31
Ago
2015

Bibinomics: la lezione di Netanyahu — di Lukas Dvorak

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Lukas Dvorak.

Mentre Maria Elena Boschi ha passato i mesi di Maggio e Giugno a dichiarare che “Spagna e Israele stanno studiando la nuova Legge Elettorale italiana per copiarla” (senza indicare da quale fonte questa certezza proviene visto che il Jerusalem Post, in un articolo del 19 Marzo, considerava l’Italia un’anomalia democratica), nel corso di una cena tenutasi poche sere fa, Netanyahu ha dato una lezione di fiscalità a Giuseppe Sala, commissario unico di Expo 2015. Il premier israeliano ha affermato che in Italia si pagano troppe tasse e ha spiegato questa sua affermazione disegnando a penna, sul menu del ristorante nel quale i due sedevano, la curva di Laffer. Read More

26
Ago
2015

La paura ci fa chiedere alla Cina l’opposto di quel che serve

Travolto dalla paura di una crisi finanziaria peggiore di quella del 2008, l’Occidente chiede ai regolatori pubblici della Cina di tagliare i tassi, comprare titoli coi soldi pubblici, pompare liquidità alle banche, fare qualunque cosa purché la caduta di Shanghai s’interrompa e non si trasmetta alle piazze mondiali. E’ quel che la banca centrale cinese ha fatto: ha tagliato i tassi per la quinta volta dal novrembre scorso e per la settima volta da metà 2012, di 25 punti base sui depositi in modo che il valore degli asset finanziari indirettamente si apprezzasse; ha ridotto la riserva che le banche cinesi sono obbligate a detenere presso la banca centrale, in modo che la liquidità complessiva di sistema aumenti; ha venduto dollari per una ventina di miliardi e comprato yuan, per evitare pressioni ribassiste sulla moneta. E le borse occidentali sono rischizzate verso l’alto.

La domanda è: questa è la strada giusta? E’ figlia delle dure lezioni accumulate dal 2008 in avanti? O è pura disperazione? Per rispondere a queste domande, bisogna dichiarare coma la si pensa. Diffidare di chi in economia spaccia verità assiomatiche. Può avere cattedre e Nobel, ma tra i Nobel Krugman e Stiglitz la pensano all’opposto rispetto a Robert Lucas o Edmund Phelps, e non parliamo poi degli anni luce che li separano da Friedman o Hayek. Ergo dichiariamo le premesse in base alle quali le mosse della banca centrale cinese appaiono più figlie della disperazione che della lezione sin qui appresa.

La lunghissima serie positiva della Borsa americana che esplose con il default di Lehman è stata figlia di troppi anni di politiche monetarie accomodanti della FED di Greenspan, dopo la crisi asiatica di fine anni Novanta e quella delle Dot.Com a inizio anni Duemila. L’oceano di liquidità monetaria figlia di politiche monetarie troppo lasche gonfia le bolle finanziarie e immobiliari, perché con le borse che guadagnano a ritmi imparagonabili ai rendimenti del capitale nell’economia reale, è ovvio che il denaro poco caro prenda sempre più la via della finanza facile.

Alla crisi, non si è risposto affatto allo stesso modo dovunque, come ripetono in molti. E’ di gran moda, e piace molto a keynesiani e statalisti, dire che la risposta è stata quella di politiche monetarie ancor più accomodanti, a tassi praticamente negativi, e di acquisto massiccio di asset finanziari da parte delle banche centrali, il cosiddetto quantitative easing effettuato dalla Fed in tre lunghe fasi (oggi siamo alla fine della terza, sempre più ridotta, e il mondo attende che la FED alzi i tassi).

Questa è stata per così dire la condizione di emergenza garantita da una politica monetaria che, di fronte a una crisi americana cioè mondiale, si è inoltrata in acque sino allora ignote. Ma sotto questa cornice – a cui si è aggiunto molto dopo il QE della BCE, dall’inizio di quest’anno a settembre del 2016, volto a sostenere più che altro i titoli pubblici abbassandone l’onere, mentre i governi dovrebbero fare riforme per ridare equilibrio alle loro finanze pubbliche– in realtà ciascuno si è comportato in modo diverso, per affrontare i guai reali, cioè l’esistenza di debiti non sostenibili.

Gli USA hanno salvato alcuni giganti finanziari coi solidi pubblici, per vederseli poi in larga parte restituire, e hanno fatto la stessa cosa con due giganti dell’auto, GM e Chrysler, ma nel frattempo hanno fatto fallire centinaia di banche minori, addossandone le perdite ad azionisti e obbligazionisti. Il Regno Unito ha fatto la stessa cosa degli Usa con alcuni grandi banche, ma non con le imprese. In Europa sulle banche ciascuno si è comportato a modo suo, ma qui la parola d’ordine è “nessun fallimento” – vedi il caso MPS – e solo ora faticosamente siamo ai primi passi di una vera Unione bancaria.

Altri paesi, come l Svezia in crisi negli anni Novanta, hanno concentrato in mano pubblica debiti insostenibili da gestire, per attenuarne l’effetto sull’economia reale. Altri, come il Giappone, da 20 anni tengono i tassi bassissimi e sostengono pubblicamente in tutti i modi l’economia, ma non separando debiti buoni dai debiti cattivi anche l’attuale premer Abe si trova nei guai dopo 2 decenni di crescita asfittica.

Mettiamola così. Per chi è scettico sul fatto che banche centrali e finanza pubblica possano evitare che i mercati abbassino i prezzi per far svaporare le bolle, e per tornare finalmente a far orientare i capitali verso l’economia reale, le risposte alle mega crisi finanziarie possono avere al massimo come risposta immediata politiche monetarie interventiste. Ma l’essenziale è metter rapidamente mano a riforme profonde, lasciando ai mercati il diritto-dovere di fare i prezzi. Per tornare il più rapidamente possibile a politiche monetarie meno discrezionali possibili: l’esatto opposto di quel che oggi s’invoca dai banchieri centrali. Anche perché altrimenti più durano le politiche monetarie lasche, meno i governi riformano, e più la liquidità torna a gonfiare nuove bolle. Questa è la ragione per cui negli USA i Krugman sono perché la FED non rialzi i tassi, e per cui in Europa gli statalisti contano sul fatto che il QE di Draghi duri in eterno, invece di pensare a unificare davvero i mercati del lavoro, dei beni e dei servizi europei in nome di una maggiore produttività.

Torniamo alla Cina. Il partito comunista cinese guidato da Xi Jinping nel suo ultimo congresso ha indicato la strada di aprire l’economia cinese a forme sempre più vicine al mercato. Chi ieri ha brindato all’intervento della banca centrale cinese preferisce forse dimenticare che gli squilibri di cui vive la bolla finanziaria e immobiliare cinese sono tutti figli dell’eccesso d’interventismo pubblico, non del suo contrario. Da anni e anni la banca centrale cinese aumenta l’offerta monetaria tra i 3 e i 5 punti più di quanto non cresca nelle innattendibili statistiche ufficiali il PIL. Da decenni, l’economia è cresciuta investimenti pubblico che erano quasi la metà del PIL, e la montagna d’investimenti pubblici senza rendimento economico ha generato sovraccapacità gigantesca.

Fino all’altro ieri l’Occidente ha chiesto alla Cina di lasciare lo yuan libero di fluttuare sul mercato invece che regolato nel cambio dalla banca centrale. Di dissodare le banche pubbliche i cui libri sono pieni di asset ipervalutati e in realtà oggi senza prezzo, a cominciare dall’immobiliare. Di chiudere gradualmente il marginal lending, e cioè che società finanziarie non soggette ad alcuna valutazione spingessero oltre centomila cinesi senza risparmi a credere freneticamente nella Borsa anticipando loro i liquidi per investirvi (tutta gente che oggi rischia ovviamente il disastro). Che senso può avere oggi chiedere alla Cina l’esatto opposto, e cioè che Stato e banca centrale continuino a pompare soldi pubblici?

Direte voi: problemi loro, l’essenziale è che non diffondano crisi e instabilità nei mercati di tutto il mondo. Risposta sbagliata. Perché l’economia reale si prende le sue rivincite. Se la banca centrale cinese ha aspettato, prima di assumere le decisioni di ieri, è perché sa per prima che intervenire l’avrebbe costretta a dei controsensi. Quando si svaluta una moneta è perché i flussi di capitale escono dal paese, e di conseguenza per contenere il fenomeno occorre alzare i tassi e non abbassarli, come l’Occidente ieri ha invece caldamente spinto la Cina a fare. Se l’obiettivo è di pompare più liquidità attraverso le banche – e a questo serve abbassare la riserva obbligatoria – è un controsenso comprare al contempo yuan, perché significa diminuire la liquidità che si vorrebbe crescesse. In più, da quel che sappiamo la banca centrale cinese non è proprio l’esempio di un istituto liberista: detiene già asset nei suoi libri pari al 60% del valore del Pil cinese. Il doppio, in percentuale, di quanto abbia la Fed rispetto al PIL USA, dopo tre lunghe fasi di quantitative easing.

In conclusione: no, la riposta di ieri cinese non è quella più adeguata alle ormai gravi contraddizioni dell’economia cinese, è solo un pezza a colori. Chiesta dall’Occidente per bloccare la paura. Sarebbe meglio – e molto più stabilizzante per i mercati mondiali – che l’Occidente offrisse alla Cina una finestra spalancata per fare dello yuan una valuta di riserva visto il peso che la Cina ha nel mondo, a patto di sapere entro quanto verrà lasciato al prezzo di mercato, perché ciò consentirebbe a Pechino di contare sugli acquisti di molte altre banche centrali. Chiedendo alla Cina nel frattempo di fare in grande scala quanto fece la Svezia negli anni Novanta, cioè avviare un enorme processo di scouting sui troppi debiti insostenibili e sui troppi asset dichiarati a un valore che non esiste. Che lo Stato cinese si concentri su quello, mentre attua una vera vigilanza sulle sue banche e chiude nel tempo alla possibilità che oltre un terzo della sua intermediazione finanziaria sia operata da chi non è soggetto ad alcuna regolazione.

Un enorme programma pluriennale cinese di stabilità e pulizia finanziaria, da assumere come priorità inernazionalmente condivisa perché la Cina resti una locomotiva mondiale, continui ad assorbire sempre più esportazioni mondiali ad alto valore aggiunto per le sue centinaia di milioni di nuovi consumatori, e dipenda sempre meno da un proprio export forte per un basso costo della manodopera destinato comunque ad alzarsi.

In larghissima misura, è il compito del nuovo presidente degli Stati Uniti che succederà ad Obama, sempre che sia interessato a un mondo stabile. L’Europa ha giù i suoi enormi guai da risolvere. Al massimo possiamo essere una media potenza cooperante. Ma dovremmo per primi chiedere all’America in questi giorni di non commettere l’errore di chiedere ai cinesi solo misure figlie della disperazione a breve termine.

 

25
Ago
2015

Spiaggia bene comune nel mare dei luoghi comuni—di Gemma Mantovani

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Gemma Mantovani.

Una nota attrice comica italiana è tornata, lo scorso week end, alla ribalda della cronaca per essersi recata in uno stabilimento balneare ligure, aver rivendicato animatamente il diritto di poter stazionare sulla battigia ed essere stata allontanata dal gestore del bagno perché, secondo lui, il preteso diritto, l’attrice comica romana, non ce l’aveva. Chi ama il mare, prendere il sole e fare i bagni, sarà in cuor suo certamente un po’ solidale con la comica che dalla sua pagina facebook ha inveito contro le canaglie che ci vogliono togliere il diritto di andare al mare e contro i politici corrotti che hanno permesso questo. E qual è la parolina magica che associata a una cosa bella come la spiaggia accende la passione, ancor più se siamo nella calura di agosto? Ma ovvio, spiaggia… benecomune! La retorica benecomunista, ancora una volta, scalda i cuori ma rischia di raggelarci le meningi. Per citare una frase della divertentissima parodia di un santone televisivo, Quelo, fatta dal fratello comico della nota comica: “La risposta è dentro di te, ma è sbagliata”. Read More

25
Ago
2015

Integrazione ed egualitarismo—di Pietro Barabaschi

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Pietro Barabaschi.

Attenzione. L’integrazione non dev’essere “ugualitarismo”. Spesso si sostiene che due popoli che hanno una ”cultura” totalmente differente per poter convivere non possano fare altro che “integrarsi”. Ovvero che le convinzioni, le abitudini, gli usi degli uni e degli altri debbano in qualche modo incontrarsi a metà strada, pareggiarsi, per produrre così una specie di “ugualitarismo”.
In barba alle sirene del relativismo, l’auspicio che si può, si “deve” fare, è il seguente: non si tenda a costringere i più “colti”, quelli la cui storia è un tessuto più elaborato e complesso, a rinunciare alla propria superiorità (sì, superiorità), neanche col pretesto di non “offendere” i meno colti.
Le culture superiori sono divenute tali in millenni di storia: una storia, come diceva Indro Montanelli, scritta col sangue. La loro eredità in termini di diritto e di libertà, di stili di vita, di usi, va preservata gelosamente. E’ dopotutto grazie a uno di questi prodotti culturali – il capitalismo – che talune società sono divenute tanto attrattive, anche per chi proviene da culture diversissime.
Il relativismo è parente stretto di certo “veterosindacalismo”. Che, per dirla con una metafora per nulla relativista, invece di spingere i somari a diventare cavalli costringeva i cavalli a diventare somari.

25
Ago
2015

Perché ridurre le accise può salvare la faccia a Stato e BRE-BE-MI—di Lukas Dvorak

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Lukas Dvorak.

Sono da poco tornato da una vacanza ad Ibiza e non posso risparmiarmi dal commentare il costo della benzina: rientrava in cifre comprese fra i 1,420 e i 1,450 al litro. In Italia il prezzo alla pompa medio è di 1,597 (dati Sole 24 Ore aggiornati a data 15/08) dopo aver raggiunto la punta di 1,718 a Febbraio dell’anno scorso (dati CGIA Mestre) mentre in Spagna, nello stesso periodo, si aggirava intorno ai 1,410.
Il prezzo al consumo della benzina in Sicilia, spesso più alto rispetto che in altre regioni italiane, ci dice che il valore finale, quello da pagare alla pompa, è anche influenzato da costi di trasporto più elevati: se tanto dà tanto, essendo Ibiza un’isola delle Baleari, possiamo affermare che in Spagna la benzina non è mai aumentata a causa di balzelli. E, in effetti, la Spagna figura fra i paesi dove statisticamente la carbon tax influisce meno sul prezzo finale. Read More

23
Ago
2015

Cina: l’eterna illusione dei regolatori centrali, e il costo per voi tutti

La crisi della Cina colpisce in profondità 5 convinzioni diverse: la fiducia nel controllo totale esercitato dai comunisti cinesi sulla propria economia; la fiducia che l’intera area del Pacifico fosse un eldorado ancora per decenni; quella sulla sostenibilità di molti cambi monetari dei paesi emergenti; quella sul lungo ciclo positivo delle borse mondiali; e infine quella sull’onnipotenza non solo in Cina dei banchieri e regolatori centrali. E’ una colossale rivincita dell’economia reale – in questo caso, dei suoi maxi squilibri cinesi – rispetto ai regolatori pubblici. Ai quali, dal 2008 in poi, tutti si sono rivolti chiedendo loro di fare miracoli, naturalmente coi soldi pubblici. Dietro questo enorme processo che si è messo in moto, la domanda è: che cosa può venirne all’Italia. Purtroppo niente di buono: ma, al contempo, mali molto minori di quelli che invece minacciano grandi potenze economiche mondiali, e molti paesi emergenti.

Alcuni dati. Dopo il crollo delle borse cinesi a inizio agosto – Shanghai da giugno ha perso il 47% della sua capitalizzazione – e dopo la svalutazione del 3,7% dello yuan-renminbi, ecco nell’ultima settimana alcuni dati veri dell’economia reale cinese. Gli ordini di acquisto delle imprese manifatturiere scesi di molto sotto la soglia che indica contrazione, il peggior dato in 6 anni. La produzione industriale che mentre nel 2010 cresceva del 23% annuo ora stenta poco sopra la soglia del 5%. I consumi elettrici passato in 5 anni da +25% al +0,5%. Da anni è noto che la Cina non poteva continuare a crescere del 10% annuo contando su investimenti pubblici di poco sotto il 50% del PIl annuo, e su un export in crescita a doppia cifra fino a un quarto delle intere esportazioni mondiali. Il problema dell’economia reale cinese era e resta quello di dare ai cinesi più reddito per orientarlo ai consumi interni. E la difficoltà enorme è realizzare tale transizione in maniera equilibrata. Peccato che le vendite al dettaglio in Cina crescano di anno in anno meno, non di più: nelle statistiche ufficiali, aumentavano del 22% nel 2010, e in questo 2015 invece poco più del 10%. Piccolo problema aggiuntivo: tutti sanno che le statistiche ufficiali cinesi non sono affidabili. Nessuno crede che la crescita del Pil cinese sia davvero del 7% annuo in questo 2015, invece del 10% di anni fa: la stima vera del consensus internazionale sta tra il 4 e il 5%. Eppure, in presenza di un tasso di crescita dimezzato, la stima ufficiale dei disoccupati cinesi è assolutamente ferma da anni, a meno metà di quella Ue. Miracoli delle statistiche comuniste.

Chi ci rimette. Oltre metà del pianeta, grazie al fortissimo espansionismo cinese dall’Asia all’Africa al SudAmerica, è esposto a gravi conseguenze se la transizione cinese sfugge di mano. Se volete consolarvi, pensate che nella sola ultima settimana di cali delle borse mondiali i 400 supermiliardari più forti investitori del mondo hanno perso 182 miliardi di dollari di valore azionario, sul totale dei 3300 miliardi persi in dollari dalle borse. Non li hanno persi sui mercati cinesi, ma nei settori esposti alla Cina quotati a New York, a Londra e nel mondo avanzato. Il mitico indice S&P500 ha registrato la peggior perdita in una settimana dal 2011, ed è sceso sotto quota 2000 in perdita da inizio anno: il che per gli Usa significa interrompere la serie positiva che dura da 4 anni. E i settori colpiti sono tanti: tecnologie, energia, commodity come minerali e materie prime. Viste le attese di esplosione di consumi digitali cinesi, i 5 giganti internet USA –Netflix, Facebook, Amazon, Googl, Apple – hanno perso 100 miliardi di capitalizzazione in soli 2 giorni. Il petrolio è sceso sotto i 40 dollari al barile per la prima volta in 6 anni., mentre gli USA a luglio hanno estratto petrolio nella maggior quantità mensile dal 1920. Il Vietnam e il Kazakistan hanno fatto saltare i loro cambi fissi. In una sola settimana le valute della Russia, Bielorussia, di molti paesi africani, della Turchia, del Messico e della Colombia hanno perso tra il 3 e i 5%. Per i paesi asiatici che esportano in Cina tra un quinto e un quarto del loro export, dal Vietnam alla Thailandia alla Nuova Zelanda all’Australia, pessime notizie in arrivo.

Il debito pubblico Ue e ITA. Se in termini di export la frenata cinese e la possibile perdita di controllo da parte del governo di Pechino sono un danno maggiore soprattutto per i maggiori esportatori in Cina, a cominciare dalla Germania – noi siamo solo il 25° paese fornitore della Cina nelle graduatorie internazionali, con soli 10 miliardi di export nel 2014 – i danni sono invece anche e soprattutto nostri sul costo del debito pubblico. L’enorme fuga del rischio in atto sui mercati mondiali, l’attesa spasmodica e temuta di un rialzo dei tassi da parte della FED americana in autunno, e in piccolo anche la nuova instabilità creata dalle elezioni greche a settembre, ha portato in una sola settimana i rendimenti percentuali dei titoli di stato decennali italiani a salire del 2%, mentre quelli tedeschi scendevano del 12% e quelli francesi del 3% (malgrado i pessimi dati dell’economia reale e della finanza pubblica d’Oltralpe). Gli Stati Uniti perdono nelle borse, ma l’attesa del rialzo dei tassi riporta flussi finanziari verso i titoli pubblici americani, che hanno visto scendere il rendimento del 7%. In poche parole: gli italiani possono rimetterci dai guai cinesi molto più in tasse aggiuntive per consentire allo Stato di continuare a spendere troppo, che per minor export.

Il rimedio. A questo proposito, il mondo si spacca in due. O meglio, c’è una parte larghissimamente maggioritaria, e una di assoluta minoranza. Il più degli osservatori continua a non vedere che il mondo non può risolvere i suoi guai continuando a pompare montagne di liquidità da parte delle banche centrali che finanziano bolle finanziarie, e tifando perché i comunisti cinesi continuino a destinare migliaia di miliardi in investimenti superflui, e a credere che la borsa di Shangahi per ordine del partito possa solo salire, invece che ridurre valori e prezzi in linea con una bolla immobiliare nascosta per centinaia di miliardi negli attivi di banche di Stato opache. Per questo, i più tifano in realtà perché la Cina continui ad avere falsi mercati finanziari e dei cambi, non riformi le sue banche, non privatizzi e non liberalizzi. Tifano naturalmente perché la Fed da tutto questo deduca che i tassi americani non vanno alzati, perché sarebbe un pessimo segnale dato a tutto il mondo, volto a interrompere politiche monetarie troppo favorevoli alla sola finanza.

Chi scrive qui pensa invece che la Cina debba affrontare la realtà: statistiche non truccate, una valuta che fluttui e il cui prezzo lo faccia il mercato, mercati finanziari mondiali meno drogati dagli Stati. Questo significa tornare alla supremazia dell’economia reale su quella della pura finanza. E aprire la porta a libertà divili e politiche: la fine del potere comunista.

Gli italiani si facciano due conti. Malgrado il petrolio a 40 dollari è grazie al 60% che si frega lo Stato alla pompa in tasse, che il prezzo del carburante non scende. E malgrado il quantitative easing della BCE, come vedete il sovrapprezzo al rischio del debito pubblico italiano torna ad alzarsi, perché nessun artificio del banchiere centrale può nascondere ai mercati che in Italia la spesa pubblica corrente continua a salire, e insieme a lei il gettito fiscale sottratto all’economia pure.

Cari lettori pensateci: la crisi cinese è la moltiplicazione per mille su scala planetaria di ciò che l’eccesso di statalismo provoca sull’economia reale. Direte voi: ma senza Draghi che ci aiuta, pagheremmo ancor di più. Attenti: i politici e la finanza mondiale pensano che scudi come quelli di Draghi non siano emergenze temporanee per fare riforme, ma cuscinetti eterni destinati a nascondere i debiti pubblici, i quali poi, se davvero eccedono la misura, tanto si tagliano con un bell’haircut: mica succede come ai privati che falliscono. Senza scudi, gli indebitati pubblici e finanziari devono tagliare le spese. Con gli scudi, continuano a indebitarsi perché tanto sanno che il costo lo pagate voi e i vostri figli: come contribuenti italiani, come risparmiatori e come consumatori.

18
Ago
2015

Proprio sicuri che debba cambiare la Merkel, e non noi?

Come si è capito dalla visita a EXPO ieri della Merkel e dall’incontro con Renzi, l’Italia di oggi non è un problema prioritario per la Germania, che tifa per le riforme di Renzi. Il voto del Bundestag domani sulla Grecia, il rallentamento della Cina, i migranti, la testa del premier germanico è su quello. Ma, al contrario, il dibattito pubblico italiano vede la Germania come il problema numero uno. Berlino viene considerata come il freno deliberato all’economia nostrana ed europea, attuando un disegno che ci avrebbe reso schiavi delle sue convenienze. Nelle difficoltà, ci si rifugia nei paradossi. I paradossi hanno qualche elemento di verità. Ma li forzano all’estremo, fino a renderli inconseguenti. Forse è il caso di riflettere su quattro punti.

Più Europa o sovranismo? La Germania della Merkel viene considerata ostacolo insormontabile a un’Europa politica solidale. Al parlamento greco, Varoufakis ha attaccato frontalmente le 47 “azioni prioritarie” contenute nelle 30 pagine del memorandum firmato dalla Grecia per ottenere i primi 26 miliardi aiuti, sostenendo che è “un’abdicazione totale alla sovranità greca”. E’ la stessa accusa che da noi alimentano sinistre e destre anti euro. Delle due l’una, però. Non è affatto detto che l’idea di Europa con vigilanza comune su banche e bilanci d’impronta tedesca sia quella giusta, ma Berlino – e nelle ultime settimane, proprio Schaueble – ne avanzano con forza nuove proposte e sviluppi. Criticabilissimi, perché vogliono smontare la Commissione Europea e chiedono che i bilanci siano sorvegliati da un’autorità tecnica, distinta dal Consiglio Europeo che prende le decisioni politiche, perché in realtà stufi di vedere Francia e Italia che ogni anno chiedono eccezioni e rinviano gli impegni. Questa idea di Europa tedesca è interstatale, cioè difende l’idea che i passi in avanti debbano avvenire, ma senza che un solo euro venga trasferito a meno che i parlamenti nazionali dei paesi più forti votino ogni volta. In questo, fanno a mio modesto avviso meglio di noi che su questioni europee il parlamento non lo facciamo votare mai, e tanto meno convochiamo referendum. Se tale idea non ci piace, dobbiamo contrapporre un’altra idea di Europa, con proposte concrete di strumenti comuni sovrannazionali. Non l’abbiamo fatto. Anche perché se logica europea interstatale tedesca ha il difetto di frenare su strumenti comuni federali, in realtà è la francia da sempre a difendere l’idea sovranista nazionalitaria. Se però l’obiezione alla Germania è quella di voler difendere le sovranità nazionali, allora è più coerente chi dice di esser pronto a uscire dall’euro, cosa che viene meglio alle destre antieuro sovraniste (anche a casa nostra) che ai critici dell’euro da sinistra. Ma in ogni caso allora siamo noi, a non credere in una qualunque sfera sovranazionale che dia solidità all’euro, non la Germania che ha comunque un’idea sua, per criticabile che sia.

Concessioni, la strateghi dei pitocchi. Anche in questo pre –autunno 2015, l’Italia chiede alla Germania e alla Ue sforamenti degli impegni già assunti. Poiché sommando i diversi annunci del governo sulla scena nazionale – tra clausole fiscali da far saltare, decontribuzione dei contratti, abolizione dell’IMU, nuovi contratti al pubblico impiego, recupero delle pensioni prima stoppate, misure per le imprese, per la scuola, prepensionamenti e interventi a favore della povertà – la manovra in legge di stabilità supera i 30 miliardi di euro, ma la spending review se va bene è di 10 miliardi. Ecco che ancora una volta chiediamo che non valga l’impegno a contenere il deficit 2016 all’1,8% del PIl, che già l’anno scorso Bruxelles ci ha consentito di accrescere rispetto al deficit all’1,4% che avrebbe dovuto essere obiettivo per il 2016. C’è chi dice che Renzi punti nel 2016 al 2,2% di deficit, chi al 2,5%, chi addirittura al 2,9%. Ma è sempre la stessa storia. Noi i tagli alle spese pubbliche per recuperare copertura a tagli di imposte li rinviamo sempre. La spesa pubblica è salita dal 2012 al 20124 da 821 a 838 miliardi. Nei primi 6 mesi del 2015, è cresciuta di 18 miliardi rispetto al 2014. E’ colpa dei tedeschi, o nostra?

La frenata generale. I dati del secondo trimestre del PIl europeo hanno deluso tutti. Il nostro +0,2% ha però fatto compiacere molti, comparato al +0,4% tedesco invece del +0,5% atteso, e allo 0% francese. L’Europa cresce poco rispetto a USA e Uk, malgrado l’euro in calo, il petrolio sotto i 50 dollari, e il quantitative easing della BCE. La colpa è dei tedeschi, dicono in molti. Ne siete sicuri? O siamo vittime di un’ubriacatura generale nell’interpretazione dei dati? Il punto non è che la Germania crescerà – nelle stime – dell’1,5% nel 2015 rispetto al nostro, forse, stentato +0,7%. Il punto è che gli andamenti annuali vanno parametrati rispetto a quello che ciascuno ha perso o guadagnato negli anni alle nostre spalle. Anche se la Germania perderà di più di noi dalla frenata cinese, l’Italia è l’unico paese che si è impoverito da quando è entrato nella moneta unica: dal 1999 ad oggi il PIL pro capite italiano è sceso di 3 punti percentuali. Nello stesso periodo il PIL pro capite medio dell’area euro è cresciuto di oltre 10 punti, quello della Spagna di 9, quello della Grecia comunque di 3 punti, nonostante la terribile voragine registrata dalla crisi. Negli stessi anni, il PIL pro capite tedesco è salito del 21%, quello americano e britannico del 17%, quello giapponese del 15%. L’export italiano ha fatto miracoli, passando a prezzi correnti dai 440 miliardi di euro del 2008 ai 475 del 2014. Mentre quello tedesco è passato da 1113 a 1325 miliardi. Ma il debito pubblico italiano è passato dal 102% del 2008 al 132%. Su questo, potete pensare che la colpa è dei tedeschi solo se non guardate che nel frattempo abbiamo sempre alzato la spesa corrente pubblica con una spremuta di tasse per non tagliarla, e realizzare comunque possenti e positivi avanzi primari. Siamo il paese record per avanzi primari pubblici nell’euroarea, per ben 591 miliardi in 15 anni a fine 2014 rispetto ai 428 della Germania (la Francia negli stessi anni ha accumulato deficit primari per 338 miliardi). Ma i tedeschi nel frattempo hanno tagliato spesa e tasse, entrambe per più del 5% di Pil, noi le abbiamo fatte crescere. E’ colpa nostra, o tedesca?

La produttività. Ancora una cosa. Tutti guardano alla finanza pubblica, chiedono più deficit e teorizzano che il debito non è un problema, tanto alla peggio basta cancellarlo. Ma in realtà nel nostro paese dovremmo tenere prioritariamente lo sguardo fisso soprattutto a un altro dato, visto che il basso debito estero complessivo e l’elevata patrimonializzazione delle famiglie rende il debito pubblico comunque solvibile. Dovremmo maniacalmente tenere lo sguardo fisso sulla competitività. Da quando siamo entrati nell‘euro a inizio anni Duemila, il nostro CLUP (costo del lavoro per unità di prodotto) nel manifatturiero è aumentato del 37% rispetto a quello tedesco, e se contiamo gli interventi sin qui realizzati dal governo Renzi il gap scende nel 2015 da 37 punti a 35. I tedeschi dal 2002 al 2005 hanno cambiato welfare, puntato ancor più sulla contrattazione aziendale, realizzato in moltissimo grandi gruppi un grande patto tra stop all’aumento dei salari reali e anzi loro diminuzione per la difesa dell’occupazione e più produttività. Da noi i sindacati sono ancora contrari a lavorare a ferragosto all’Electrolux di Susegana per smaltire gli ordini, e sono stati smentiti dai lavoratori che invece hanno lavorato. Sono i tedeschi, a dover cambiar testa, oppure noi? Non dovremmo esser noi per primi a cambiare molto in casa nostra, proprio per aver titoli migliori per eventualmente controproporre una diversa strategia per l’Europa, rispetto a quella interstatale che la Germania persegue?

17
Ago
2015

Car sharing “bene comune”: non c’è limite ai luoghi comuni!—di Gemma Mantovani

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gemma Mantovani.

Grazie alla lettura del libro I beni comuni oltre i luoghi comuni ci si può accorgere di come la retorica benecomunista pervada la nostra vita di tutti i giorni. La polemica sul car sharing a Milano credo ne sia un esempio. Il comune di Milano nel 2013 decide di selezionare soggetti interessati a svolgere il servizio di car sharing.

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16
Ago
2015

Un lago blu, rosso sangue—di Paolo L. Bernardini

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Paolo Bernardini.

Prospettive mediterranee, ovvero sezioni longitudinali e latitudinali di un mare difficile

Una riflessione sul destino del Mediterraneo, o, piuttosto, dei popoli e gli stati che si assiepano intorno alle sue rive, giunge particolarmente necessaria, sia oggettivamente, per gli avvenimenti gravi che stanno interessando questo mare, culla di (quasi) ogni civiltà, sia soggettivamente. Ho terminato infatti un corso di geopolitica liberale all’Insubria interamente dedicato agli stati mediterranei – ovvero tutti quegli stati che si affacciano sul bacino anche solo per pochi chilometri di costa, come la Bosnia e la Slovenia, o per un tratto maggiore, ma che sono fondamentalmente legati alla terraferma, come la Siria – e mi sto dedicando alla stesura di un grosso volume in inglese di storia “globale” del Mediterraneo nell’Ottocento, provvisoriamente intitolato The Modern Sea. A Global History of the Mediterranean from Avignon to Lausanne, 1791-1923. I due termini, post e ante quem, sono dati rispettivamente dal referendum per l’autodeterminazione di Avignone, il 1791, e dal trattato di Losanna del 1923, che pose fine alla questione turca, perfezionando, in senso negativo, quello di Sèvres di tre anni prima.

Ma ben più che le situazioni soggettive, conta l’oggettività della storia, anzi il “banco del macellaio della storia”, come direbbe Hegel, e, in questo caso, a ragione: una strage nei dintorni di Hammamet rivendicata dall’ISIS (stile palestinese: infatti in Israele si entra in spiaggia pubblica passando dal metal detector, e gommoni della sicurezza pattugliano di continuo la costa), movimento legato alla Siria e all’Iraq, e la Grecia in una situazione di crisi estremamente drammatica, che mette in dubbio tutto l’assetto dell’Unione Europea, entità in cui gli stati mediterranei non sono la maggioranza, ma sono tutti importantissimi sotto ogni rispetto.

Queste peraltro sono solo le punte di un universo variegato di instabilità politica che tocca le coste di un mare che “stabile” fu raramente, forse solo nei lunghi secoli di dominio romano, prima repubblicano poi imperiale, che trasformò questo grande lago in un “mare nostrum”, circostanza mai più replicata, non ostante i tentativi di Luigi XIV, di Napoleone, dell’Italia o della Francia imperiali tra Otto e Novecento, ma ancor prima di Filippo II o degli Arabi per tre secoli dopo Maometto. Forse l’unico impero che – con territori strategicamente fondamentali sotto la propria giurisdizione diretta o indiretta, da Gibilterra a Malta a Cipro all’Egitto – sia riuscito nell’impresa di ricostituire un dominio totale del Mediterraneo (ma in modi assai diversi dall’Impero romano che ne controllava tutte le coste) è stato quello inglese, almeno fino al 1945 (poi la decolonizzazione rese de facto indipendenti realtà come Malta, de iure tale solo nel 1964).

Il Mediterraneo è anche la Catalogna (e assai più timidamente e maldestramente) il Veneto che aspirano all’indipendenza, sono anche la Sardegna e la Sicilia sempre più radicalmente vicine l’una all’altra nel progressivo depauperamento della risorse e dell’economia produttiva,, sono la Corsica dove l’indipendentismo non è mai morto, ma non è mai veramente decollato, sono le realtà maghrebine tutte, forse ad eccezione del Marocco, in una situazione di instabilità.

Perfino alcune industrie legate primariamente al mare, se ci trasferiamo al discorso economico, come quella crocieristica, stanno segnando il passo: proprio di questi giorni, a Venezia – dove tra l’altro si rappresenta con somma sorpresa di alcuni alla Fenice la Iuditha Triumphans di Vivaldi, un vero e proprio inno anti-ottomano, una sorta di Persiani di Eschilo di età illuministica, e in musica – si annunciano pesanti tagli e licenziamenti nel settore, che pareva fino a poco tempo fa il nuovo eldorado.

E questo per citare alcuni soli dei “problemi” che affliggono il bacino.

Metto tra virgolette “problemi”, sia perché non credo alla categoria storiografica del “problema” (la storia è tutta un problema, o tutta una soluzione, dipende dai punti di vista) sia perché si tratta un rimando ad un’opera del grande analista dei “problemi”, appunto, coloniali in età fascista E. W. Polson Newman, che pubblicò nel 1927 un’opera eccellente e fondamentale proprio con questo titolo: The Mediterranean and Its Problems, evidenziando le questioni aperte dopo Versailles e il grappolo di trattati successivi, da Rapallo a Sanremo, da Sèvres a Losanna, e la soluzione di “equilibrio” mai veramente raggiunta dal 1927, mentre si stava affermando, prepotentemente, la nuova Turchia, ad oggi.

Occorre dire che gli storici si stanno occupando intensamente, di nuovo, del Mediterraneo, inteso come “oggetto in sé” di ricerca (molto fluido, ovviamente), e non solo occorre citare i noti eredi di Fernand Braudel come David Abulafia, Lincoln Paine, Nick Purcell, ovvero gli autori di grandi opere di sintesi, tra gli altri (ma ci pare giusto citare anche sia le pregevoli opere manualistiche italiane (Storia del Mediterraneo moderno e contemporaneo, Guida 2009, di Francesca Canale Cama, Daniela Casanova, Rosa M. Delli Quadri, sotto la direzione di Luigi Mascilli Migliorini, e i lavori tecnici di storia economica di Emanuele Felice a Barcellona o Maria Sofia Fusaro a Exeter, nonché l’immensa mole di lavoro scientifico e di documenti primari messi a disposizione del pubblico proprio da Mediterranea, il centro studi palermitano che fa capo a Orazio Cancila), oltre al gigantesco lavoro portato avanti dai francesi, in particolare dalla Maison Méditerranéenne des Sciences de l’Homme di Aix-Marseilles (un eccezionale partenariato CNRS e università, che si dovrebbe prendere ad esempio in Italia), creata da Robert Ilbert nel 1997; e l’unico centro, forse, a tenere nella giusta considerazione quello che potremmo chiamare l’altra metà del cielo, o piuttosto, l’altra metà del mare, il mondo islamico.

Uno tra i maggiori storici contemporaneisti italiani, inoltre, Nicola Labanca, ha dedicato di recente un importante,, ma problematico, appunto, intervento al Mediterraneo, disponibile in rete: “La decolonizzazione del Mediterraneo. Una chiave per capire il presente” (ringrazio la collega Prof. Paola Villani per avermelo segnalato), ove mette in guardia da soluzioni troppo ottimistiche, come quelle di Danilo Zolo e Franco Cassano, esposto ne L’alternativa mediterranea, seguendo un filone che definirei lirico-buonistico-crepuscolare di posizioni sul Mediterraneo (la lirica finisce sempre nei cimiteri, come quello, appunto, “marino” di un grande amante del Mediterraneo, Paul Valéry, il quale era non solo di Séte, ma anche mezzo genovese da parte di madre, o si pensi al “pescatore” del pessimista mediterraneo de André) da Biamonti a Predrag Matvejević (e infiniti seguaci sull’italiche sponde); e dove giustamente sostiene non solo l’idea di un Mediterraneo “frammentato” più che “unito” (per quello che possono valere tali categorie), ma anche il fatto che senza la comprensione dell’evoluzione degli “stati di terraferma”, dei grandi imperi di terra come quello absburgico, russo, ma anche ottomano, non si comprende nulla di quello che avviene ai loro margini, ovvero nel bacino mediterraneo. Si tratta di un filone molto ancorato ad una visione idilliaca, dalla prospettiva di uno yacht, appunto, del Mediterraneo, propria di una lunga tradizione, da Guy de Maupassant a Emil Ludwig (senza contare gli innumerevoli inglesi come il maggiore Gambier-Parry, di una importantissima famiglia), le cui pagine di Am Mittelmeer, ad esempio, del 1923, racchiudono tutta una serie di mitologie e lirismi mediterranei che si aprono con Genova e i suoi Van Dyck, e si chiudono con Venezia, circolarmente, quasi, e le sue meraviglie.

Ma il discorso tocca anche altri temi.

Naturalmente, io guardo molto criticamente a o quella posizione radicale e foriera di tante sciagure che è propria di Samuel Huntington, ovvero la teoria dello “scontro di civiltà”, teoria che non ho mai personalmente condiviso, per ovvi motivi, essendo le distinzioni sociali ed economiche, per me, molto più forti di quelle religiose. Ed essendo una teoria che giustifica un interventismo americano che si sta dimostrando mostruosamente cieco o quantomeno unilaterale: se è vero che nel giorno del Ramadan 2015 un attacco a spirale del Califfato in tutto il Medio Oriente e la Tunisia si è svolto mentre tutta l’attenzione strategica NATO, ovvero americana, era concentrata sui confini ucraini.

Da un lato dunque consiglio, come alternativa a Huntington, l’altrettanto provocatorio libro di Richard W. Bulliet, La civiltà islamico-cristiana. Una proposta (Laterza, 2005); dall’altro, rifiutando l’idea di un Cassano e di uno Zolo di un “Mediterraneo progressista”, ma anche ponendomi criticamente verso Labanca, proverò, qui e ora, a dare qualche soluzione alternativa di lettura del Mediterraneo di oggi. La Libia, per cominciare, e correggere Labanca, non è ricca, è potenzialmente ricca, per le risorse naturali di una parte sola di un paese “inventato” dall’Italia nel 1911, e composto da tre realtà veramente distinte, di una, il Fezzan (dalla storia veramente inquietante ricostruita perfettamente da Paolo Soave in Il Fezzan. Il deserto conteso 1842-1921, Giuffrè 2001), del tutto distinta dal Mediterraneo eppure capace, a riprova della bontà, in questo, delle tesi di Labanca, di condizionarne potentemente il destino.

Dal punto di vista di uno storico liberale, il Mediterraneo degli anni Duemila appare esattamente il contrario rispetto alla visione rosea di Zolo-Cassano e compagnia, è ben poco progressista, e appare invece progressivamente diviso sia nella sua tradizionale sezione “latitudinale” (Nord-Sud) sia in quella “longitudinale” (Ovest-Est). Della divisone “longitudinale” parlerò meno, ma esiste eccome, si pensi al divario economico tra Liguria e Veneto, per rimanere nella sola Italia settentrionale, ed ha importantissime radici storiche, legate ad esempio all’insana, ma ovvia idea, di privilegiare il Tirreno rispetto all’Adriatico dopo l’unificazione italiana.

La divisione Nord-Sud risale a fattori storici importanti, ad esempio la mancata industrializzazione dell’Impero Ottomano (in Italia fu tardiva, ma ci fu, in Spagna recentissima, ma c’è stata) che rimase troppo a lungo un impero fondato sull’agricoltura, e solo parzialmente sui commerci, come Sevket Pamuk, e numerosi altri storici economici turchi, hanno messo in luce, per il Settecento, secolo peraltro di consolidamento economico e ripresa dell’Impero nonostante le sconfitte inflittegli dai russi, ma anche e soprattutto per l’Ottocento.

La mancata industrializzazione, o la tardiva industrializzazione della sola Turchia ormai sciolta da obblighi e pretese imperiali, ha fatto mancare il passaggio fondamentale al terziario. Può esistere un terziario avanzato senza un retroterra industriale: forse sì, ma solo in peculiari situazioni di ricchezze provenienti da altre fonti (naturali, come negli Emirati), di privilegi storici e di posizione (Montecarlo), o, per rimanere nel Mediterraneo, di compresenza di settore industriale e settore terziario avanzato come in Israele. L’illusione, inoltre, che intere economie si possano reggere sul turismo, è quella che sta condannando alla miseria la Sardegna, per fare un solo esempio.

Se si guardano ai dati macroeconomici, non solo il divario nella sezione latitudinale del Mediterraneo è immenso, ma vi sono ampie porzioni di paesi come l’Italia (tutto il Meridione, industrializzato e molto ma solo prima dell’Unità) ma anche come la Spagna (l’Andalusia, 17 comunità autonome, occorre ricordare), che stanno seguendo il corso della storia al rovescio e che sono sempre più tragicamente attratte nella miseria del Mediterraneo del Sud, verso quel mondo arabo che senz’altro ha conosciuto momenti migliori, in particolare quando l’Andalusia, e la Sicilia, ne facevano in tutto e per tutto parte.

Il reddito pro-capite della Sicilia e della Sardegna sta avvicinandosi paurosamente a quello del Marocco, Tunisia, Libia (la Libia ha circa 11.000 USD pro-capite, la Sicilia si aggira intorno ai 16.000), ben al di sotto di quello francese, catalano, veneto, e meno della metà di quello lombardo. “Alternativa mediterranea, Mediterraneo progressista?”. Non è così. Nella Tunisia esaltata fino a pochi mesi fa come paese tranquillo, ricco, “avanzato”, ove gli italiani negli anni Ottanta (si pensi al caso Craxi) costruivano le proprio sontuose dimore estive, le due stragi di questi ultimi mesi segnalano una situazione contraria, il fondamentalismo islamico sta mettendo inquietanti radici, in un paese, sconvolto da una rivolta estesa, che (come del resto nessun paese al mondo) non può certo prosperare fondando tutta la propria economia sul turismo, ma neanche sulla pesca, con realtà atlantiche tipo Pescanova (Vigo) e multinazionali, che stanno ormai monopolizzando il mercato (globale).

Se poi continuiamo nella disamina dei fattori geopolitici che destabilizzano questo “mare nostrum” che ora è propriamente un “mare nullius”, con flotte sospette che vi si aggirano, abbiamo la denatalità italiana, spagnola, parzialmente anche francese, compensata da una spropositata natalità in paesi come l’Egitto (e anche la Siria). L’Egitto, che all’inizio dell’Ottocento aveva circa 4 milioni di abitanti, e ne contava circa 15 milioni nel 1936, anno in cui venne dichiarata l’indipendenza (molto parziale per Nasser, e aveva ragione), ne ha ora circa 80 milioni, che le proiezioni indicano in 90 milioni nel 2030 (tra quindici anni). Si tratta di una crescita sostenibile? Il liberalismo ha troppo spesso ignorato Malthus, ma si può essere a favore di una crescita limitata della popolazione senza essere maltusiani.

La Siria, che è paese mediterraneo, almeno parzialmente, e storicamente legato ai traffici che portarono ricchezza e peste in Europa (Damasco e Aleppo sono come Fez in Marocco o Firenze e Pisa in Italia o Exeter in Inghilterra: non direttamente sul mare, ma legate al mare e ai commerci in modo vitale), ne conta 25 milioni. Quando, nel 1946, nel “giorno dell’Evacuazione” i francesi lasciarono il paese consegnato loro in mandato, per la precisione il 17 aprile, ne aveva circa 3 milioni. Si tratta, ce lo domandiamo di nuovo, di una crescita sostenibile?

Ma i fattori destabilizzanti sono anche altri, che è bene ricordare. La Turchia, paese in crescita problematica, con una capitale che è una Città del Messico sul Bosforo, in continua, disordinata crescita, con una potente flotta aerea mercantile, le Turkish Airlines, sta riconquistando terreno in tutti i vecchi domini ottomani, compreso il Kazakhstan, ma anche nella vecchia “Turchia d’Europa” balcanica, dal Cossovo alla Bosnia, fino alla Slovenia, esclusa quest’ultima essendo sempre stata nell’orbita asburgica. Si tratta di una penetrazione anche culturale, si pensi a realtà per ora piccole, come la International University di Sarajevo (IUS), di cultura e management turco.

Lo “Index of Economic Freedom”, l’indice della libertà economica messo insieme e pubblicato con aggiornamenti ogni anno dalla Heritage Foundation, dal Wall Street Journal, e dall’Istituto Bruno Leoni per quel che riguarda l’Italia, ci consegna un’immagine pessima del Mediterraneo, altro che progressista o progressivo o modello di sviluppo, integrazione, “dialogo”. Profondamente indietro nell’evoluzione del mondo. Si tratta del materiale che ho utilizzato per il mio corso insubre di “States, Economy, and Global Markets” cui ho fatto cenno all’inizio di questo paper.

Tanto per cominciare, tra gli otto paesi non classificati per grave instabilità politica e dunque mancanza di dati, lista da cui va escluso il ricchissimo Liechtenstein che fa storia a sé e non rilascia dati sul suo grandissimo benessere perché non vuole, due, Siria e Libia, sono mediterranei, l’altro, il Cossovo, non lo è tecnicamente per pochi chilometri ma la sua storia è sempre stata legata all’evoluzione mediterranea, mentre Afghanistan, Iraq, Somalia e Sudan sono stati legati a doppio filo alle potenze mediterranee e alle loro politiche, in grandi e piccoli “giochi”. Se poi invece ci spostiamo al vertice, il primo paese che compare nella classifica è Israele, alla posizione numero 33. I grandi colossi mediterranei, Francia, Italia, Spagna, Turchia, sono molto più in basso. Dopo Israele abbiamo infatti Cipro al 45esimo posto, ma Cipro inevitabilmente soffrirà della crisi greca, paese cui è ovviamente legato sotto molteplici rispetti.

La libertà economica si riflette anche sul reddito pro-capite, vero indicatore di ricchezza? Sì, dal momento che Israele ha un reddito pro-capite inferiore, nell’area mediterranea, solo, e lievemente, alla Francia. Italia e Spagna sono intorno ai 30.000 USD pro-capite, ma i divari interni sono tra i maggiori al mondo, tra Sud e Nord in Italia, tra Catalogna, Paesi Baschi da una parte e Andalusia (e numerose altre realtà) dall’altra, in Spagna.

Il Mediterraneo appare tragicamente diviso, arretrato nel contesto dell’economia mondiale (nonostante il 30% del traffico mercantile mondiale ancora passi per le sue sponde), e le sue differenze possono ammantarsi di coloriture religiose, ma queste coloriture nascondono la drammatica realtà di un divario socio-economico, e di conseguenza culturale, straordinario. Un divario persino maggiore di quello di altri mari che dividono realtà politiche per sezioni latitudinali. Ad esempio il Golfo del Messico, il “Mediterraneo americano” secondo il giornalista del secolo scorso Vico Mantegazza, gran esperto di questioni, appunto, mediterranee (da notare poi che l’American Mediterranean è divenuto nozione geopolitica e geografica ben assestata, includendo poi il mar dei Caraibi). Il reddito pro-capite del Messico è un terzo di quello degli USA, ma è in continua crescita, e si assesta, a PPP, sui 15.000 USD, molto dignitoso. Il reddito pro-capite egiziano, uno stato che avrà presto la popolazione messicana, ovvero oltre 100 milioni di cittadini, è di 6500 USD pro-capite, che è un quinto di quello del tradizionale referente e confinante, ora amico ora più spesso nemico, Israele. O della Francia, legata storicamente a doppio filo con l’Egitto, o ancora dell’Inghilterra, di cui l’Egitto fu colonia, e non per breve tempo, bensì de iure dal 1882 fino al 1936. La situazione mediterranea viene replicata, piuttosto, nei Mar Caraibico, dove abbiamo al nord gli USA, al centro Cuba e Haiti e la Giamaica in situazioni molto problematiche, e al Sud un Venezuela allo sbando.

Che poi dalla prospettiva di una bella spiaggia delle Isole Vergini danesi fino al 1917, St. John, ad esempio, o St. Thomas, ci si compiaccia nell’affermare “Come si sta bene ai Caraibi!”, è attività in cui si sono probabilmente esercitati, magari da Veglia o Palau o Nervi, tutti coloro che dipingono con colori tenui e dolci il Mediterraneo, trasformandolo in un olio rasserenante, alla Sacheri, per i buoni salotti della borghesia ottocentesca.

Ma la situazione non è per niente rosea. E pare, veramente, destinata a peggiorare.

Proprio per questo, con notevolissima intensità, crescono gli studi dedicati a questo mare, poiché si intuisce che l’instabilità che lo caratterizza potrà avere conseguenze a lungo termine per gli equilibri, o piuttosto, la crescita mondiale.

In un tale contesto azzardare prospettive per il futuro è veramente difficile. E tuttavia proprio la storia fornisce la chiave per interpretare il futuro nel modo migliore. Al momento, sono pochissimi i paesi che si affacciano su di esso in crescita economica, forse il solo Israele – paese per altri versi estremamente problematico – è in una tendenza crescente. La recessione, anche grave, tocca quasi tutti gli altri. Per non parlare degli “altri” mediterranei, il Mar Nero, il Mar Caspio, il Mar Rosso, e il Golfo persico. Sembra che la Storia, che è iniziata qui, qui torni potentemente ad agitarsi, con conseguenze difficilmente prevedibili.

Paolo L. Bernardini è docente di Storia moderna presso l’Università degli Studi dell’Insubria a Como.