Produttività: o cambia il modello contrattuale, o non se ne esce
Per milioni di italiani, tra le tante incertezze ora che la ripresa si è avviata – ma con effetti diseguali – c’è l’incognita di quanti soldini porteranno i nuovi contratti di lavoro, nel frattempo scaduti. Per i 3,2 milioni di pubblici dipendenti, che da anni hanno subito lo stop del rinnovo contrattuale decretato dall’ultimo governo Berlusconi e rinnovato da tutti quelli che si sono succeduti, la Corte costituzionale ha provveduto, decidendo che dal 2016 il governo deve rinnovarli. Ma si capirà solo in legge di stabilità quanti denari verranno riservati agli aumenti retributivi pubblici ( e nel frattempo i sidnacati gà alzano barricate all’idea che bastino 500mln, vogliono almeno 2 o 3mld). Diverso è il problema che grava su milioni di dipendenti privati: 1,6 milioni di metalmeccanici, 170mila del chimico-farmaceutico, 400mila dell’industria alimentare, 60mila del settore elettrico. Tutti contratti in scadenza tra novembre e dicembre. Per loro c’è un problema serio, che riguarda il tema più fondamentale e trascurato della crisi italiana: la produttività. Tutti hanno ormai capito – almeno a parole – che con queste tasse non si va lontano. Quasi nessuno però dice che o affrontiamo seriamente il nodo della produttività, oppure il gap accumulato verso i nostri concorrenti ci porta a fondo. E i contratti investono la produttività agendo su entrami i fattori su cui si calcola il CLUP, il costo del lavoro per unità di prodotto: sia sul numeratore, il costo lordo del lavoro, sia sul denominatore, il valore aggiunto per lavoratore occupato.
Partiamo da un dato, quello del raffronto tra noi e i concorrenti. Dal 2000 al 2012, il CLUP nell’industria manifatturiera italiana al netto delle costruzioni è passato da 100 a 137. In Spagna da 100 a 115, in Francia a 110, in Germania nel 2014 era ancora a 100. Abbiamo accumulato 37 punti di distacco dalla Germania, essendo noi la seconda potenza manifatturiera europea dopo di lei. L’abissale differenza non si spiega con il cuneo fiscale, perché rispetto alla Germania è praticamente equivalente, cioè elevato in entrambi i casi.
Solo che in Germania sono avvenute due cose. Da una parte, nel primo decennio Duemila l’andamento delle retribuzioni nette tedesche è stato contenutissimo, per alcuni anni ha avuto anzi un andamento seccamente negativo: a seguito dei grandi accordi firmati tra imprese e sindacati per rilanciare la produttività e difendere l’occupazione, accettando anche retribuzioni più basse per i neo assunti in cambio del fatto che gli aumenti sarebbero tornati insieme a più occupati quando le cose fossero andate meglio. Cosa quest’ultima che in Germania sta puntualmente avvenendo, da 2 anni a questa parte. Dall’altra parte, poiché in Germania la dimensione media d’impresa è maggiore e contano i contratti aziendali rispetto ai nostri CCNL – i contratti nazionali di categoria – le intese raggiunte tra imprese e sindacati sono state ferreamente incardinate su obiettivi di maggior produttività: per singola azienda, ma anche spessissimo per reparto e per ogni lavoratore individualmente. In questo modo, il CLUP tedesco ha registrato un andamento molto più contenuto del nostro: sia perché al numeratore la retribuzione netta ha registrato aumenti contenutissimi, sia perché al denominatore è cresciuto il valore aggiunto per addetto.
Ecco perché il problema investe frontalmente lo strumento stesso del CCNL italiano, il modo in cui si determinano le retribuzioni, dove le si tratta e i parametri a cui le si collega. E’ un problema esploso ancor più con la deflazione in questi ultimi anni. L’inflazione zero, rispetto a quella prevista per gli aggiornamenti contrattuali 4 o 5 anni fa, ha prodotto l’effetto di accrescere ancor più la retribuzione nominale e il costo lordo per le imprese. Solo tra 2012 e 2014, i salari contrattuali nominali corrisposti sono aumentati del 6,5%, ma l’inflazione vera complessiva non ha raggiunto il 2%. Il che porta a due conseguenze. La prima è che bisogna cambiare il meccanismo di tutela del potere d’acquisto stabilito nel 2009 nei contratti, attraverso l’adozione allora dell’indice IPCA armonizzato a livello europeo. La seconda è che bisogna proprio cambiare il modello stesso dei contratti: lasciare ai contratti nazionale la parte normativa, relativa ai diritti e ai doveri cioè all’esigibilità dei contratti stessi, e un minimo di parte salariale, per destinare invece ai contratti di produttività aziendali e di filiera territoriale il più della retribuzione, collegata a precisi parametri di recupero della produttività.
Ed è su entrambi questi punti nodali, che Confindustria e i sindacati non s’intendono. A seconda delle diverse categorie, in questi anni i lavoratori hanno ottenuto da un minimo di 50 fino a oltre 100 euro mensili superiori all’andamento dell’inflazione reale. Come si fa a rinnovare i contratti col vecchio metodo? Facciamo restituire i soldi dai lavoratori alle aziende? Tutti i sindacati insorgono alla sola idea: comprensibile, anche perché nel frattempo sui lavoratori si è esercitata l’accresciuta pretesa fiscale dello Stato, visto che tra 2000 e 2014 l’aliquota effettiva media IRPEF è salita sul complesso dei dipendenti di oltre 2 punti, dal 19,9% al 22,1%, e allo stesso modo è salita l’aliquota contributiva media all’INPS, cresciuta dal 9,1% al 9,49%. E in ogni caso, visto anche il verticale aumento della disoccupazione, il reddito disponibile familiare dei lavoratori dipendenti è sceso in 15 anni di quasi il 20%.
Di qui la proposta a inizio anno di Confindustria: cari sindacati cambiamo il modello di contrattazione. Ottenendo, ancora all’ultimo incontro a questo destinato lo scorso 7 settembre, tre risposte diverse. La CISL è molto favorevole a parlarne: apre a un contratto nazionale che fissi un minimo retributivo di categoria, ed esprime fiducia nei contratti di produttività. La UIL propone un criterio di tutela del potere d’acquisto collegato all’andamento del PIL, che in realtà non risolverebbe il problema visto che nei prossimi anni la crescita reale potrebbe e dovrebbe essere superiore all’inflazione (per il 2016 il DEF prevede +1,6% di crescita reale, e +1% d’inflazione), ma soprattutto chiede, finché non si definisce un nuovo modello, che i contratti in scadenza intanto si rinnovino col vecchio metodo. La Cgil invece è contraria sia al salario minimo contrattuale, sia a devolvere ai contratti aziendali di produttività il più dell’andamento retributivo.
In queste condizioni, per le imprese la scelta praticabile – per di più con Squinzi a fine mandato – diventa una sola: non rinnovare i contratti, praticare una moratoria di fatto, come di diritto è avvenuta invece nel settore pubblico. Ma ciò porterebbe a una durissima ripresa generale della conflittualità sindacale. L’alternativa è una sola: che intervenga il governo. Renzi l’ha fatto intendere più volte: o imprese e sindacati convengono su una revisione del modello contrattuale, oppure in assenza di accordo tra le parti sociali il governo potrebbe fissare lui il criterio di un salario minimo di legge, e il resto della retribuzione lasciarla alla libera contrattazione (tornando a incentivare fiscalmente la parte di salario di produttività, a cui è stata tagliata la copertura in questi ultimi due anni). E’ ovvio però che il salario minimo per legge sarebbe molto più basso di quello che sindacati e imprese, se accettassero insieme la sfida per la produttività, potrebbero insieme convenire settore per settore nei contratti nazionali, lasciandone poi una bella fetta ai contratti di secondo livello.
Vedremo come andrà. Ma una cosa è sicura: sulla produttività e sui nuovi contratti si gioca una partita decisiva della ripresa italiana. Speriamo che non prevalga la miopia. Naturalmente, la testa mi dice anche che è una speranza mal risposta.