14
Set
2015

La prelazione c.d. artistica: questione di coerenza

Il legislatore nazionale si contraddistingue per una caratteristica peculiare: la carenza di una preventiva ponderazione comparativa degli interessi rilevanti nell’ambito cui indirizza il proprio intervento, basata su un’esaustiva analisi costi/benefici, gli impedisce di valutare quali debbano essere sacrificati in vista del perseguimento di quello reputato prevalente. Conseguentemente, in mancanza di un’adeguata graduazione di istanze tra loro contrapposte, egli tenta di soddisfarle tutte al contempo, elaborando marchingegni normativi la cui complicazione strutturale e procedimentale dà di solito luogo a corto circuiti operativi. Alcuni profili della disciplina inerente ai beni culturali ne rappresentano un palese esempio. Read More

11
Set
2015

Il Giubileo fa già miracoli: l’acqua sarà gratis!

Sarà stato il successo che hanno avuto a Expo, o forse il bisogno della giunta romana di qualche colpo a effetto che placasse le roventi polemiche degli ultimi mesi. Fatto sta che anche Roma sta per essere invasa dalle “case dell’acqua”, come ha dichiarato con orgoglio qualche giorno fa l’ad di Acea (la municipalizzata del Comune di Roma che si occupa di energia e acqua), Alberto Irace: “oggi sono 10, tutte in periferia, ma entro il 2016 saranno almeno 100”. La notizia, di per sé, va salutata con favore: indubbiamente queste “fontanelle 2.0” ampliano l’offerta di acqua nelle nostre città, rendendo i cittadini più liberi di scegliere. Ma è il dietro le quinte a sollevare qualche dubbio, per almeno tre motivi.

Primo. Nonostante la campagna mediatica che ormai da anni proclama la gratuità dell’acqua che sgorga dalle casette (lo stesso Irace ha dichiarato che “si tratta di distributori gratuiti”), queste ultime costano e non poco. Innanzitutto perché l’acqua “alla spina” proviene dagli acquedotti comunali: il fatto di pagarli con le imposte e non direttamente non ne abbatte il costo, anzi, semmai lo nasconde. Quindi, no, non è gratis: la pagano i contribuenti, esattamente come quella che sgorga dai loro rubinetti (essendo la stessa, identica acqua). Ma non solo: i costi d’installazione delle casette, nel progetto di Acea, ammontano a 3 milioni di Euro, senza contare la futura manutenzione. Tutto, nuovamente, pagato dai contribuenti. Altro che gratis!

Secondo. Ammesso e non concesso che taluni contribuenti siano felici che le proprie tasse finanzino le casette dell’acqua, siamo certi che queste rientrino nel perimetro del servizio idrico essenziale, atteso che la medesima acqua che da esse viene somministrata finisce già sulle case di tutti i residenti romani, attraverso i rubinetti? Oppure il vantaggio fornito alle casette dell’acqua – rispetto, che so, all’acqua in bottiglia – è un sostegno ingiustificato a un particolare settore di mercato? C’è davvero bisogno di un intervento pubblico che finanzi le casette dell’acqua, o è un’attività che potrebbe essere lasciata in mano ai privati eventualmente interessati? E siamo certi che quei soldi non potessero essere usati per fini più nobili di fontanelle 2.0 che distribuiscano l’acqua potabile che già sgorga dai rubinetti di tutte le case romane?

Terzo. La stessa campagna mediatica che fa leva sulla gratuità delle case dell’acqua invoca spesso i benefici ambientali e i risparmi di plastica generati dal loro utilizzo. Ma questo messaggio è ingannevole, quando non addirittura discriminatorio. Sostenere che le famiglie possano diminuire il costo dell’acqua imparando a bere quella dell’acquedotto invece di quella in bottiglia, infatti, mette in concorrenza fra loro due prodotti che non sono equivalenti. E che dire di chi è costretto a bere acqua minerale per ragioni di salute?

Probabilmente, durante il Giubileo, i pellegrini saranno ben contenti di godere del miracolo dell’acqua gratis; i contribuenti romani dovrebbero esserlo un po’ di meno.

Twitter: @glmannheimer

8
Set
2015

Tra profughi e migranti, due rischi per l’Italia

Su profughi e migranti può essere, speriamolo davvero, che in Europa sia in corso una vera accelerazione storica, da tardiva presa di consapevolezza. Gli antitedeschi per pregiudizio masticano amaro, perché è la Merkel ad aver svoltato. Il punto ora è cercare di ragionare, senza farsi travolgere dall’entusiasmo. Dopo anni, come Italia, trascorsi a misurare la testarda sottovalutazione altrui di un fenomeno che sembrava colpire solo noi. Domani al parlamento europeo il presidente della Commissione, Juncker, terrà il suo discorso sullo Stato dell’Unione. Si dovrebbero finalmente capire i dettagli delle proposte su cui sta lavorando Bruxelles. Si capirà davvero come funionerebbe il piano di ripartizione comune dei profughi passato da 32mila a 160mila richiedenti asilo. E in che cosa consista l’eventuale opting out a pagamento, per chi rifiuta le quote. Già sapendo che Madrid ieri ha detto no ai 15 mila che gli spetterebbero. Che i paesi centro europei del blocco di Visegrad mantengono le loro obiezioni (e muri). E che i bavaresi della Csu obiettano alla Cdu della Merkel sui 31 mila che spetterebbero alla Germania, in aggiunta alle centinaia di migliaia di siriani che la Germania a questo punto si attende, avendo dichiarato la politica della porta aperta a chi è in fuga da quel paese.

Come italiani, è il caso di fare due riflessioni fuori dai denti. Prima che sia troppo tardi, e cioè che il precipitato europeo assuma la conclusione di regole nuove formalizzate, al posto di quelle di Dublino. C’è un primo aspetto, che riguarda i soggetti destinati al meccanismo delle quote. E ce n’è un secondo, che investe le iniziative che – anch’esse sul tamburo – si annunciano da parte di capitali europee nei confronti di paesi da cui originano i flussi.

La Germania sotto la guida della Merkel ha compiuto una scelta che cambia l’atmosfera in Europa. E lo ha fatto con assoluta fedeltà allo spirito tedesco. Cioè tutelando in maniera rigorosa i propri interessi nazionali economici. Le porte spalancate ai profughi dalla Siria identificano la comunità nazionale – tra tutte quelle impegnate nell’esodo biblico in corso – meglio formata come capitale umano e più dotata di proprie risorse, anche finanziarie. La Siria è stata per decenni una tirannia, ma laica e ben scolarizzata. Di conseguenza non è solo un atto di grande generosità, fronteggiare il declino demografico in presenza della bassa disoccupazione tedesca con centinaia di migliaia di nuovi potenziali lavoratori, dotati di una formazione tra le meno lontane dai nostri standard europei. E’ una mossa economicamente intelligente e vantaggiosa. Si tratta di manodopera pronta a consumi crescenti, e di integrazione assai meno ardua di praticamente tutti gli altri profughi e migranti che si orientano verso l’Europa. Marine Le Pen ha usato un linguaggio becero, parlando di Germania che recluta nuovi schiavi. Ma che il governo tedesco abbia tenuto ben presente anche la propria convenienza economica, è un fatto. I 6 miliardi stanziati avranno un ritorno incomparabilmente superiore negli anni a quelli spesi in altri paesi, alle prese con flussi di ben altro tipo.

Che cosa implica per noi, la decisione tedesca di scegliersi i profughi, e di dare per questo una spallata alle ipocrite norme europee precedenti? Inutile girarci intorno. Se l’Italia non agisce, si profila un rischio evidente. Verranno riallocate verso altri paesi europei alcune decine di migliaia di richiedenti asilo, oggi in Italia. Ma resteremo noi a fronteggiare centinaia di migliaia di migranti economici, non provenienti da Siria o Afghanistan, cioè Stati falliti e in preda a devastanti guerre etnico-religiose, ma da paesi che non ricadono nella categoria che origina lo status di profugo, ma in cui miseria e violenza spingono comunque verso i nostri lidi. Migranti che non appartengono alla bassa e media ex borghesia siriana, ma che nella generalità sono poco scolarizzati, privi di ogni risorsa, di più difficile integrazione. Anche per l’Economist, anche adottando i più estesi criteri di concessione dello status di profughi, oltre la metà degli sbarchi in ITA NON può essere compresa in tale categoria (Nigeria, Gambia, BanglaDesh etc..).

Di fronte a tale rischio, delle due l’una. O l’Italia si impegna perché al tavolo delle nuove norme europee non ci siano solo regole nuove e condivise sul diritto d’asilo ma anche sulla materia dei migranti economici: lasciando aperta la possibilità a chi ne voglia ospitare di più perché crede che le frontiere aperte siano economicamente un bene – ma a pensarlo a in termini così liberal-liberisti siamo in pochissimi, inutile illudersi – ma anche prevedendo l’ipotesi di quote estese anche ai migranti economici, in relazione per esempio al reddito medio pro capite dei diversi paesi, e non più lasciandoli dunque per indifferenza preferenziale a chi ha più frontiere esterne alla Ue e a Schengen, siano esse marittime o terrestri. Oppure, molto semplicemente, è venuto il momento per l’Italia di darsi un criterio sui migranti economici del tutto diverso da quelli delle quote della Bossi-Fini, e cioè “scegliendo” anche noi capitale umano e qualifiche, come da tempo hanno fatto altre grandi nazioni occidentali come l’Australia. Non sono affatto scelte in controtendenza rispetto alla “svolta umanitaria” tedesco-europea. Si tratta di rendere l’integrazione economicamente sostenibile: in un paese come l’Italia, che da una parte ha perso un quarto della produzione industriale e dei suoi investimenti in 7 anni e ha una bassissima partecipazione al mercato del lavoro, e dall’altra ha un rilevante problema demografico, è comunque fisiologico ragionare così.

La seconda considerazione riguarda i tamburi di guerra che Francia e Gran Bretagna hanno improvvisamente preso a suonare sulla Siria. Anche su questo, parliamo chiaro. Anni di indifferenza e idee confuse americane e occidentali sulla tragedia siriana hanno prodotto un genocidio e l’Isis. Ma guardiamoci da un rischio. Cioè che avvenga un bis dell’improvvisazione franco-britannica che condusse alla fine di Gheddafi. Se potenze europee hanno deciso d’impegnarsi sui cieli e sul terreno siriano, auguri. nel senso che c’è da sperare abbiano chiaro in mente “dopo” che Siria costruire. Ma oltre il 90% dei flussi che si scaricano sull’Italia provengono dalla Libia. Abbiamo bisogno che al più presto la Ue si decida a impegnarsi all’ONU per autorizzare la terza fase del dispositivo aero-navale EurNavForMed, cioè per poter colpire scafisti e trafficanti anche nelle acque e sulle coste libiche, e non solo nelle acque internazionali mediterranee. Dobbiamo ottenerlo perché il nostro primo problema si chiama Libia. Non è alternativo alla Siria. Ma se non leviamo una voce forte la nostra ferita resta aperta, e non è affatto detto che in Siria i franco-britannici-americani facciano meglio del disastro al quale hanno spalancato le porte in Libia.

4
Set
2015

Il “diritto di avere diritti”—di Gemma Mantovani

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gemma Mantovani.

Sul principale quotidiano nazionale Sabino Cassese scrive sul dramma dei migranti in modo del tutto condivisibile. Si parla del “diritto di avere diritti”, un motto di grande forza di Hannah Arendt, presente nella sua opera “Le origini del totalitarismo”. Ma spesso i motti, le singole frasi, per quanto potenti ed evocative, vanno spiegate. Si spiega, in questo caso, molto bene, che “il diritto di avere diritti deriva dall’appartenenza ad una comunità e quando il migrante esce dalla sua comunità la chiusura delle frontiere lo precipita in un limbo giuridico”. Penso che oggi il problema, la causa delle incomprensioni, stia in cosa si intende per diritti ai quali i migranti hanno, appunto, diritto, quando invece le frontiere si aprono e che sono, come viene ben chiarito, gli stessi diritti di noi europei. Read More

3
Set
2015

Costruisci la tua autolinea—di Vito Foschi

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Vito Foschi.

Il sistema dei trasporti, nonostante la continua evoluzione tecnologica, complice anche l’ingombrante presenza dello stato, rimane ancorato a vecchie logiche. Da ciò nasce l’esigenza di ripensare il sistema dei trasporti, da un sistema centralizzato e producer-driven, in cui è il produttore a dettare tempi e modi di erogazione del servizio, ad un sistema decentralizzato e client-driven, in cui sono le esigenze dell’utente a guidare il produttore nella creazione e fornitura di servizi efficaci. Una struttura tecnologica quale Internet potrebbe fungere da collettore delle esigenze di trasporto degli utenti, che una volta raccolte, possono servire per la creazione ed erogazione di servizi di trasporto. In questo articolo descriveremo alcune idee che si spera possano essere di stimolo a migliorare il trasporto pendolare delle grandi città. Read More

3
Set
2015

Un altro buco nell’acqua—di Carlo Amenta e Luciano Lavecchia

Questo articolo, a firma di Luciano Lavecchia e Carlo Amenta, è stato originariamente pubblicato su Livesicilia.

Ad appena due anni dall’ultimo intervento normativo l’Assemblea regionale siciliana (legge reg. 2/2013) ha deciso di intervenire nuovamente, ed in maniera molto intrusiva, nella regolamentazione del sistema idrico integrato. Se, per un verso, l’interesse per un settore tanto delicato, gravato da problemi notevoli, è apprezzabile, dall’altro ci sembra che le scelte fatte dal legislatore regionale difficilmente possano essere risolutive. Partiamo da alcuni osservazioni preliminari: a dispetto delle dichiarazioni di apertura della legge in cui la risorsa idrica si definisce come “bene essenziale ed insostituibile per la vita”, la realtà del sistema idrico in Sicilia è fatta di reti colabrodo: secondo i dati Istat aggiornati all’anno 2013 circa la metà dell’acqua immessa in Sicilia si perde.

Al termine del suo utilizzo, l’acqua ritorna spesso in mare senza prima essere stata debitamente trattata contribuendo così ad inquinare considerevoli parti delle coste siciliane, poiché la metà dei comuni siciliani non ha mai adeguato i propri impianti di depurazione. Queste criticità sono il risultato di anni di mala gestione, spesso di natura pubblica, oltre che di un quadro non certo di regole che ha gettato nel caos il sistema idrico siciliano: la precedente riforma è rimasta un’incompiuta, con alcuni degli Ambiti Territoriali Ottimali (ATO) che non hanno mai scelto il soggetto a cui affidare la gestione del servizio, con comuni che non hanno mai consegnato le reti idriche ed un soggetto pubblico, l’Ente Acquedotti Siciliani (EAS), con centinaia  di milioni di debiti. A completare questo desolante quadro è intervenuto anche il curioso esperimento di Siciliacque, la società con capitale misto Regione e privati che ha sostituito l’EAS nella gestione del c.d. “sovra-ambito”. Read More

2
Set
2015

La crescita riprende in Italia, ma….

Le tre serie di dati rilasciati dall’Istat significano in sostanza quattro cose. Primo: la ripresa italiana inizia a prendere corpo, con tanti “ma..” da rilevare. Secondo: oltre ai “ma..”, dal mondo vengono segnali di rallentamento. Terzo: sulle due premesse, il governo deve imperniare la legge di stabilità. Quarto: le priorità devono essere chiare.

Che la ripresa assuma qualche decimale di punto in più e non in meno è ovviamente solo positivo. Non c’è niente di più sciocco di una divisione politica sui miglioramenti del Pil stimato nel primo e secondo trimestre del 2015. Se c’è qualcosa di intollerabile e malsano, è l’eccesso di propagande opposte fiorite sotto questo governo nell’interpretazione dei dati congiunturali, alimentata e aggravata dal caos ingeerato pubblicamente dalla stessa proliferazione di dati (vedi le comunicazioni obbligatorie sui contratti da parte del ministero del Lavoro). L’occupazione aumenta di 180 mila unità a fine giugno 2015 sull’anno precedente, e di 235 mila unità a fine luglio. E’ ancora presto per stimare quanto si debba alla decontribuzione per tutti i nuovi contratti, e quanto al Jobs Act. Piuttosto, il fatto è che gli occupati nei primi due trimestri dell’anno diminuiscono sul 2014 tra i 15 e i 34 anni di oltre il 2%, e di oltre l’1% tra i 25 e i 49 anni, mentre aumentano quasi del 6% sopra i 50 anni. Molti useranno questo dato a sostegno della necessità di abbassare l’età pensionabile, innalzata dalla legge Fornero, per far spazio ai giovani. Il ministro Poletti, vaste aree della maggioranza e dell’opposizione, la pensano tutti così. Al contrario, è un bene che l’occupabilità salga sopra i 50 anni, e il punto è attivare il Jobs Act anche per le politiche attive del lavoro – la parte sinora mancante, completamente dimenticata – per i giovani. I rapporti di lavoro a tempo salgono in percentuale più di quelli a tempo pieno: segno che le imprese ancora non ci credono troppo, alla ripresa. In sintesi: bene i più occupati, ma i dati stessi disaggregati dicono che ancora non ci siamo. Quanto al PIL, è un bene che vi sia una ripresa della domanda interna e un buon andamento dei servizi, cioè delle componenti che più soffrivano nel 2013 e 2014. Ma di qui a inneggiare alla stasi della manifattura come segno di riequilibrio delle componenti interne del PIL, ce ne corre. Gli investimenti dell’industria tra metà 2015 e metà 2014 – al netto di quelli dell’auto, in crescita a doppia cifra – continuano a languire.

Secondo: tuttavia, non bisogna illudersi. Non solo al pensiero dell’abisso da recuperare di prodotto, reddito e occupati persi dal 2008. Basti pensare che la disoccupazione italiana, scesa a poco più del 12% a luglio, va comparata al 4,7% della Germania, al 5,8% dell’Austria, al 6,8% Olanda, o 7,4% della Svezia. Ma perché i dati stessi di luglio ci dicono che dal mondo si riverberano sull’Italia segni di frenata. Nel mercato del lavoro, solo a luglio gli inattivi sono aumentati di oltre 90 mila unità,  cioè di un terzo di tutti quelli che erano diminuiti a fine giugno 2015 rispetto a un anno prima. L’indice degli acquisti del manifatturiero italiano a luglio è il secondo europeo dopo quello olandese a quota 53,8 (sopra 50 è crescita, sotto contrazione), ma è il più basso in 4 mesi, e l’indice è al ribasso praticamente in tutte le economie dell’euroarea, tranne che per la Germania. Vanno aggiunto gli effetti – oggi ancora imperscrutabili – delle conseguenze sul Pil italiano della frenata e dell’instabiità cinese, delle ripercussioni sul commercio mondiale e della crisi dei paesi emergenti, tutti fattori che colpiscono componenti del nostro export. E le attese al rialzo dei tassi d’interesse americani da parte della Fed. L’instabilità resta sovrana, e bisogna tenerne conto soprattutto quando è al ribasso.

Terzo: di queste lezioni, il governo deve tenere conto nella sua prossima legge di stabilità e manovra pluriennale. Gli incentivi agli investimenti e alla ricerca delle imprese vanno potenziati. Nel primo semestre 2015 l’aumento della domanda interna viene soddisfatto più da aumento dell’import che dall’accresciuta offerta delle imprese italiane, perché hanno perso competitività in questi anni non pareggiata certo dal deprezzamento dell’euro dell’ultimo anno. Ciò significa che occorre incentivare i contratti aziendali di produttività, sempre che non si voglia pensare a una vera legge di attuazione dell’articolo 39 della Costituzione sui diritti ma anche finalmente sui doveri del sindacato. La decontribuzione ai nuovi contratti di lavoro – che nel 2016 e 2017 varrebbe 5 miliardi di euro l’anno – va concentrate sull’occupazione aggiuntiva rispetto agli organici 2015, non a tutti nuovi contratti. Il tutto andrebbe inquadrato in una manovra triennale organica, in cui le diminuzioni di pressione fiscale sui diversi cespiti – valutati per rispettivo maggior apporto all’aumento dell’output potenziale italiano – trovassero una quadra rispetto ai tagli di spesa necessari a un saldo di bilancio capace di ottenere l’ok europeo, perché appunto coerente a un quadro di riforme volte a credibili aumenti della crescita.

Quarto: con l’Europa, la partita è aperta. Il governo sicuramente presenterà la nota di aggiornamento al DEF – base per la prossima legge di stabilità – prima che siano noti i dati del terzo trimestre 2015. E dunque alzerà le stime di crescita 2015 e 2016, magari per l’anno prossimo prevedendo anche un più 1,6-1,7%, con entrate fiscali e miglior saldo conseguente. Ma c’è un rischio, a comportarsi così sull’onda dell’ottimismo. Nessuno può sapere davvero quanto, nel prossimo futuro, dalle debolezze mondiali potrebbe aggiungersi a quelle italiane. Meglio restare prudenti sulle stime – come, gli va dato atto a questo punto, è stato il governo sul 2015 – e presentare in parlamento e in Europa una manovra triennale con tre caratteristiche. Veri e rilevanti tagli di spesa (su questo: enorme delusione sin qui dall’attuale governo). Poi, se del caso, dichiarati e CREDIBILI aumenti del deficit rispetto a quanto l’anno scorso concessoci nel 2016 e 2017, e cioè l’1,8% del PIL: sinora si capisce solo che Renzi punterebbe addirittura al 2,9% di deficit, e a quel punto è scontato lo scontro con l’Europa. Ma – terzo anche se bisognerebbe dire primo – ferrea credibilità nel programma triennale della diminuzione complessiva della pressione fiscale per più crescita. Che è quel che più conta, per accelerare la crescita, e che ha effetti maggiori quanto più non è finanziato in deficit.

A questo proposito, ieri le agenzie hanno rilanciato fonti ufficiose di Bruxelles contrarie all’abbattimento di IMU-TASI annunciata da Renzi. La Commissione ha già più volte dato indirizzi chiari, sulla priorità della detassazione a capitale e lavoro. Ma la manovra non è ancora scritta. L’aumento della tassazione sulla casa ha prodotto aumenti della propensione al risparmio invece che ai consumi, deflazione dei valori immobiliari, crollo dell’edilizia, strage di imprese e occupati del settore. Il governo ha detto di avere un piano complessivo che parte dalla tassazione sulla casa, per investire e comprendere triennalmente IRES, IRAP e IRPEF. Prima di dire no – io per primo che partirei da meno tasse su imprese e lavoro, e convinto come sono che il più degli effetti devastanti sull’economia reale sia stato dovuto all’auento verticale della tassazione su doppie e terze case, più che sulla prima –  aspettiamo di vedere che cosa davvero il governo italiano propone. Gli immobili A1 già paiono esclusi dalla detassazione prima casa annunciata da Renzi. Ma è molto più importante che il governo non faccia recuperare con altre tasse ai Comuni  la sbandierata detassazione immobiliare anunciata, che dire no di principio prima di aver letto che cosa il governo davvero propone.

2
Set
2015

DDL concorrenza – U turn assicurazioni e fondi pensione

Non sarebbe stata una rivoluzione, ma nella versione del disegno di legge sulla concorrenza approvata a febbraio erano presenti disposizioni che, in materia di assicurazioni e fondi pensione, avrebbero sicuramente migliorato la situazione. Come ha scritto Andrea Varsori su Leoni Blog, tali disposizioni avrebbero quantomeno aiutato il consumatore nei rapporti con le ditte assicurative.

Da allora i lavori in commissione hanno profondamente modificato il disegno originario, purtroppo nella direzione opposta a quella che invece sarebbe stata opportuna.

Una misura che avrebbe avuto un impatto significativo era contenuta nell’art. 3 e riguardava l’RC auto. Le assicurazioni avrebbero dovuto praticare uno sconto in presenza di una tra le seguenti condizioni: sottoposizione del veicolo a ispezione; istallazione della scatola nera; installazione di meccanismi “alcohol interlock”; rinuncia alla cedibilità del credito; scelta di ricevere risarcimenti specifici in caso di danni a sole cose; scelta di ricevere risarcimenti per equivalente con comunicazione dell’autoriparatore. A oggi sono state abrogate le ultime tre condizioni, riducendo sensibilmente l’impatto potenziale della norma sui prezzi pagati dai consumatori. Si aggiunga che è stata introdotta la tariffa unica nazionale, per cui l’IVASS è incaricato di definire una percentuale di sconto minima in favore dei contraenti che risiedono in regioni con tasso di sinistrosità superiore alla media nazionale, che non abbiano fatto incidenti negli ultimi 5 anni e abbiano istallato una scatola nera. Tale percentuale di sconto deve far sì che la tariffa applicata sia commisurata a quella di un assicurato che abbia le stesse caratteristiche di un residente in una regione con tasso di sinistrosità inferiore alla media nazionale. In nome della parità di trattamento, di fatto si penalizzeranno i residenti delle regioni più virtuose, che avranno prezzi più alti di quelli che si applicherebbero senza una norma di questo tipo.

L’art. 7 è stato riscritto. Qui si prevedeva che il Ministero dello Sviluppo Economico, assieme ai Ministeri della Salute, del Lavoro e della Giustizia, avrebbero stilato e pubblicato tramite l’IVASS le tabelle con le menomazioni all’integrità psicofisica comportanti invalidità e il loro valore pecuniario. Sarebbe stato un modo per incrementare la chiarezza e la prevedibilità dei danni da pagare. Gli emendamenti approvati sono andati nella direzione opposta, aprendo la strada a potenziale confusione, a causa dell’introduzione del danno morale valutabile caso per caso dal giudice.

Infine i fondi pensione. L’art. 15 ne prevedeva la piena portabilità. Un lavoratore che avesse desiderato cambiare fondo avrebbe potuto farlo, non essendo più legato da vincoli stabiliti dai contratti di lavoro nazionali. Il datore di lavoro, inoltre, sarebbe stato costretto a seguirlo, versando anche la quota a suo carico. La norma è stata abrogata sotto la pressione delle associazioni dei fondi, a favore di un non meglio precisato obiettivo di “aumentare l’efficienza delle forme pensionistiche complementari collettive”. Un pizzico di libertà in più a favore della domanda avrebbe incrementato la concorrenza tra gli operatori che, lo si ricordi sempre, è lo strumento più efficace nel perseguire l’efficienza di un mercato.

 

@paolobelardinel

1
Set
2015

Rinascono le frontiere nella UE: adottiamo il “mutuo riconoscimento”

Il caos alle frontiere esterne dell’Unione Europea e le divisioni UE fanno tornare prepotentemente d’attualità i confini nazionali, come scrive oggi benissimo Sabino Cassese sul Corriere.  E’ un tema rilevante, e affrontarlo con mere prediche sull’errore della “chiusura” temo serva a poco. E’ un classico riemergente delle reazioni autarchiche alla globalizzazione, ed è un errore smentito dalla storia credere che siano autoevidenti gli effetti positivi dell’apetura delle frontiere a persone, beni, servizi e capitali. Ecco perché bisogna capire bene il problema posto ruvidamente dal Regno Unito. Bisogna capire se l’accusa di Londra ai mifranti euro-scrocconi è fondata, e soprattutto pensare a rimedi comuni. Se non lo si fa, i governi inseguiranno sempre più le reazioni domestiche filo-chiusura. Nella giornata di ieri, il presidente della Repubblica Ceca Milos Zeman chiede l’intervento delle forze armate a difesa dei confini nazionali dai flussi, e lamenta che l’annuncio unilaterale tedesco di garantire asilo ai siriani aumenterà il flusso attraverso il suo paese. Anche l’Austria e la Slovacchia raddoppiano i controlli, ogni giorno annunciando di aver fermato treni e TIR con clandestini diretti in Germania e Scandinavia. Le tensioni tra Grecia e Macedonia e ai confini dell’Ungheria restano alte. Come a Calais tra Francia e Regno Unito. Ed è stata proprio Londra ad aver infranto un altro luogo comune dell’euroretorica, secondo il quale basta rafforzare la vigilanza sulle frontiere esterne dell’Unione per risolvere il problema.

Non è così. Non sono più solo l’Italia e la Grecia, a lamentare la distanza abissale tra la retorica europea e le risorse e i mezzi concreti messi in gioco per affrontare l’esodo biblico in corso da Africa e Asia. Ogni paese europeo non ci crede più, e a furia di rinviare scelte europee davvero adeguate capiterà ciò che Londra ha avuto la malacreanza di minacciare apertamente: limitazioni unilaterali e non concordate alla libera circolazione delle persone “dentro” l’Unione Europea, per gli stessi cittadini europei. Ma la libera circolazione dei cittadini europei entro l’Unione non è cosa che si limiti al trattato di Schengen sui controlli spostati dalle frontiere interne a quelle esterne – intesa alla quale per altro il Regno Unito non aderisce, come Irlanda, Romania, Cipro, Bulgaria e Croazia. La libera circolazione degli europei è uno dei 4 pilastri dei Trattati e dell’idea stessa di Unione. Senza libera circolazione delle persone, dei beni, dei servizi e dei capitali, l’Unione europea semplicemente non c’è più.

Il problema posto da Londra è dunque un’altra faccia dell’incompiuta europea. Riguarda i flussi di immigrazione – temporanea o permanente – entro l’Unione europea stessa. Un fenomeno che riguarda soprattutto i paesi che, nella crisi dura post 2008 e post 2011, hanno ottenuto migliori performance economiche. Ricordiamo un po’ di numeri.

Nel 2014 dall’Italia che se la passa maluccio sono emigrate 101 mila persone rispetto alle 94 mila del 2013: 14.270 verso la Germania, 13.338 verso il Regno Unito, 11mila verso la Svizzera. Poi viene la Francia, e gli USA sono solo settimi come destinazione. I due terzi dei 100mila italiani espatriati in un anno sono restati nell’Unione europea. E non pensate che siano soprattutto dal Sud: uno su 5 se n’è andato dalla Lombardia, e nelle prime dieci regioni italiane di neoemigrazione solo tre sono meridionali. Ad andarsene, per un quarto sono giovani sotto i 30 anni. E per metà sono sotto i 40: è chi pensa a n futuro da costruire, ad andarsene. In Germania nel 2014 i neo immigrati hanno raggiunto 519mila unità, record da decenni: e di questi 306mila provenienti da altri paesi dell’Unione, più 125mila dalla sola Romania e Bulgaria, rispetto a 61mila siriani.

Il fenomeno è storicamente ancor più rilevante nel Regno Unito. E va però spiegata bene, l’uscita del ministro degli Interni britannico Theresa May dalle colonne del popolare Sunday Mail, “stop agli europei che vengono qui da noi senza avere già un lavoro, basta ai continentali che si trasferiscono solo per sfruttare il nostro welfare, assegni di disoccupazione, sanità gratis e aiuti alle famiglie”. Da una parte, è una sortita in linea con le promesse elettorali anti-immigrazione di David Cameron, “ridurremo gli immigrati annuali sotto quota 100mila”, che anche la stampa britannica filo-Tories nel maggio scorso giudicò non mantenibili. Dall’altra, in realtà pone un problema reale, figlio delle asimmetrie dell’Unione.

Vediamo i numeri. Nel 2013 e 2014 anche in UK l’immigrazione è aumentata, fino a quota 650mila unità annue nel 2014, a fronte di un’emigrazione annua di circa 300mila britannici. Dei 650 mila immigrati, a fine 2014 83mila erano “britannici di ritorno”, 268 mila cittadini Ue, e 290mila erano di provenienza extra-Ue. Dei 2,3 milioni di europei che a fine 2014 vivevano in Uk, solo a Londra quasi 250mila erano italiani. Sul flusso complessivo 2014, i richiedenti asilo erano – come in media negli ultimi anni – poco più di 20mila, 177mila gli studenti, 71 mila coloro che avevano raggiunto familiari in Uk, 214 mila cercavano lavoro, 63 mila quelli che non dichiaravano nessuna di queste ragioni. I conservatori sono convinti che il più dei 268mila immigrati 2014 provenienti dall’Europa un lavoro non ce l’avessero affatto, e che nelle more della ricerca approfittino del ricco welfare dell’Union Jack.

Peccato che siano le cifre ufficiali dell’equivalente dell’INPS britannico a smentire la convinzione dei “continentali a ufo”. A fine 2014 solo il 5,2% degli europei non britannici in Uk risultava percettore di assegni di disoccupazione e aiuti, il 14% riceveva crediti fiscali per il suo basso reddito, e il 13,6% detrazioni fiscali per i figli. Sono percentuali che si discostano da quelle dei percettori britannici per al massimo uno o due punti percentuali. Di qui le stroncature rimediate da Cameron e dal suo ministro May nella crociata contro gli immigrati europei: per quanto figlie di una strategia elettorale volta a contenere i danni populisti dell’UKIP sull’elettorato conservatore, i numeri dell’allarme britannico sugli immigrati intra-europei non tornano. Il vero rischio, ha scritto anche ieri il filo conservatore Daily Telegraph, è di dare un giro di vite ai giovani che scelgono il Regno Unito per studiare. Respingerli se appena terminati i corsi non hanno subito un lavoro sarebbe per Londra un autogol clamoroso, perché è arcinoto che attrarre i migliori cervelli dal mondo è da sempre uno dei moltiplicatori della crescita britannica.

Tuttavia, il problema esiste. E’ ovvio, che di fronte a un milione di profughi in arrivo nel 2015, tutti i governi si trovino a rispondere alle proprie opinioni pubbliche di analoghi incalzanti attacchi che da noi ogni giorno al governo arrivano da Salvini, e ogni settimana anche da Grillo. Si può credere che duri, alla lunga, un’Unione Europea in teoria basata sulla libera circolazione delle persone, ma in pratica con mercati del lavoro, retribuzioni e prestazioni del welfare tanto divergenti e asimmetriche? La risposta a questa domanda è una sola: no. Negli Stati Uniti gli assegni di disoccupazione e le prestazioni sanitarie di base, Medicare e Medicaid, sono federali e comuni a tutta l’Unione. Con economie statali che restano a diversi tassi di crescita, ma senza che a nessuno in Texas venga in mente di cacciare chi viene dall’Arizona.

Di conseguenza, la provocazione britannica ha due possibili risposte, se l’Unione europea tiene al suo futuro. O la Ue inizia gradualmente a pensare a una forma minima comune di sostegno a disoccupazione, bassi redditi e sanità, da estendere e implementare negli anni, e formulata all’inizio con corrispettivi parametrati ai livelli di reddito, inflazione e crescita dei diversi membri. Oppure la Ue adotta un principio che sarebbe rivoluzionario, quello del “mutuo riconoscimento” che già si applica ai beni, ma non ai servizi – vedi il clamoroso insuccesso della direttiva Bolkenstein, sotto le resistenze nazionaliste scatenatesi in ogni paese europeo – e tanto meno per il welfare. Il mutuo riconoscimento consentirebbe a ogni cittadino europeo di essere libero di spostarsi laddove vi sia più lavoro e crescita del proprio capitale umano, ma “portandosi dietro” regole e prestazioni del proprio welfare. Un meccanismo tanto rivoluzionario, che spingerebbe inevitabilmente e automaticamente gli euromembri a convergere verso un modello comune. Perché in caso di welfare costosi e inefficienti – come quello italiano – i propri cittadini risulterebbero duramente penalizzati, visto che nessun imprenditore britannico assumerebbe a quel punto dipendenti italiani al prezzo del nostro spaventoso cuneo fiscale…