Fiat. I soldi veri si fanno altrove.

E qui chiudiamo con un a nota dolente. Considerando attentamente gli osservatori nazionali degli sconti medi praticati dai costruttori alla vendita, rispetto ai prezzi di listino dichiarati inizialmente, la conclusione che si trae è che la situazione resterà molto difficile, per chi è in affanno per aver saltato cicli d’investimento, e deve difendere modelli “maturi” declinanti per tentare comunque di presidiare il mercato. Nello scorso autunno in Germania Ford proponeva sconti fino al 22%, Citroen al 21, Opel al 20. rispetto a une media di mercato del 18%, mentre VW offriva solo il 12%. Del tutto identica la situazione in Francia: Citroen, Opel e Renault al  20% di sconto, Ford al 16%, VW al 13%. Marchionne del resto l’aveva già detto a settembre, al salone di Francoforte, che non era d’accordo con l’opinione allora in via di rafforzamento secondo la quale nel 2014 sarebbe stato possibile cambiare, con la ripresa, le politiche di prezzo. Resterà molto dura, per chi deve risalire la china rispetto ai giganti tedeschi ben piantati nel segmento Premium.

18
Mar
2014

Il dito della burocrazia, la luna delle norme

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Luigi Olivieri (ieri, per errore, era stato pubblicato al posto di questo un vecchio post di Olivieri. Ci scusiamo con l’autore e i lettori per l’errore).

Il dibattito sulla “lotta alla burocrazia” di questi mesi dà la sensazione che i problemi dell’amministrazione italiana possano combattersi, se non esclusivamente, prevalentemente mediante nuove regole sul reclutamento della dirigenza. Si conferma la tendenza alla “personalizzazione” dei problemi, nella convinzione che “cambiando allenatore, la squadra migliori”.

Indubbiamente il problema della selezione e soprattutto valutazione dei vertici si pone, ma se il tema è la “burocrazia che opprime”, questo non basta.

Read More

16
Mar
2014

Tassazione rendite finanziarie: perché è un esproprio

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Natale D’Amico

L’aumento drastico della tassazione sulle rendite finanziarie, annunciata dal governo, ha destato meno reazioni di quanto sarebbe stato lecito attendersi. Eppure si tratta di un vero e proprio esproprio, che spesso finirà per azzerare il rendimento dei risparmi degli italiani, e che in non pochi casi inciderà sullo stesso capitale.

Il perché è presto detto, e un esempio forse aiuta a spiegare.

Read More

15
Mar
2014

La presunta strategicità della spesa pubblica sfatata dall’empiria

“Occorre dare nuovo slancio all’economia con investimenti pubblici in settori strategici”

“Dobbiamo mantenere anzi rafforzare gli asset pubblici per promuovere la crescita del sistema Paese”

I politici sembrano spesso molto esperti in “strategie d’investimento”, ma quanto incidono i presunti investimenti strategici di spesa pubblica sulla crescita economica? Read More

14
Mar
2014

Tutte le ragioni del NO, no e poi no al 26% sul risparmio

Che pensate dell’aumento al 26% della tassazione sul risparmio? La sinistra considera questa misura il bollo di qualità della manovra-Renzi, come un primo passo per riequilibrare il gap di tassazione a sfavore del lavoro e a favore del capitale. ma il riequilibrio andrebbe fatto verso il basso tagliando l’IRAP, non alzando verso l’alto le tasse sul risparmio. In ogni caso vi dico come la penso io: se ci sono liberali in parlamento, ma vorrei dire basta che siano persone di buon senso comunque la pensino, allora dicano un NO chiaro e forte all’ aliquota 26% ammazza-risparmio.

NO al 26% ammazza-risparmio perché è una nuova patrimoniale che si somma a patrimoniale salita a 0,2% quest’anno su conto-titoli.

NO al 26% ammazza-risparmio perché azzanna solo piccoli risparmiatori mentre salva i “lordisti”, cioè banche e intermediari finanziari, e soci qualificati delle imprese (chi detiene almeno 5% del capitale di una quotata, e 20% di ogni società): entrambi (i secondi per il 49%) portano le rendite da capitale in dichiarazione sui redditi, cioè a tassazione progressiva se persone fisiche o ad aliquota flat IRES su reddito d’impresa.

No al 26% ammazza-risparmio perché come tutte le patrimoniali è regressiva, mentre in Germania chi ha meno reddito – entro l’aliquota 25% di tassazioen su reddito personale – porta le rendite da capitale  in Irpef, con franchigia esentasse di 8100 euro  e pagando sul resto bassa aliquota progressiva.

NO al 26% ammazza-risparmio perché è bastata la TobinTax all’italiana ad abbattere del -20% i volumi di trading in Italia,  mentre grandi paesi Ue NON l’hanno adottata.

NO al 26% ammazza-risparmio perché i 2,5 bn di gettito atteso innanzitutto sono sovrastimati, e comunque molti di + si devono ricavare da tagli alla spesa.

No al 26% ammazza-risparmio infine perché è intollerabile che lo Stato tassi al 12,5% il risparmio diretto ai suoi titoli e a poste pubblica, mentre ammazza tutto il resto: è pura espressione della sete di Stato a suo vantaggio, e questa è pura e brutale REPRESSIONE FISCALE .

Mi riconosco, tanto per chiarire, parola per parola in questa citazione da Free to Choose, di Milton e Rose Friedman:

“When the law interferes with people’s pursuit of their own values, they will try to find a way around. They will evade the law, they will break the law, or they will leave the country. Few of us believe in a moral code that justifies forcing people to give up much of what they produce to finance payments to persons they do not know for purposes they may not approve of. When the law contradicts what most people regard as moral and proper, they will break the law–whether the law is enacted in the name of a noble ideal such as equality or in the naked interest of one group at the expense of another. Only fear of punishment, not a sense of justice and morality, will lead people to obey the law. “

13
Mar
2014

Cari sindacati, ve lo richiediamo: per il 1° maggio pubblicate un bilancio consolidato

E’ molto interessante, la lettera che i tre segretari dei sindacato confederale hanno indirizzato al Messaggero in replica all’inchiesta  “Un miliardo dallo Stato: ecco il conto dei sindacati”, a firma di Osvaldo De Paolini. Perché contesta tignosamente molti dati dell’inchiesta, e questo è più che legittimo. Perché li attribuisce a un intento malevolo verso il sindacato e le sue funzioni, e qui occorre capirsi. E, infine e soprattutto, perché non entra davvero nel merito che tutti noi ci saremmo aspettati, cioè la smentita o la contro argomentazione sul miliardo pubblico annuo ricevuto dal sindacato. Roba da far apparire noccioline il finanziamento ai partiti.

Una “contro cifra” non c’è, nella pseudo-smentita di Cgil, Cisl e Uil. Ed è esattamente questo il punto fondamentale che l’inchiesta intende sollevare. E sul quale vale la pena di tornare. Non c’è perché la natura giuridica del sindacato in Italia è rimasta notoriamente “incompleta”. L’articolo 39 della Costituzione prevedeva una legge attuativa in materia di libertà sindacale riconosciuta, e con la “registrazione” sarebbe stato possibile codificare un quadro preciso di responsabilità-controlli pubblici senza alcuna lesione delle sacrosante libertà sindacali. Ma quella legge non è mai stata approvata. E così i sindacati restano di fatto libere associazioni non riconosciute, soggette ai magri articoli del codice civile che disciplinavano nel 1942 tale forma di libera organizzazione dei corpi intermedi.

La legge ha sorvolato su tale mancanza di piena personalità giuridica in materia di rispetto dei contratti collettivi e di diritto di sciopero e relativa proclamazione. Spesso, per questa stessa ragione, la magistratura ha imboccato strade opposte in relazione alla tutela delle “libertà interne” al sindacato, garantite da ciascuno statuto. Di fatto, mancando la piena personalità giuridica, non c’è mai stato l’obbligo a bilanci consolidati, completi nel conto economico e in quello patrimoniale.

Di questa mancanza parla l’inchiesta del Messaggero. E forse non è un caso che i tre segretari confederali non vi facciano cenno. Quando citano – ed è una risposta di routine – i rendiconti economici annui pubblicati da Cgil, Cisl e Uil, essi per primi sanno benissimo la differenza tra un mero rendiconto di cassa, e un bilancio analiticamente completo di centro  e periferia, di ogni spesa e ogni trasferimento ricevuto, dell’ammontare degli attivi mobiliari e immobiliari nonché delle passività di ogni genere.

In assenza di bilanci consolidati resi pubblici, purtroppo, l’informazione deve tentare per forza di cose di ricostruire il complesso delle fonti e dell’ammontare dei finanziamenti sindacali  sommando le maggiori  poste desumibili. E’ lo stesso metodo seguito qualche anno fa da Stefano Livadiotti, ottimo collega giornalista, in un suo libro dedicato proprio ai conti veri e verosimili dei sindacati: a prescindere dai finanziamenti diretti, tramite le ritenute salariali, si tratta di sommare i finanziamenti indiretti, tramite l’attività degli enti parasindacali, come patronati, CAF ed enti bilaterali, e infine i finanziamenti percepiti tramite la retribuzione percepita dai lavoratori per lo svolgimento di attività di natura sindacale durante l’orario di lavoro, in forza dei diritti sindacali sanciti dallo statuto dei lavoratori e dalla contrattazione collettiva.

Rispetto al miliardo, che dei circa 12 milioni di iscritti ai sindacati  i pensionati siano comunque poco meno della metà e dunque gli attivi – 6 milioni – solo poco più di un quarto degli occupati complessivi  italiani, è questione che riguarda la rappresentanza rispetto all’intero mondo del lavoro. Rispetto al miliardo, che per la compilazione dei modelli 730 il corrispettivo pubblico incassato dai Caf sia di 14 euro a testa e non di 26 aggiunge precisione, ma non cambia le cose. Il problema del miliardo è che tutto ciò che incassano Caf e Patronati deriva da norme di legge. Non si tratta di negare la funzione che essi svolgono. Bensì, visto che finalmente stiamo piano riuscendo a rendere trasparenti poco a poco almeno parte degli euro spesi in costi della politica, si tratta di compiere un’operazione analoga per gli euro spesi e incassati dai sindacati.

Se i trasferimenti pubblici per CAF e Patronati fossero del tutto equivalenti a ciò che i lavoratori – anch’essi non liberamente per altro, ma per legge – pagano a tal fine, le loro cifre non sarebbero comprese nel rendiconto generale della spesa dello Stato, sotto la voce “contributo pubblico al finanziamento degli istituti di patronato e di assistenza sociale”. Né Giuliano Amato avrebbe ricevuto dal governo Monti l’incarico di redigere un rapporto sul finanziamento diretto e indiretto dei sindacati, dalle cui cifre l’inchiesta del Messaggero ha tratto le mosse.  Né la spending review montiana avrebbe disposto la riduzione del 20% dei compensi per i Caf derivanti dalle dichiarazioni fatte per conto dell’Inps. Vuol dire che un problema c’è eccome, di congruità dei trasferimenti.

Sappiamo anche noi, che lo Stato assegna ai patronati lo 0,226 dei contributi obbligatori incassati dall’Inps, dall’Inpdap e dall’Inail. Ma la legge istitutiva dei patronati, il decreto legislativo 804 del 1947,  poi modificato per le aliquote relative, prevede che ogni anno il Ministero del Lavoro valuti le esigenze finanziarie dei Patronati  in relazione alla attività concretamente svolta  ma anche alla loro organizzazione. Su queste basi  il Ministero decide  quale percentuale dei contributi sociali che sono stati incassati dagli enti di previdenza deve essere girata su di un apposito capitolo del bilancio dello Stato. E da qui, poi, il ministero eroga ai Patronato prima l’anticipo e poi il conguaglio. Il problema è che, in assenza di obbligo di bilancio consolidato, noi dell’organizzazione e dei relativi costi nonché efficienza dei patronati sappiamo troppo poco. E per questo ci interroghiamo sulla congruità di trasferimenti per centinaia di milioni.

Un altro esempio. In materia di distacchi sindacali, alcune migliaia in Italia, è certo una garanzia conservare presso il sindacato lo stipendio precedente a carico del pubblico, e comprensivo dei “premi produttività” che non sono su base individuale. Ma  i sindacati devono capire che l’obbligo sin qui osservato all’anonimato delle loro liste, per motivi di privacy confermati dopo attento esame anche dalla stessa Autorità Garante, non è esattamente un pilastro e presidio di trasparenza agli occhi dell’opinione pubblica.

Anche le centinaia di milioni che l’INPS garantisce al sindacato per le quote associative dei pensionati, trattenute direttamente sulle pensioni con il meccanismo della delega di carattere permanente (salvo revoca), nonché a titolo di ritenute sulle prestazioni, costituiscono un ammontare che occorre comprendere a che cosa va parametrato.  Lo Statuto dei lavoratori riconosce infatti ai sindacati ampie prerogative – assemblee retribuite, permessi per partecipare alle riunioni degli organi dirigenti, sedi, diritto di affissione – in base alle quali l’attività sindacale si svolge pressoché integralmente a carico dei datori di lavoro. Ed è troppo, sapere il preciso ammontare dei patrimonio immobiliari sindacali, esente da tassazione immobiliare?

Conclusione: chi qui scrive è per un modello di sindacato finanziato da soli contributi liberi e volontari, senza ritenute alla fonte obbligatorie per legge e con propri fondi previdenziali integrativi, in modo che ciascuno possa essere giudicato sulla gestione più efficiente. Ma non mi perdo dietro a questo che, nell’Italia di oggi, è un sogno. Siamo però sicuri che per primi i dirigenti sindacali guadagnerebbero molti consensi, tra i loro iscritti e soprattutto tra i molti milioni in più di lavoratori che non lo sono, se il prossimo primo maggio ci facessero intanto un regalo. Anche se non obbligati per legge, decidete da soli di redigere e pubblicare un bel bilancio consolidato. Così finiranno le polemiche. E darete una prova di non essere come la politica: tanto chiusa alla trasparenza, che alla fine sotto la pressione popolare tra  tre anni dovrà rinunciare al vecchio finanziamento pubblico diretto. Non dovrebbe essere così anche per voi?