16
Mar
2015

Una legge su partiti e sindacati? Magari, purché dica che..

Sarà davvero interessante capire a che cosa stia pensando il governo, in merito a una legge di attuazione degli articoli 39 e 49 che riguardano sindacati e partiti. Se fosse una mera ripicca alla “coalizione sociale” a cui lavora la Fiom di Landini, sarebbe un grave errore. Serve un meditato intervento organico, che codifichi norme di democrazia e trasparenza.

I sindacati in Italia hanno sempre fatto politica, collaterale ai vecchi partiti un tempo e ora con qualche difficoltà a riconoscersi negli attuali blocchi. Ma politica l’han sempre fatta: faceva politica eccome Di Vittorio come Lama, han fatto politica ecome Cofferati ed Epifani, lo scontro attuale tra Fiom e Cgil non è tra “sindacato puro” vs “sindacato politico”, ma una lotta di egemonia tra chi dei due possa fare politica a sinistra. Poiché il sindacato politica in Italia l’ha sempre fatta,  perciò la politica si è ben guardata dall’adempiere la Costituzione con una legge che disciplinasse la registrazione dei sindacati ancorandola norme di democrazia e doveri di trasparenza.

Quanto ai partiti, di fatto anch’essi libere associazioni non riconosciute e senza personalità giuridica, in Parlamento si sono ben guardati dal redigere una legge che garantisse davvero la propria democrazia interna. Sono intervenuti a proprio favore a raffica solo per darsi soldi pubblici, da metà degli anni Settanta in poi, e allegramente infischiandosene del voto referendario degli italiani nel 1993 abrogativo del finanziamento pubblico, che ora con la riforma votata a inizio 2014 scalerà a diminuire via via, fino a scomparire entro il 2017, sempre che i partiti non ci ripensino. Guarda caso, i minimi requisiti formali per la redazione dei bilanci dei partiti previsti entro il 31 dicembre scorso, e a cui i partiti erano inadempienti,  sono stati protratti dall’attuale governo nel decreto milleproroghe.

Per i partiti, l’aspetto delicato – risolto il finanziamento – è la codificazione in statuti di obblighi nei confronti dei loro iscritti: obblighi di accesso ai conti e all’elenco degli associati, obblighi di procedere a primarie con modalità fissate e secondo liste certificate, obblighi di democrazia interna da osservare negli organi statutari, nelle rappresentanze come nei procedimenti disciplinari. Ve li vedete voi gli attuali partiti assumere impegni per legge che consentirebbero a ogni iscritto e cittadino, di fronte a decisioni assunte seguendo due pesi e due misure – la norma, non l’eccezione, all’interno dei partiti – di adire il Tribunale? Personalmente, non ci credo.

Analogamente vale per il sindacato, ma con la differenza che sono in gioco la valenza erga omnes di contratti oggi assunti da libere associazioni, nonché obblighi di trasparenza finanziaria che, nel mondo sindacale, sono a oggi addirittura inferiori rispetto a quelli dei partiti. In 70 anni, la diffidenza verso una disciplina legislativa dei sindacati si è fatta forte di due timori. Quello di violare l’autonomia organizzativa e l’iniziativa sindacale propria della specificità di ciascuno di essi. E, soprattutto, il freno è venuto dal rischio che la maggioranza politica di un colore scrivesse regole “contro” questo o quel sindacato. Dopo 20 anni di governi a colore alterno, si può sperare che i timori siano svaniti? Stante la conflittualità tra Pd oggi architrave del governo, e Cgil-Fiom, direi di no. Ma sperar non nuoce.

Distinguiamo i due punti essenziali per ogni tentativo legislativo in materia sindacale. Il primo riguarda la rappresentanza perché i contratti siano “esigibili” erga omnes. Il secondo: le finanze.

Sulla rappresentanza, ci si è avvalsi nei decenni di accordi interconfederali tra sindacati e associazioni datoriali. L’ultimo protocollo è del gennaio 2014, traduzione operativa dell’intesa sottoscritta nel 2013 anche dalla Cgil dopo che la precedente nel 2011 – a polemica Fiat esplosa – non aveva ottenuto la sua firma. Ai fini della contrattazione collettiva nazionale di categoria, sono ammessi i sindacati che abbiano una rappresentatività almeno del 5% , considerando la media fra dato associativo e dato elettorale. Un dato certificato dall’INPS, che proprio oggi con il presidente Tito Boeri ha firmato il relativo protocollo con imprese e sindacati,.

Ma qui vengono due punti aperti e delicati. Perché riguardano i diritti sindacali e l’esigibilità del contratto nei confronti di chi il contratto non l’ha firmato. Mentre i diritti sindacali alla fine nell’accordo interconfederale sono concessi anche ai sindacati che abbiano solo “partecipato” alla piattaforma negoziale, a differenza di quanto prescrive per legge l’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori che li riserva solo a chi il contratto l’ha firmato, il protocollo prescrive poi chei contratti collettivi nazionali di lavoro sottoscritti formalmente dalle organizzazioni Sindacali che rappresentino almeno il 50% +1 della rappresentanza, previa consultazione certificata delle lavoratrici e dei lavoratori, a maggioranza semplice saranno efficaci ed esigibili”. E’ una regola che riprende anch’essa il vecchio Statuto dei lavoratori. Ma è una norma che non solo la FIOM non digerisce: soprattutto la Corte Costituzionale, il 3 luglio del 2013, ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 19 dello Statuto nella parte che dava rappresentanza sindacale aziendale solo a i sindacati che avevano sottoscritto il contratto.

Se si interviene per legge, è questo il punto dolente dello scontro tra FIOM e tutti gli altri. Come si mette insieme l’esigibilità piena dei contratti con la strategia di grandi sindacati di non firmali a oltranza e adire il tribunale? Bisogna anche tener conto che si tratta di norme che ricadono poi sui contratti aziendali, di princìpi che devono essere chiari e trasparenti anche per le imprese che non aderiscono a sindacati datoriali, come Fiat che è uscita da Confindustria e UnipolSai uscita dall’ANIA.

C’è poi un capitolo altrettanto delicato: che riguarda le trattenute sindacali, l’intero comparto – oggi opacissimo – del finanziamento pubblico sindacale, e degli obblighi di rendicontazione contabile e patrimoniale. L’anno scorso sul Messaggero sottolineammo che si aggira sul miliardo di euro l’anno la cifra stimata di fonte pubblica che affluisce nei bilanci sindacali – tra convenzioni dei CAF, Patronati, quota-pensioni girata dall’INPS, e via proseguendo. I tre segretari confederali replicarono attribuendo la cifra a un intento malevolo, ma non fornirono un’analitica riaggregazione delle cifre che smentisse la nostra stima.

Senza legge, restando i sindacati libere associazioni non riconosciute, sono solo soggetti ai magri articoli del Codice Civile che disciplinavano nel 1942 tale forma di libera organizzazione dei corpi intermedi. I rendiconti economici annui pubblicati da Cgil, Cisl e Uil sono meri riepiloghi di cassa, non un bilancio analiticamente completo di centro e periferia, di ogni spesa e ogni trasferimento ricevuto, dell’ammontare degli attivi mobiliari e immobiliari nonché delle passività di ogni genere. In assenza di bilanci consolidati resi pubblici, purtroppo, si possono solo stimare le entrate aggiuntive oltre ai finanziamenti diretti tramite le ritenute salariali, e cioè i finanziamenti pubblici che arrivano tramite l’attività degli enti parasindacali, come patronati, CAF ed enti bilaterali, e infine i finanziamenti percepiti tramite la retribuzione percepita dai lavoratori per lo svolgimento di attività di natura sindacale durante l’orario di lavoro. Se i trasferimenti pubblici per CAF e Patronati fossero del tutto equivalenti a ciò che i lavoratori pagano a tal fine, le loro cifre non sarebbero comprese nel rendiconto generale della spesa dello Stato, sotto la voce “contributo pubblico al finanziamento degli istituti di patronato e di assistenza sociale”. Né Giuliano Amato avrebbe ricevuto dal governo Monti l’incarico di redigere un rapporto sul finanziamento diretto e indiretto dei sindacati.  Né la spending review montiana avrebbe disposto la riduzione del 20% dei compensi per i Caf derivanti dalle dichiarazioni fatte per conto dell’Inps.

Non sappiamo se davvero il Ministero del Lavoro davvero eroghi ai patronati lo 0,226% dei contributi obbligatori incassati dall’Inps, dall’Inpdap e dall’Inail tenendo conto, e come, per davvero anche della loro concreta organizzazione, come prescrive la legge. L’obbligo di anonimato sulle liste dei distacchi sindacali, tagliati dal governo Renzi nella PA, è ormai una garanzia antidiluviana. Ed è troppo, voler sapere il preciso ammontare dei patrimoni immobiliari sindacali, esente dalla tassazione che tocca a noi tutti?

Non ci aspettiamo che il governo Renzi adotti il modello di un sindacato finanziato da soli contributi liberi e volontari, senza ritenute alla fonte obbligatorie per legge e con propri fondi previdenziali integrativi, in modo che ciascuno possa essere giudicato sulla gestione più efficiente. Pensiamo tuttavia che per primi i dirigenti sindacali guadagnerebbero consensi, tra i loro iscritti e soprattutto tra i molti milioni in più di lavoratori che non lo sono, se non dicessero no a nuovi e penetranti obblighi di trasparenza: loro che sono i primi a chiederli, e giustamente, alle imprese.

 

16
Mar
2015

Al Sud non basta la ripresina. Servono politiche dell’offerta

“Sono convinto che il Sud sia un tema che va riaperto, ma non credo a politiche specifiche. Bisogna continuare con politiche generali, cambiandole all’occorrenza, ma senza risorse aggiuntive”. Così a Cernobbio il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, in una giornata in cui ha riconosciuto con sincerità quanto della nuova atmosfera di ottimismo sulla ripresa possibile italiana si debba in realtà soprattutto a Mario Draghi. Ma ha ragione sul Sud, Padoan? Richiamiamo qualche dato. Poi un esempio internazionale. E traiamone una conclusione.

L’aggravamento del gap del Mezzogiorno rispetto al centro-Nord negli anni di crisi è purtroppo ben noto. Nel 2013 il Pil per abitante era pari a 33,5 mila euro nel Nord-Ovest, a 31,4 mila euro nel Nord-est e a 29,4 mila euro nel Centro. Il Mezzogiorno, con un Pil pro capite di 17,2 mila euro, era a un livello inferiore del 45,8% rispetto al Centro-Nord. ll Mezzogiorno ha perso più occupazione rispetto al resto del Paese fin dall’inizio della crisi. Il tasso di occupazione maschile del Mezzogiorno, già inferiore di quasi dieci punti alla media nazionale nel 2008, ha continuato a diminuire con un ritmo più accentuato. Quanto alle donne, al Sud ne lavora solo una su tre. Sono scese le famiglie con due o più occupati in casa: sono solo il 20%. Sono salite quelle in cui non è presente alcun occupato: sono il 20%. Il tasso nazionale di disoccupazione è fatto di una media nazionale che la vede al Nord inferiore ai due terzi, mentre al Sud è doppia. Fermiamoci qui. E’ vero che i dati vanno tarati con il minor costo reale della vita, anche di un terzo inferiore al Sud rispetto  al Nord. Ma pesano anche i peggiori servizi pubblici offerti a chi vive al Sud.

Veniamo al precedente storico a cui guardare. Il divario non è poi molto inferiore a quello che gravava sulla Germania est rispetto a quella Ovest, 25 anni fa alla caduta del muro. La produttività orientale venne calcolata alla riunificazione pari a un terzo di quella occidentale, e di conseguenza così si partì come base salariale. Che rapidamente crebbe però fino a due terzi di quella occidentale nel corso di due rinnovi contrattuali. La Germania Ovest fornì a quella orientale quattro pilastri di solidarietà. Primo: un gigantesco trasferimento di competenze tecniche ai vertici delle amministrazioni pubbliche. Secondo: un’amministrazione straordinaria, la Treuhandanstalt, che portò alla privatizzazione di 33 mila grandi medie e piccole aziende tedesche in 5 anni, restituendone molte altre agli ex proprietari pre-regime. Terzo: un cambio alla pari tra marco occidentale e orientale, contro il parere della Bundesbnak e per volontà di Khol. Quarto, un meccanismo di trasferimento di risorse finanziarie il cui terzo pacchetto è ancora in vigore fino al 2019, e che attraverso i fondi di perequazione tra Laender occidentali e orientali toccò all’inizio il 9% del Pil complessivo tedesco annuale (all’epoca, più del 50% del Pil della ex DDR), per scendere poi oggi sotto il 5%. Il risultato non è ancora la piena parificazione del reddito, occupazione, e produzione. Ma è stato un successo straordinario di livellamento del gap, rispetto alla nostra storia unitaria centocinquantennale che ha visto il gap diminuire solo tra gli anni ’50 e gli anni ’80 del Novecento.

E ora le conclusioni da trarre, rispetto alle parole di Padoan. Già si era capito dall’impostazione sin qui seguita dal governo, che non si nutre fiducia in politiche ad hoc per ridurre il divario tra Nord e Sud. Se questo significa non ripetere gli errori del passato, cioè l’assistenzialismo clientelare degli ultimi decenni di intervento straordinario e della somma di Casmez e Iri, nonché anche del tentativo giacobin-dirigista dei patti territoriali di era ciampiana, non si può che essere d’accordo. Sono esperienze fallite, e soprattutto la prima ha generato raffiche di punti di debito pubblico ,abituando al prendi-e-fuggi di sussidi e trasferimenti pubblici in assenza di piani industriali seri. In realtà, alimentando dunque l’illegalità e distruggendo fiducia e capitale sociale, che sono i presupposti di ogni crescita economica.

Tuttavia, se cioò significa credere che verrà la ripresa nazionale e risolverà da sola il gap, vuol dire scommettere su un prospettiva fallace. Già siamo reduci da vent’anni di crescita italiana molto più tenue rispetto a quella delle altre nazioni avanzate. E dunque una crescita di zero virgola non può smuovere macigni. Ma, soprattutto, il divario è troppo accentuato nella partecipazione al mercato del lavoro, negli investimenti e nel reddito perché queste precondizioni della crescita non meritino misure ad hoc. Cioè regole diverse sul versante dell’offerta, prima e più che risorse finanziarie

Qualche esempio. Il Jobs Act finora manca del capitolo relativo alle politiche attive: ebbene l’Agenzia nazionale che intermedierà domanda e offerta non può essere la stessa al Nord e al Sud, l’accreditamento e il modello organizzativo deve essere per forza diversi, se vogliamo mordere la bassa partecipazione al lavoro al Sud. La riforma della scuola, al suo avvio parlamentare, non deve prevedere un canale duale professionalizzante uguale in tutto il territorio, ma diverso per specifiche produttive e densità di inoccupati rispetto alle qualifiche richieste localmente. La miriade di micropartecipate pubbliche locali in perdita è più grave al Sud che al Nord, come si desume dai loro conti economici, e la conseguenza è un’offerta di livello troppo basso dei servizi pubblici. La perequazione finanziaria tra Regioni non ha realizzato né una loro sufficiente autonomia finanziaria ( e al Nord continua la spoliazione di risorse da parte dello Stato centrale), né si è data obiettivi di recupero del gap meridionale lontanamente analoghi a quelli del patto tedesco tra Ovest ed Est. Le centinaia di diverse norme incentivanti a livello regionale nel Sud restano una fiera di sprechi, i cui effetti sono nulli su impresa e lavoro.

Non è vero dunque che i disastri del passato impediscono ogni nuova politica per il Sud. E’ vero il contrario: se il Sud non è messo in condizione di recuperare parte rilevante di un gap tanto catstrofico in pochi anni, è l’Italia in quanto tale che continuerà ad avere crescite da nana.  Alla lunga, non è solo l’euro asimmetrico che non può reggere tra paesi a divergente produttività: in piccolo, vale esattamente lo stesso per l’Italia.

 

15
Mar
2015

Renato Crotti. L’ultimo saluto a un uomo libero—di Carlo Zucchi

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Carlo Zucchi.

Martedì 10 febbraio 2015 si è spento all’età di 93 anni Renato Crotti e con lui se ne va una persona limpida che ha posto la libertà a fondamento della propria esistenza come forse nessun altro in Italia.

Uno dei principali, se non il principale protagonista del boom della maglieria del distretto di Carpi sviluppatosi a partire dal secondo dopoguerra, Renato Crotti è nato a Carpi il 4 marzo del 1921 da una famiglia di origini contadine. Sin da bambino respira l’aria dell’impresa e della maglieria, soprattutto grazie a una madre tenace, volitiva e piena di spirito imprenditoriale. Fu lei, nei primi anni Trenta, ad allestire un piccolo laboratorio di maglieria a Modena, coadiuvata dalle figlie (le sorelle maggiori di Crotti), mentre il padre si occupava della vendita dei prodotti. E persino quando la famiglia andava in vacanza sulle Dolomiti in agosto, con tanto di voluminosi pacchi di maglieria al seguito, il percorso veniva scelto in base al calendario dei mercatini settimanali. Read More

10
Mar
2015

La crescita che non c’è dice che una manovra di finanza pubblica serve subito

Modesta proposta al governo, al premier Matteo Renzi e al ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Siamo proprio sicuri che sia utile attendere il varo della prossima legge di stabilità per il 2016, cioè perdere 10 mesi? O i dati e le circostanze internazionali favorevoli, rispetto a un andamento asfittico del PIl italiano, ci dicono che proprio ora occorrono decisioni aggiuntive di finanza pubblica? La ragionevolezza a noi sembra indicare la seconda alternativa. Speriamo per questo che il governo accetti almeno di parlarne.

Grazie alle nuove regole di flessibilità assunte in Ue per l’interpretazione del patto di stabilità e crescita, nuove decisioni di finanza pubblica anticipate rispetto alla tradizionale sessione di bilancio non servono – come tante volte in passato – per rimettere sotto controllo l’andamento tendenziale del deficit, ma per un altro fine. Coerente all’impostazione da sempre dichiarata dal governo: si tratta di trasmettere al mercato domestico, alle famiglie e alle imprese, segnali aggiuntivi capaci di rappresentare incentivi addizionali per rafforzare le componenti di ripresa del PIL.

Sappiamo che, da vent’anni a questa parte, l’Italia ha accumulato un’ingente mole di gap, tali da farla crescere meno dei Paesi concorrenti quando il ciclo e la domanda internazionale sono favorevoli, e da farle perdere più punti di Pil quando tira aria di recessione. E’ così, inutile recriminare per le tante responsabilità del passato, di destra e sinistra.

C’è il rischio molto forte che il copione si ripeta. Non è un caso che, nelle previsioni di crescita Ue, ora che il segno più torna davanti alle stime del Pil mensile, nel 2015 ci si attenda che solo Cipro cresca meno di noi. Sembra gran cosa che nel 2015 possano aggiungersi 150mila nuovi occupati, come stima il ministro Poletti, mentre la disastrata Spagna ne ha prodotti oltre 90mila solo a febbraio. I dati odierni rilasciati da Istat e Banca d’Italia confermano che NON siamo ancora in ripresa: a gennaio, la produzione industriale segna -0,7% come andamento congiunturale sul mese precedente e un poco rassicurante dato tendenziale (cioè di proiezione annuale) di -2,2%; i prestiti bancari ai privati su base annua si contraggono ancora del -1,8% e del -2,8% alle imprese su base annua.

Per “spingere” la ripresa, il governo ha puntato sulle riforme: il Jobs Act, la giustizia civile, e ora dovrebbero arrivare quella della scuola e quella della PA. Ma l’effetto di crescita addizionale delle riforme di struttura, a prescindere dal giudizio su ciascuna di esse, si determina nel medio-lungo periodo, dopo che la loro complessa attuazione entrerà a regime.

Per gli effetti di traino a breve, il governo ha puntato nel 2014-2015 sostanzialmente su due scelte prioritarie: il bonus 80 euro, e gli effetti da oggi sull’occupazione del nuovo contratto a tutele crescenti, abbinato al bonus fino a 8mila euro per gli assunti a tempo indeterminato (per tutti gli assunti, anche quelli sostitutivi, senza concentrarli su quelli aggiuntivi rispetto agli organici 2014, cosa che avrebbe avuto un effetto-traino assai maggiore).

A ciò su aggiungono molto più potenti fattori esogeni: il QE della BCE iniziato sui mercati al ritmo di 60 miliardi al mese, il deprezzamento dell’euro sul dollaro, il prezzo del petrolio oggi intorno a poco più di 50 dollari al barile, rispetto ai 114 del giugno scorso.

Tuttavia, l’esperienza di tutti i paesi usciti più rapidamente dalla recessione indica che politiche monetarie “generose” devono essere accompagnate da politiche di bilancio e fiscali altrettanto decise, per sostenere la crescita. Molti credono che questo implichi più spesa pubblica, ma poco riflettono sul fatto che negli USA la crescita 2014 è esplosa dopo che il deficit pubblico, grazie al “sequestro” automatico della spesa pubblica, è sceso da oltre l’11% del Pil a poco più del 5%.

Quel che all’Italia serve oggi sono segnali energici trasmessi subito alle due molle più estenuate della crescita sul mercato domestico: i consumi, e gli investimenti delle imprese.

Di conseguenza, deliberatamente tentiamo qui di seguire un modello di provvedimenti coerente a quello già adottato dal governo. Per il sostegno ai redditi disponibili delle famiglie e dei consumi, è oggi e non tra un anno, il momento di immaginare un’estensione del bonus 80 euro a pensionati, incapienti e autonomi che non hanno visto nulla. Analogamente, oggi si può varare un primo intervento mirato ai 6 milioni di italiani sotto il livello di povertà: 500 euro per due componenti familiari sotto il livello significano 1,5 miliardi di euro. Sommati a un’estensione congrua del bonus 80 euro, siamo intorno ai 10 miliardi.

Altri 5 miliardi andrebbero diretti al rafforzamento degli incentivi agli investimenti delle imprese. Le leggi d’incentivo sono troppe e dispersivamente condizionali, centrali e locali, perciò bisogna mirare a una misura “secca” generale e universale, che premi in maniera incrementale il più alto innalzamento addizionale degli investimenti sul 2014.

Stiamo parlando di una manovra di sgravi fiscali (e trasferimenti, per bonus e povertà) pari almeno a un punto di Pil. E poiché non siamo tifosi del deficit, occorrerebbe da subito porre mano a grandi poste della spending review non recessiva alle quali i governo sinora non ha messo mano: a cominciare dalle partecipate locali, e a seguire il famoso passaggio da 35 mila stazioni d’acquisto e appaltanti pubbliche a 35. Oggi, giustificate dall’innalzamento immediato della crescita e non per il rientro addizionale verso il pareggio di bilancio, queste energiche misure incontrerebbero opposizioni ovvie e dure, ma assai meno efficaci nella loro argomentazione pubblica.

Il governo non faccia l’errore già commesso in legge di stabilità, quando si poteva (doveva) tagliare subito IVA e accisa sui carburanti – oggi rappresentano il 61,8% del costo alla pompa – quando il barile era a 40 dollari. Una misura che avrebbe avuto effetti immediati nei magri bilanci di famiglie e imprese. Anche perché, quanto più la crescita del Pil italiano nel 2015 sarà superiore all’1% invece della sua metà, tanto più le entrate ordinarie saliranno. E insieme ai minori oneri sul debito pubblico grazie a Draghi, aiuteranno il governo stesso nel redigere la prossima legge di stabilità, quando scatta la prima clausola di salvaguardia fatta di aggravi d’entrate per 16 miliardi di euro.

Rivogliamo questa proposta al governo nel massimo spirito costruttivo. Parliamone. E’ la questione centrale italiana, crescere di più subito. Non lo scontro tra partiti e dentro i partiti.

9
Mar
2015

Il canto funebre della spending review, che invece serve ora

Che fine ha fatto la spending review? La riposta a questa domanda purtroppo irrita il governo, ma va detto: se s’intende una rivisitazione organica della spesa pubblica invece di (modesti) tagli lineari dell’ultimora, è rimasta nel cassetto. Per capirlo, sintetizziamo in tre tappe: la legge di stabilità, quel che proponeva Cottarelli, lo stato delle cose.

 La legge di stabilità. Di fatto, era propaganda quella sui “18 miliardi di tasse tagliate”. Bisogna innanzitutto ricordare le clausole di stabilità che prevedono attraverso aggravi fiscali oltre 64 miliardi di euro nel triennio 2016-2018. Nella versione finale approvata dal parlamento, la legge di stabilità per il 2015 ha dunque previsto maggiori entrate, al netto dei tagli, per 64,7 miliardi tra il 2015 e il 2017, con un incremento della spesa pubblica per 62,4 miliardi. Gli interventi di riduzione del carico fiscale decisi, pari a 25,8 miliardi nel triennio, sono stati infatti sterilizzati da un parallelo aumento del prelievo tributario per 89,5 miliardi. Tutte le cifre che indichiamo derivano dalla nota nota tecnico illustrativa alla legge di stabilità realizzata dalla Ragioneria dello Stato, anche se purtroppo pochi l’hanno rilanciata.

Nel 2015, a fronte di minori entrate per 6,4 miliardi (un ruolo essenziale lo gioca la componente lavoro dell’IRAP, tagliata) scatteranno maggiori entrate per 16,2 miliardi, col risultato di un aggravio netto per 10,3 miliardi. Nel 2016 sono stati decisi tagli di tasse per 9,3 miliardi, ma altresì maggiori tributi per 32,7 miliardi, col risultato di un aggravio netto per 23,3 miliardi. Nel 2017, i 9,06 miliardi di minori entrate saranno compensati da 40,08 miliardi di incrementi fiscali per un incremento netto di imposte pari a 31,02 miliardi. Complessivamente nel triennio le minori entrate previste per 25,8 miliardi di euro sono “mangiate” da aggravi fiscali per 89,5 miliardi, determinando una stangata netta da 64,7 miliardi.

Andando alla spesa pubblica, i tagli pluriennali deliberati per complessivi 29,6 miliardi sono più che superati da nuove uscite per 102,09 miliardi. Nel 2015 la spending review inserita nella manovra assicurerà risparmi per 8,4 miliardi (la componente maggiore sono i tagli a Regioni, Comuni e Province) ma porterà uscite aggiuntive sul bilancio statale per 25,4 miliardi, con un incremento netto della spesa pubblica di 17,06 miliardi. Nel 2016, i risparmi per 10,7 miliardi sono “bilanciati” da incrementi di spesa per 36,9 miliardi, col risultato di un incremento netto di 26,2 miliardi. Nel 2017, sono previste riduzioni di uscite per 10,4 miliardi e maggiori spese per 39,6 miliardi, con un incremento netto di spesa per 29,1 miliardi. Complessivamente, nel triennio i tagli di spesa deliberati per 29,6 miliardi sono dunque più che bilanciati da aumenti per 102,09 miliardi, con un aggravio netto sul bilancio pubblico di 62,4 miliardi coperti in deficit.

Cottarelli. Il commissario alla spending review liquidato dal governo Renzi, che l’aveva trovato in eredità da Letta, propose innanzitutto “tagli netti”, cioè non compensati da aumenti di spesa più che proporzionali come fa il governo Renzi. E le sue proposte avrebbero avuto effetti immediati dal 2014, pari a 7 miliardi, che salivano a 18 miliardi nel 2015, e a 34 miliardi nel 2016. Si può dire che la spending review di Cottarelli era persino parecchio “modesta”, come ruicorda spesso a ragione Riccardo Puglisi: era pari al 4% della spesa pubblica complessiva, rispetto al 10% cui mira programmaticamente la spending review in atto nel Regno Unito. Ma sta di fatto che nel 2014 si è perso il treno. E nel 2015 il più ricade sui 5-6 miliardi di riduzione di spesa di Comuni e Regioni, ancora non chiariti nella trattativa tra governo e Autonomie a oggi che siamo a marzo inoltrato, e in attesa di essere compensati d aggravi di aliquote locali, poiché anche nel 2014 le imposte locali sono cresciute sul 2013 di quasi 3 miliardi, raggiungendo i 67 miliardi di incassi. Aggiungiamo il famoso “giallo” dei pdf dei 25 gruppi di lavoro interni alla PA (5 commissioni però non finirono i lavori) presieduti da Cottarelli tra fine 2013 e febbraio 2014, per elaborare le sue proposte: mai pubblicati. Quel che sappiamo però basta e avanza. Cottarelli aveva individuato un metodo, con responsabili pluridicastero dell’attuazione coordinata dei tagli. E aveva proposte a largo spettro sulle maggiori poste di spesa pubblica, alcune delle quali sono attestate in alcune slides che presentò.

Oggi. In alcune interviste, la settimana scorsa, il ministro Padoan ha dichiarato che il governo “sta anticipando” alcuni elementi di riflessione sulla spending review in vista della prossima legge di stabilità. E’ una battuta, ovviamente, visto che la decisione è stata di posticipare. Dunque per il 2015 il governo non dovrebbe riservarci alcuna novità. E’ un errore: perché nuovi sgravi fiscali – tra uno e due punti di Pil – per consumi e investimenti, cioè per rafforzare le componenti più deboli della ripresa economica domestica, servirebbero ora, e andrebbero coperti proprio da tagli di spesa non recessivi. I capitoli da cui ricavare 2 punti di Pil di minor spesa “reale” in 3 anni cominciando da 7-10 miliardi nel primo e cioè dal 2015, restano quelli di Cottarelli. Le partecipate locali, che costano 23 miliardi l’anno. Il passaggio da 35 mila a 35 stazioni d’acquisto e appalto pubblico in Italia, che gestiscono in maniera non trasparente e spesso collusiva con interessi impropri (e spesso illegali, basta vedere le raffiche di inchieste delle procure) ancor oggi oltre 100 miliardi di spesa pubblica annua, in consumi intermedi e investimenti. La sinergia e accorpamento tra forze dell’ordine e di sicurezza. La cessione del patrimonio pubblico immobiliare (attenzione: la cessione riguarda la parte patrimoniale del bilancio, MA non dimenticate che quel pessimo proprietario che è lo Stato ci rimette ogni anno sul suo patrimonio immobiliare invece di guadagnarci, ergo cedere ha anche impatto positivo sul conto economico). La riduzione delle retribuzione dei dirigenti pubblici. L’indentificazione di esuberi veri nell’impiego pubblico (che stiamo invece ulteriormente gonfiando nella scuola). E financo le pensioni, applicando a tappeto il ricalcolo contributivo per le pensioni-regalo retributive. Farlo subito, destinando immediatamente dall’anno in corso per destinare ciontestualmente le risorse a sgravi fiscali per la crescita, taglierebbe le unghie al vasto fronte degli oppositori. Ma non far nulla è il peggio di tutto: significa non avere coperture per rafforzare la crescita ( e dunque rinunciare alle maggiori entrate derivanti) oggi, e una stangata fiscale ancor più pesante domani.

Ps: risparmiate per favore sarcastiche osservazioni sugli effetti recessivi dei tagli di spesa. Gli USA hanno visto la forte crescita del 2014 DOPO il sequestro automatico della spesa pubblica – scattato per il mancato accordo sul tetto di debito tra Obama e Congresso – che  ha ridotto da oltre l’11% di PIL il deficit a poco oltre il 5%. Inoltre le maggiori poste qui indicate, partecipate locali e acquisti, sono FRENI improduttivi al PIL distruttori di risorse. Qui si propone di tradurli in immediati sgravi fiscali, non di usarli a copertura di maggiori spese come fa il governo…

 

9
Mar
2015

Le sanità italiane

Nei giorni scorsi, l’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali (Agenas) ha pubblicato un rapporto sull’andamento della spesa sanitaria nelle regioni tra il 2008 e il 2013.

Complessivamente, nel periodo 2008-2013 la spesa sanitaria è aumentata, ma è diminuita, seppur di poco, per le regioni commissariate in piano di rientro. Se si considerano solo gli ultimi anni, dal 2010 al 2013, la spesa complessiva è diminuita di circa 1 miliardo di euro, passando da 112,63 miliardi a 111,68.

Per quanto riguarda i risultati di gestione, a livello nazionale si registra un disavanzo per il 2013 di 1,1 miliardi di euro, che tuttavia dal 2008 è andato contraendosi. “Complessivamente si evidenza una contrazione del disavanzo nei vari anni, ma un consistente miglioramento dall’anno 2011 con una variazione media annua 2010-2013 a livello nazionale pari a -37% rispetto ad un -16% nel periodo 2008-2010”.

Dopo l’analisi su scala nazionale, il rapporto offre una riproduzione dei conti economici consolidati del bilancio di ogni regione, oltre a un focus sui costi regionali, consentendo di capire come ogni regione contribuisca ai diversi dati nazionali.

Innanzitutto, balza agli occhi una differenza eclatante tra nord e sud, per la verità non nuova, ovvero le voci del conto economico che riguardano la mobilità. Per quanto riguarda il saldo mobilità attiva, non si registrano cifre diverse da zero nei bilanci delle regioni del sud (fatta eccezione per il Molise). La regione con il saldo mobilità attiva più alto è la Lombardia, con 555 milioni di euro (in aumento rispetto al 2012: 457 milioni), seguita dall’Emilia-Romagna che registra un saldo di 337 milioni (ma in riduzione dal 2012: 368 milioni). Viceversa, come mostra il grafico che segue, il saldo mobilità passiva è più alto per le regioni del sud, da cui i pazienti evidentemente scappano (nel grafico non compaiono Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Toscana e Molise. Per queste infatti il saldo mobilità passiva è pari a zero negli anni esaminati).

Saldo mobilità passiva

 

Per quanto riguarda la composizione dei costi sanitari, non si notano differenze tali da giustificare inferenze. Il capitolo di spesa con le differenze più evidenti è quello relativo alla sanità privata. Tra le regioni a statuto ordinario, la Lombardia è prima anche in questa classifica, con circa il 30% del totale dei costi dedicato ai “servizi esterni” (appunto, la sanità privata) nel 2013, chiude la classifica l’Umbria con l’11,23%, a fronte di una media nazionale del 18%.

Questo dato potrebbe essere tuttavia fuorviante se non accompagnato dalla spesa totale in termini di risorse disponibili (quindi di Pil). La tabella che segue mostra un’istantanea per le regioni a statuto ordinario nel 2012 (anno più recente per cui sono disponibili i dati ISTAT sul PIL regionale).

Innanzitutto vediamo a quanto ammonta la spesa sanitaria totale delle regioni in termini di Pil (in ordine da quella che spende meno a quella che spende più). La terza colonna mostra il saldo mobilità attiva tratto dal rapporto Agenas. La quarta colonna mostra il dato Agenas sui costi dei servizi esterni in rapporto ai costi totali per la sanità. L’ultima colonna mostra la spesa sanitaria privata in rapporto al Pil.

tabella

Le ultime due colonne lasciano trasparire come la questione delle risorse destinate alla sanità privata sia piuttosto controversa. Certamente non ci si può limitare a sostenere che spendere di più in istituzioni pubbliche o private sia determinante a priori per la qualità del sistema. Sappiamo infatti che il tema della qualità del servizio pubblico appare legato più ad altri fattori, quali la storia istituzionale o la cultura civica, assai divergenti tra le regioni del nord e quelle del sud. E questo vale per la sanità (anche dalla tabella è chiara la grande divergenza tra nord e sud in merito alla quantità di risorse destinate alla sanità e a quanto queste siano fruttuose, ad esempio in termini di attrattività di assistenza sanitaria) come per molti altri servizi.

 

@paolobelardinel

7
Mar
2015

Addio a Guido Ghisolfi

Oggi si svolgeranno a Tortona i funerali di Guido Ghisolfi, che si è tolto la vita martedì scorso. Guido era un grande imprenditore, un uomo di intelligenza vivace, ma soprattutto un amico.

Ghisolfi era un uomo di successo. L’azienda di famiglia, la Mossi & Ghisolfi, è un gigante della chimica, di cui lui amava parlare non solo con l’affetto del figlio e l’ardore dell’imprenditore, ma anche e soprattutto con la passione di chi ne sente “suo” ogni pezzo, ogni processo, ogni lavoratore, ogni stabilimento, e più di tutto ogni ricercatore. La vera ragione per cui Gisolfi faceva, e bene, e amandolo, il suo mestiere era questa: era un’opportunità per indagare e scoprire cose nuove. Era un’occasione per circondarsi di giovani scienziati, lanciarli a fare scorribande nei campi dell’ignoto, con la curiosità dello studioso e la concretezza dell’uomo d’impresa. Read More

5
Mar
2015

#buonascuola: il mostro giuridico, il gioco delle 3 carte sui precari e la rivoluzione del merito

Gli incidenti nella predisposizione dei testi di legge stanno diventando troppo frequenti con l’attuale governo per non rappresentare un problema serio. Non abbiamo mai saputo a chi si doveva la soglia depenalizzante delle frodi fiscali, ed esploso il caso a Natale l’attuazione della delega fiscale si è fermata, dunque la delega  scadrà a fine mese e addio semplificazioni. Non abbiamo saputo a chi si doveva la bestiale idea della tassa sul contante e cioè sui depositi bancari oltre i 200 euro quotidiani. E non si è capito nulla di che cosa davvero abbia determinato la doppia decisione di rimettere nel cassetto i due decreti legge che il governo aveva annunciato martedì scorso. Se sia stato il Quirinale, silenziosamente, a far capire che la stagione dei decreti legge a raffica è finita. Se, sulla banda larga il governo abbia capito che rischiava un incidente serissimo visto che, stando al testo delle bozze che giravano tra i giornalisti, vi erano profili di violazione della libertà d’impresa tali da configurare impugnative alla Corte Europea. O ancora se, sulla scuola, il premier non fosse tardivamente soddisfatto del lavoro che pure per 10 mesi era stato fatto al ministero sul testo, con una consultazione pubblica che il governo asserisce aver mobilitato un milione e ottocentomila contatti. Se invece mancassero le coperture finanziarie, dopo tante promesse per 10 mesi. O che altro.

Fatto sta che l’opacità moltiplica l’incertezza e genera mostri giuridici. L’ultimo, oggi, è la nascita dell’inusitato “disegno di legge a tempo”. Il sottosegretario Faraone ha infatti annunciato a Repubblica che il parlamento avrà solo 40 giorni per varare la riforma della scuola (promessa a questo punto per martedì prossimo), altrimenti il testo diventerà decreto legge. Un’altra bestialata. Ma come, la riforma della Rai varata da Gubitosi abbisogna di ben 42 mesi per produrre i suoi risicati risparmi finanziari, e una cosetta come la riforma della scuola va varata in parlamento solo in 1 mese? Dopo 10 mesi dipensamenti e ripensamenti governativi? Viene solo da allargare le braccia, di fronte a tanta creativa disinvoltura istituzionale. E meno male che il premier aveva detto di inchinarsi sulla scuola alla libera dialettica parlamentare, perché “non è un dittatorello”…

Ma fermiamoci sulla scuola. Prima osservazione: è stato il governo, a ripetere per mesi e mesi che la marea di precari della scuola sarebbero stati stabilizzati per il prossimo anno scolastico, mettendoci in regola con i richiami europei (siamo l’unico paese avanzato ad aver concentrato centinaia di migliaia di precari a vario titolo nel sistema della formazione pubblica, per il vecchio vezzo della politica di accendere nuove posizioni a tempo promettendo la messa a ruolo in cambio di voti alle elezioni). Seconda osservazione: anche in questo caso, come per la banda larga, le bozze dei 39 articoli del provvedimento erano ormai pubbliche. Con tutti i particolari di come sarebbero state esaurite – ridefiniti gli organici funzionali per materia, e l’organico d’autonomia per le supplenze dal 2016 – le graduatorie a esaurimento, quelle d’istituto, la riserva per i vincitori del concorso 2012, come pescare dalle graduatorie per gli insegnanti di sostegno , per provincia e con quali limiti di scelta di ciascuno per il distretto. E poi la riforma degli stipendi, su tre fasce stipendiali e con una valutazione triennale. E poi le discusse norme d’incentivo fiscale, il 5 per mille a tutte le scuole, e il voucher di libera scelta per chi sceglie le paritarie. Quelle sui dirigenti scolastici che dovrebbero diventare leader educativi con strumenti e personale adeguati per il miglioramento dell’offerta formativa, quelle sui nuovi organi collegiali, quelle sull’alternanza scuola-lavoro nell’ultimo triennio delle superiori.

Qualche non piccolo indizio che siano le risorse a mancare, c’è eccome. Sarà un caso ma nelle ultime due settimane il numero dei precari da stabilizzare per il 2015-16, dispositivo europeo che giustamente ce li contesta alla mano, da 150mila scendeva secondo indiscrezioni governative di giorno in giorno, per fermarsi a quota 120-110-100mila e ancor meno, escludendo insomma quelli di seconda e terza fascia. Ammettiamolo: dopo decenni in cui la politica ha colpevolmente e cinicamente creato bizzeffe di precari della scuola, illuderli per mesi non è stata una bella trovata.

Continuo a pensare che la stabilizzazione di tutti i precari, com’era prevista nel testo, non distingua sufficientemente il merito reale accumulato perché “dimostrato”, invece che maturato per anzianità. Di conseguenza, il concorso promesso nel 2015 si potrà tenere pure, ma con la stabilizzazione di massa la messa a ruolo iniziale dei vincitori di concorso non comincerà prima del 2020: dunque esiste il forte rischio di creare altri idonei in attesa…

Detto ciò, sta al parlamento pronunciarsi in maniera chiara su alcuni punti che possono essere innovativi sul serio. A cominciare dal merito, dalla valutazione e dal peso che questi due fattori devono avere nelle retribuzioni. Le bozze prevedevano che solo il 30% massimo degli aumenti retributivi sarà determinato dall’anzianità, e il 70% dal merito. Premiando in tre fasce di diversa progressione l’80% dei docenti ed escludendone il 20%. A valutare il merito, secondo un certo peso tra crediti didattici, formativi e professionali, un nucleo di valutazione per ogni istituto, presieduto dal dirigente scolastico. Se gli insegnanti per due volte di fila non riuscissero a rientrare almeno nella terza fascia, rischierebbero un’ispezione. Se la mancata promozione persistesse, si potrebbe arrivare fino a quella che in gergo scolastico si chiama dispensa, cioè la sospensione dal servizio per incapacità, fino al licenziamento per inidoneità.

Chi qui scrive pensa che la valutazione, per essere efficace, deve unire chi dirige gli istituti a valutatori terzi. Ma in ogni caso anche ciò che proponeva il governo nelle bozze sarebbe una rivoluzione. Speriamo che il parlamento non ingrani la marcia indietro assecondando la contrarietà dei sindacati, visto che va data per scontata la sensibilità “interessata” di ogni forza politica, a questo punto, a non deludere i precari.

Ricordatevi che già oggi, nella scuola, ai dirigenti spetta valutare l’eventuale incapacità e inidoneità dei docenti. Gianni Maddalon, preside reggente dell’istituto superiore Einaudi-Scarpa di Montebelluna nel trevigiano, è finito sui giornali perché è esattamente ciò che ha fatto, nei confronti di un docente che è stato licenziato. Solo che di Maddalon ce ne sono pochissimi, nella scuola italiana attuale. E ieri, a Radio24, ha detto che nella sua esperienza un 3% dei docenti meriterebbe giudizi simili. Pensateci: su un milione e oltre di dipendenti del MIUR, sarebbero 30mila. Ecco perché serve una svolta vera, sul merito e retribuzioni. Per preparare meglio i giovani i voti non bisogna darli solo a loro, ma innanzitutto a chi insegna.