6
Ott
2015

Produttività: o cambia il modello contrattuale, o non se ne esce

Per milioni di italiani, tra le tante incertezze ora che la ripresa si è avviata – ma con effetti diseguali – c’è l’incognita di quanti soldini porteranno i nuovi contratti di lavoro, nel frattempo scaduti. Per i 3,2 milioni di pubblici dipendenti, che da anni hanno subito lo stop del rinnovo contrattuale decretato dall’ultimo governo Berlusconi e rinnovato da tutti quelli che si sono succeduti, la Corte costituzionale ha provveduto, decidendo che dal 2016 il governo deve rinnovarli. Ma si capirà solo in legge di stabilità quanti denari verranno riservati agli aumenti retributivi pubblici ( e nel frattempo i sidnacati gà alzano barricate all’idea che bastino 500mln, vogliono almeno 2 o 3mld). Diverso è il problema che grava su milioni di dipendenti privati: 1,6 milioni di metalmeccanici, 170mila del chimico-farmaceutico, 400mila dell’industria alimentare, 60mila del settore elettrico. Tutti contratti in scadenza tra novembre e dicembre. Per loro c’è un problema serio, che riguarda il tema più fondamentale e trascurato della crisi italiana: la produttività. Tutti hanno ormai capito – almeno a parole – che con queste tasse non si va lontano. Quasi nessuno però dice che o affrontiamo seriamente il nodo della produttività, oppure il gap accumulato verso i nostri concorrenti ci porta a fondo. E i contratti investono la produttività agendo su entrami i fattori su cui si calcola il CLUP, il costo del lavoro per unità di prodotto: sia sul numeratore, il costo lordo del lavoro, sia sul denominatore, il valore aggiunto per lavoratore occupato.

Partiamo da un dato, quello del raffronto tra noi e i concorrenti. Dal 2000 al 2012, il CLUP nell’industria manifatturiera italiana al netto delle costruzioni è passato da 100 a 137. In Spagna da 100 a 115, in Francia a 110, in Germania nel 2014 era ancora a 100. Abbiamo accumulato 37 punti di distacco dalla Germania, essendo noi la seconda potenza manifatturiera europea dopo di lei. L’abissale differenza non si spiega con il cuneo fiscale, perché rispetto alla Germania è praticamente equivalente, cioè elevato in entrambi i casi.

Solo che in Germania sono avvenute due cose. Da una parte, nel primo decennio Duemila l’andamento delle retribuzioni nette tedesche è stato contenutissimo, per alcuni anni ha avuto anzi un andamento seccamente negativo: a seguito dei grandi accordi firmati tra imprese e sindacati per rilanciare la produttività e difendere l’occupazione, accettando anche retribuzioni più basse per i neo assunti in cambio del fatto che gli aumenti sarebbero tornati insieme a più occupati quando le cose fossero andate meglio. Cosa quest’ultima che in Germania sta puntualmente avvenendo, da 2 anni a questa parte. Dall’altra parte, poiché in Germania la dimensione media d’impresa è maggiore e contano i contratti aziendali rispetto ai nostri CCNL – i contratti nazionali di categoria – le intese raggiunte tra imprese e sindacati sono state ferreamente incardinate su obiettivi di maggior produttività: per singola azienda, ma anche spessissimo per reparto e per ogni lavoratore individualmente. In questo modo, il CLUP tedesco ha registrato un andamento molto più contenuto del nostro: sia perché al numeratore la retribuzione netta ha registrato aumenti contenutissimi, sia perché al denominatore è cresciuto il valore aggiunto per addetto.

Ecco perché il problema investe frontalmente lo strumento stesso del CCNL italiano, il modo in cui si determinano le retribuzioni, dove le si tratta e i parametri a cui le si collega. E’ un problema esploso ancor più con la deflazione in questi ultimi anni. L’inflazione zero, rispetto a quella prevista per gli aggiornamenti contrattuali 4 o 5 anni fa, ha prodotto l’effetto di accrescere ancor più la retribuzione nominale e il costo lordo per le imprese. Solo tra 2012 e 2014, i salari contrattuali nominali corrisposti sono aumentati del 6,5%, ma l’inflazione vera complessiva non ha raggiunto il 2%. Il che porta a due conseguenze. La prima è che bisogna cambiare il meccanismo di tutela del potere d’acquisto stabilito nel 2009 nei contratti, attraverso l’adozione allora dell’indice IPCA armonizzato a livello europeo. La seconda è che bisogna proprio cambiare il modello stesso dei contratti: lasciare ai contratti nazionale la parte normativa, relativa ai diritti e ai doveri cioè all’esigibilità dei contratti stessi, e un minimo di parte salariale, per destinare invece ai contratti di produttività aziendali e di filiera territoriale il più della retribuzione, collegata a precisi parametri di recupero della produttività.

Ed è su entrambi questi punti nodali, che Confindustria e i sindacati non s’intendono. A seconda delle diverse categorie, in questi anni i lavoratori hanno ottenuto da un minimo di 50 fino a oltre 100 euro mensili superiori all’andamento dell’inflazione reale. Come si fa a rinnovare i contratti col vecchio metodo? Facciamo restituire i soldi dai lavoratori alle aziende? Tutti i sindacati insorgono alla sola idea: comprensibile, anche perché nel frattempo sui lavoratori si è esercitata l’accresciuta pretesa fiscale dello Stato, visto che tra 2000 e 2014 l’aliquota effettiva media IRPEF è salita sul complesso dei dipendenti di oltre 2 punti, dal 19,9% al 22,1%, e allo stesso modo è salita l’aliquota contributiva media all’INPS, cresciuta dal 9,1% al 9,49%. E in ogni caso, visto anche il verticale aumento della disoccupazione, il reddito disponibile familiare dei lavoratori dipendenti è sceso in 15 anni di quasi il 20%.

Di qui la proposta a inizio anno di Confindustria: cari sindacati cambiamo il modello di contrattazione. Ottenendo, ancora all’ultimo incontro a questo destinato lo scorso 7 settembre, tre risposte diverse. La CISL è molto favorevole a parlarne: apre a un contratto nazionale che fissi un minimo retributivo di categoria, ed esprime fiducia nei contratti di produttività. La UIL propone un criterio di tutela del potere d’acquisto collegato all’andamento del PIL, che in realtà non risolverebbe il problema visto che nei prossimi anni la crescita reale potrebbe e dovrebbe essere superiore all’inflazione (per il 2016 il DEF prevede +1,6% di crescita reale, e +1% d’inflazione), ma soprattutto chiede, finché non si definisce un nuovo modello, che i contratti in scadenza intanto si rinnovino col vecchio metodo. La Cgil invece è contraria sia al salario minimo contrattuale, sia a devolvere ai contratti aziendali di produttività il più dell’andamento retributivo.

In queste condizioni, per le imprese la scelta praticabile – per di più con Squinzi a fine mandato – diventa una sola: non rinnovare i contratti, praticare una moratoria di fatto, come di diritto è avvenuta invece nel settore pubblico. Ma ciò porterebbe a una durissima ripresa generale della conflittualità sindacale. L’alternativa è una sola: che intervenga il governo. Renzi l’ha fatto intendere più volte: o imprese e sindacati convengono su una revisione del modello contrattuale, oppure in assenza di accordo tra le parti sociali il governo potrebbe fissare lui il criterio di un salario minimo di legge, e il resto della retribuzione lasciarla alla libera contrattazione (tornando a incentivare fiscalmente la parte di salario di produttività, a cui è stata tagliata la copertura in questi ultimi due anni). E’ ovvio però che il salario minimo per legge sarebbe molto più basso di quello che sindacati e imprese, se accettassero insieme la sfida per la produttività, potrebbero insieme convenire settore per settore nei contratti nazionali, lasciandone poi una bella fetta ai contratti di secondo livello.

Vedremo come andrà. Ma una cosa è sicura: sulla produttività e sui nuovi contratti si gioca una partita decisiva della ripresa italiana. Speriamo che non prevalga la miopia. Naturalmente, la testa mi dice anche che è una speranza mal risposta.

12 Responses

  1. adriano

    Analisi illuminante su cosa serva l’euro e derivati.Col cambio fisso le nazioni sfavorite hanno nel contenimento dei redditi l’unico modo per recuperare la competitività.Quindi,in un modo o in un altro,passeranno le modifiche contrattuali di cui si parla da secoli e che un sindacato preistorico si rifiuta di considerare.Se l’obiettivo può essere giusto,il metodo è sbagliato perchè sposta la capacità decisionale non si sa dove.E’ questo il punto dell’euro,la perdita della dialettica democratica.Non bastano le analisi per dimostrare se le scelte siano giuste o meno.Bisogna vedere quali metodi si usano per realizzarle e se questi sono inaccettabili non vanno bene e prima o poi se ne pagherà il prezzo.

  2. Mariano Giusti

    Articolo surreale: analizzando il problema (vero) della produttività si parla solo di modelli contrattuali.
    Come se nell’equazione i fattori fossero solo lavoratori e stipendi.
    Non manca qualcosa?
    E le linee di produzione obsolete? e i manager che non parlano inglese? e gli imprenditori che non sanno usare Excel per una busta paga?
    e la mancanza totale di formazione sul lavoro e investimenti in ricerca e sviluppo?
    Dare un po’ di responsabilità anche a chi il capitale lo possiede e (non) lo investe, ogni tanto, si può anche a destra?

  3. Giorgio

    @Mariano
    Il suo è un perfetto esempio del “benaltrismo” italico, grazie al quale non si affronta mai un problema perché “il problema vero è altro”.
    Chi l’ha detto che i fattori sono SOLO lavoratori e stipendi? L’articolo di Giannino parla di questo e su questo si concentra, ma le cose che lei elenca (e molte altre) sono sempre state parte dell’equazione. Il punto è che in Italia lo stipendio è ancora considerato “variabile indipendente” e non è PER NULLA parte dell’equazione, come invece dovrebbe essere al pari degli altri fattori produttivi.
    Vivo in un paese e lavoro in un settore che da anni vede la sua redditività scendere, per una serie di motivi. La mia retribuzione, purtroppo per me, dal 2007 è in lento ma costante calo, con un’erosione continua della sua componente variabile. Ma questo è l’unico modo con il quale le aziende possono mantenersi competitive anche in condizioni avverse. In Italia, invece, la sola idea di “rinnovo del contratto” è associata a quella di “aumento di stipendio”. Che possa calare, poi, non è nemmeno concepibile. Bisogna scardinare questo automatismo, che è ciò di cui l’articolo di Giannino parla. Forse un giorno si potrà provare a parlarne anche a sinistra?

  4. Bobcar

    Caro “Giorgio” finalmente lo dice chiaramente qua si tratta solo di una cosa: si vogliono tagliare gli stipendi dei lavoratori! , questo significa il “cambio del modello contrattuale”, il che per carità si può anche fare, se uno si presenta alle elezioni portando il taglio degli stipendi come punto del programma elettorale, ma non mi pare proprio questo il caso…

  5. Mariano Giusti

    @bobcar

    [“La mia retribuzione, purtroppo per me, dal 2007 è in lento ma costante calo, con un’erosione continua della sua componente variabile. Ma questo è l’unico modo con il quale le aziende possono mantenersi competitive anche in condizioni avverse”]

    ecco, come volevasi dimostrare.
    “L’unico modo che hanno le aziende per mantenersi competitive è abbassare gli stipendi”.
    Penso non ci sia bisogno di aggiungere altro.
    Il problema non è che lo pensa lei, ma che lo pensano gli imprenditori italiani. E hanno pure il coraggio di definirsi tali.

    Le faccio notare due cose:
    le aziende sono già liberissime di abbassare gli stipendi: possono licenziare e riassumere altro personale a livelli inferiori, magari precario. Succede già da decenni, questo è il motivo per cui oggi una coppia dove entrambi lavorano non può comprarsi una casa mentre 30 anni fa un operaio con moglie casalinga si comprava casa e manteneva 4 figli. Questo è il motivo per cui gli ingegneri una volta erano ricchi mentre oggi sono pagati come operai.
    Non mi venga a dire che le aziende non possono abbassare gli stipendi, per piacere.

    Inoltre le dò un’altra news: in Italia il costo del lavoro non è affatto troppo alto, è inferiore alla media europea addirittura:
    http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/03/29/lavoro/930719/
    (mi si scusi se cito “il fatto” che odio ma la fonte è affidabile ed è il primo link che ho reperito)

    Dunque, Giannino doveva parlare degli altri fattori (una classe imprenditoriale pessima e obsoleta) o no?
    Per me, si.

  6. Giorgio

    Caro Mariano, le pare che licenziare per assumere nuovo personale con retribuzione inferiore sia un sistema corretto di flessibilità salariale? In caso di crisi del suo settore lavorativo lei preferirebbe guadagnare un po’ meno o essere lasciato a casa e sostituito da un apprendista? Questo, ovviamente, glissando sulla facilità di licenziare che c’è in Italia (è una battuta, ovviamente). Quindi, mi spiace, ma non posso “farle il piacere” di non dire che in Italia le aziende non possono abbassare gli stipendi, perché generalmente non è così – dico “generalmente” perché le eccezioni sono sempre possibili, ma qui bisognerebbe riformare l’intera contrattualistica per far sì che l’eccezione diventasse regola.
    Lo confermo: se in tempi di crisi un’azienda vuole mantenersi competitiva deve fare investimenti ma anche tagliare i costi, compreso quello del lavoro. Ora, si può procedere legando il livello retributivo alla produttività, che personalmente ritengo il modo più razionale, oppure seguire il modello attualmente vigente in Italia: mantenere i salari rigidi, magari addirittura aumentarli mentre fatturato e utili calano, poi andare in crisi e mettere qualche centinaio di persone in cassa integrazione. Anche così si torna competitivi, se non si fallisce prima ovviamente, ma personalmente preferisco il primo metodo.
    L’articolo di Giannino parla di produttività e modelli contrattuali, quindi mi pare ovvio che abbia sviscerato questo argomento in particolare.

  7. Giorgio

    @Bobcar. Ovviamente si parla di tagliare gli stipendi. Di che cosa parliamo, se no? Non mi pare che Giannino sia stato poco chiaro. Cito:
    “nel primo decennio Duemila l’andamento delle retribuzioni nette tedesche è stato contenutissimo, per alcuni anni ha avuto anzi un andamento seccamente negativo: a seguito dei grandi accordi firmati tra imprese e sindacati per rilanciare la produttività e difendere l’occupazione, accettando anche retribuzioni più basse per i neo assunti in cambio del fatto che gli aumenti sarebbero tornati insieme a più occupati quando le cose fossero andate meglio”. Doveva essere ancora più esplicito?

  8. Giorgio

    @Mariano. Dimenticavo: non mi dà nessuna “news”. Non ho scritto da nessuna parte che gli stipendi italiani sono in assoluto troppo alti. Anzi, la loro rigidità ha finito per penalilzzarli. Nei paesi dove i salari sono più flessibili, questi finiscono per essere mediamente più alti (e non intendo la media del pollo di Trilussa). Anche a me il “Fatto” non piace molto, ma i dati sono dati, quindi va benissimo. 😉 Vede come l'”azienda Germania”, che (anche) grazie a una maggiore flessibilità salariale è uscita dalla crisi di inizio duemila, ora può retribuire meglio i suoi lavoratori. Arroccarsi sulla rigidità del salario alla lunga non giova al lavoratore che si vorrebbe difendere, anzi.

  9. Mariano Giusti

    Insomma la solita vecchia geniale teoria: se la fattoria va male, diamo meno cibo agli animali.
    In bocca al lupo, nel caso intenda aprirne una.

    Sa quale è il grande paradosso irrisolto di questo modello (che non è un modello ma una teoria, la cui efficacia non si è mai dimostrata matematicamente peraltro) liberista? che vorrebbe lavoratori flessibili e consumatori ottimisti. O una o l’altra, deal with it.

    Tralasciando che a livello psicologico (se ci ricordiamo che i lavoratori sono umani) la produttività è si influenzata dallo stipendio, ma non come pensate voi con proporzionalità inversa, bensì diretta.
    Ma questo capisco che sia un argomento inaffrontabile per voi, quasi una bestemmia.

    E basta con sto esempio del boom della Germania che è una nazione che ha talmente tante differenze con la nostra (in primis la VW è mezza statale… si può dire su questo blog la parola statale?) che prendere solo un parametro e legarlo al pil non ha alcun senso, che si abbia ragione o meno.

  10. Giorgio

    @Mariano: “Sa quale è il grande paradosso irrisolto di questo modello (che non è un modello ma una teoria, la cui efficacia non si è mai dimostrata matematicamente peraltro) liberista? che vorrebbe lavoratori flessibili e consumatori ottimisti. O una o l’altra, deal with it.”

    Vedo che usa l’inglese, quindi non servirà ricordarle che gli Americani sono lavoratori molto più flessibili di noi e consumatori assai più ottimisti di noi, dimostrato (mi spiace, non matematicamente) dall’uso che fanno della carta di credito. E badi che non sto dicendo che sia un modello che mi fa impazzire, ma sicuramente prova che quello che lei definisce “paradosso” non lo è affatto. L’ottimismo non è correlato alla fissità del posto di lavoro, ma alla qualità delle prospettive e delle opportunità di miglioramento, cosa che il rigido modello italico non mi pare riesca a offrire.

    Se la fattoria va male, o si dà meno da mangiare agli animali o se ne vende qualcuno, in attesa di tempi migliori. Quando apriremo le nostre fattorie vedremo chi la farà andare meglio.

  11. Mariano Giusti

    “L’ottimismo non è correlato alla fissità del posto di lavoro, ma alla qualità delle prospettive e delle opportunità di miglioramento, cosa che il rigido modello italico non mi pare riesca a offrire.”

    Su questo concordo, ci sarebbe da aggiungere che in la qualità della vita non si misura dalla quantità dei consumi.

  12. roberto

    seguendo assiduamente i talk che parlano di politica e di dissesto di questa nostra Italia e seguendola nei suoi interventi, mi sovviene un ragionamento sul quale non credo di essere particolarmente ferrato per capire quali siano le problematiche ostative a questa soluzione:
    la fascia di povertà (pensioni, inoccupati ecc…) ha una sostanziale difficoltà di spesa che verrebbe alleviata provvedendo con autonomi interventi di legge, intervenire sulle concessioni che lo Stato rilascia alle grandi imprese che gestiscono energia, gas ed acqua gradando ovviamente sulle concessioni stesse tra Stato e Amministrazioni locali.
    Negli appalti pubblici e specificatamene nella finanza di progetto, debbono riscontrarsi due condizioni essenziali: (i) la Pubblica Utilità (ii) la condizione a favore delle fasce deboli. Per quale motivo non è possibile imporre a queste grandi imprese (penso ad ENEL, ACEA, HERA ecc…) non possono inserirsi in contratto delle specifiche esenzioni verso le fasce deboli a completo carico di questi concessionari?
    se praticata ovviamente non interverrebbe sulle casse dello stato ma su aziende che vivono su concessioni pubbliche.
    Grazie per il tempo che potrà trovare riscontrandomi.
    Roberto

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