22
Nov
2015

La “giungla” delle 11 mila partecipate pubbliche nel report ISTAT—di Francesco Bruno

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Francesco Bruno.

“10.964 unità”, è questa la cifra indicata nel report pubblicato dall’Istat lunedì 16 novembre sulle società che presentavano una forma di partecipazione pubblica in Italia nel 2013. Per fare un semplice e banale paragone con i partner dell’Eurozona, la Francia (che in quanto a intervento dello Stato nell’economia sa il fatto suo) ne conta circa un migliaio. Read More

19
Nov
2015

Sicurezza: falso che spendiamo poco, vero che spendiamo male

In questi giorni il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Franco Roberti ha posto il tema della necessità di rinunciare anche a dei diritti sin qui tutelati, dalla privacy alla piena libertà di spostamento, in nome della tutela della vita e della sicurezza. Per me da liberale va detto un chiaro e secco no al Grande Fratello del controllo remoto pubblico esteso a tutti, senza filtri giurisdizionali e tutele. Non mi va giù poi poi l’idea che a teorizzare la necessità di limitazioni generali della libertà sia chi nella realtà ha la responsabilità di aver messo in piedi un sistema pubblico italiano che sulla sicurezza spende molto – a differenza di quel che si crede, e come lamentano i politici a caccia di voti –  e spende MALISSIMO, come i numeri che richiamo sotto palesemente mostrano. A maggior ragione se vogliamo difendere le nostre libertà bisogna invece spendere MEGLIO: in tecnologie e uomini, hardware e software, per filtrare e analizzare e concentrare le informazioni laddove servono. Ora che le maglie del patto di stabilità europeo si sono allentate sotto la travolgente richiesta francese ( e Renzi ci è saltato subito sopra, ma il patto di stabilità che ormai fa acqua da tutte le parti merita un PS a parte), è innanzitutto questo il settore che il governo deve potenziare.

Se esaminiamo le spese di sicurezza dell’Italia in termini comparati, notiamo due evidenti contraddizioni.

La prima è che per le forze di polizia spendiamo in realtà non poco, anzi più della media europea. Eurostat certifica che a fronte di una media dell’euroarea dell’1,7% di PIL di spesa in sicurezza e ordine pubblico, l’Italia spende il 2%: rispetto all’1,6% di Germania e Francia. Se pensiamo ai bilanci delle sole forze dell’ordine, l’Italia spende l’1,2% del PIL rispetto allo 0,9% della Francia e allo 0,7% della Germania. Spendiamo di più, ma spendiamo peggio: ed è il solito pluridecennale problema dei troppi diversi corpi di sicurezza italiani, carabinieri, polizia, guardia di finanza, forestali, e via proseguendo. Ci hanno sbattuto la testa inutilmente tutti i commissari alla spending review susseguititi negli anni, ma la politica non riesce a compiere scelte energiche. Troppe incrostazioni storiche, competenze sovrapposte, rivalità nel procurement dei mezzi, e contrapposte tutele politiche a tutela dei diversi e troppi corpi dello Stato.

Seconda contraddizione: nella difesa spendiamo meno. Siamo allineati alla media dell’eurozona pari all’1,2% del PIL, ma la Francia sta all’1,8% e il Regno Unito al 2,3%. Ma anche qui spendiamo peggio. Se ci fermiamo alla sola funzione difesa ristretta – depurata dei costi dei carabinieri e di ciò che sta a carico del bilancio del ministero ma non costituisce appunto la funzione difesa vera e propria – si scende allo 0,8% del PIL. I tagli di spesa alle forze armate sono stati di quasi il 10% in termini reali in 10 anni. I costi per l’acquisizione di nuovi velivoli e piattaforme navali sono a carico ormai quasi sempre del MISE ma, malgrado i pesanti impegni di questi anni su teatri operativi del massimo impegno e rischio come Iraq e Afghanistan, i fondi di esercizio sono stati dimezzati. A carico delle forze armate resta il bilancio previdenziale del settore, restano troppi dipendenti civili, e troppe migliaiaia di sottufficiali non operativi. Ce la possiamo sognare, l’operatività dei francesi e dei britannici. E del resto alla politica italiana è sempre andato bene così: pronta a gonfiarsi il petto logorando uomini e mezzi in missioni “di pace” che in realtà lo erano a parole, ma usando la difesa come bancomat per smentire ogni volontà interventista.

E veniamo al terzo punto, quello oggi più decisivo contro il terrorismo jihadista: l’intelligence. Com’è ovvio sono riservate le spese di AISI e AISE, le due costole esterna e interna dei servizi italiani. La stima è intorno agli 8-900 milioni di euro. Per avere un’idea degli ordini di grandezza, l’altroieri il cancelliere dello scacchiere britannico Osborne ha annunciato un aumento della dotazione annuale di MI5 e MI6 pari a 1,9 miliardi di sterline con 1900 nuovi addetti, mentre per la sicurezza tecnologica affidata al GCHQ, l’equivalente della NSA americana che dai satelliti ai computer sorveglia le comunicazioni mondiali, il Regno Unito spende circa 4 miliardi di sterline. Le cifre dicoo che siamo dei nani, nella comunità delle grandi reti di intelligence mondiale. E paghiamo quattro soldi chi, nel campo della cyber-security, nel mondo privato ha invece retribuzioni stellari.

Ecco: invece di farci raccontare dai magistrati che occorre limitare le nostre libertà  perché ce ne siamo prese troppe, invece di ascoltare i politici che spacciano per spese antiterrorismo quelle devolute a un welfare maltravestito in organici pletorici e pluralità di sovrapposti corpi dello Stato, cerchiamo di batterci invece per avere una cultura e uan comunità dell’intelligence all’altezza delle tecnologie e competenze dei nostri tempi.

PS. Quanto al patto di stabilità europeo, di fatto a mio avviso siamo in presenza di un decesso seppur non dichiarato.  Già si era capito di fronte all’inesistenza di margini di flessibilità del fiscal compact rispetto alle spese pubbliche addizionali necessarie per affrontare l’esplosione del fenomeno dei profughi, che le regole europee non tengono conto di imprevedibili ma gigantesche circostanze straordinarie che possono abbattersi sui paesi membri (sulla furbata renziana di chiedere l’attivazione di una clausola di flessibilità per l’imigrazione per usarla invece ad altri scopi, meglio stendere un pietoso velo). Se si aggiunge che i metodi per calcolare gli effetti del ciclo restano ancora tecnicamente aperti a letture diverse – per il governo italiano nel 2016 l’Italia rispetta la regole del rientro del debito, per Bruxelles non avverrà che nel 2017 o 2018, come si legge nella pagella emessa l’altroieri, con cui si rinvia ad aprile 2016 il giudizio sulla legge di stabilità– si comprende che in realtà il fiscal compact tanto temuto è diventata di fatto una coperta tirata da troppe parti. Inoltre, il visto di piena conformità già concesso intanto da Bruxelles al budget della Francia, che nel 2016 terrorismo a parte prevede comunque di restare a un deficit pubblico del 3,3-3,4% del PIL, rende chiaro che le obiezioni all’Italia lasceranno il tempo che trovano, visto che nel nostro caso il deficit programmato è nell’ordine dell’1% di PIL inferiore. Personalmente aggiungo: purtroppo, lasceranno il tempo che trovano. Perché condivido dalla prima all’ultima parola i rilievi critici mossi d Bruxelles al governo Renzi: aver abbandonato di fatto una qualunque strategia ambiziosa di revisione della spesa, aver destinato ai tagli IMU-TASi quanto era meglio concentrare su sgravi a imprese-lavoro, nonché l’indifferenza sostanziale a un gigantesco debito pubblico che potrebbe presto tornare a rivelarsi assai più caro, se guardiamo ai rischi finanziari potenziali di un mondo che rallenta, in cui la FED rialza i tassi, e con i BRICS piantati ma indebitato in dollari.

 

18
Nov
2015

Dal Fiscal Compact allo Shit Happens

È ormai un vero proprio mito quello dei governi che, privati della loro irreprensibile sovranità, altro non sarebbero ormai che burattini nelle mani di eurocrati senza pietà. In politica economica, la violazione per eccellenza dei diritti umani perpetrata da parte della citata eurocrazia si chiama Fiscal Compact. Vittima dell’efferata oppressione bacchettona, la “flessibilità”: in altre parole, la possibilità di spendere soldi di cui non si dispone, in misura ancora maggiore di quanto già non si sia fatto e si continui a fare.

In principio fu la flessibilità preventiva. Lo dice chiaro, il famigerato Patto di stabilità e crescita: se i suoi conti più recenti non presentano deficit eccessivi e se dimostra un impegno concreto e verificabile per il miglioramento dei suoi conti pubblici, un Paese è libero di chiedere una proroga nel processo di avvicinamento al pareggio di bilancio strutturale. In altre parole, può allargare le maglie del deficit e richiedere un po’ di “flessibilità” in più.

Dal punto di vista della flessibilità ex post, invece, il Fiscal Compact non lascia spazio a interpretazioni: non si sgarra. O meglio, non si dovrebbe poter sgarrare. O meglio ancora, se circostanze eccezionali possono eccezionalissimamente giustificare richieste sul fronte delle entrate (cioè essenzialmente se, per qualche ragione, le imposte riscosse risultano ben al di sotto delle aspettative), sulle spese non si sgarra.

La conclusione logica, dunque dovrebbe essere quella di riformulare i capitoli della spesa pubblica, o meglio ancora ridurla drasticamente. Ma si sa: la spending review fa perder voti, molto meglio la spending deppiù. E allora ecco che monta la protesta, riassumibile nel mantra “basta austerity, ora ci vuole la crescita”. Ed ecco che dalla bacchetta magica spunta la richiesta del più classico degli scambi di ostaggi: noi ti diamo un po’ di flessibilità, ma tu in cambio fai le riforme.

Solo che poi, mentre fai le riforme, ecco esplodere la crisi migratoria. E come potremo mai fronteggiarla con una spesa pubblica che copre la metà del nostro Pil? C’è bisogno di risorse aggiuntive, da cui la nuova rivendicazione sui tavoli di Bruxelles. Che, ancora una volta, chiude un occhio con fare paterno.

Poi, nel bel mezzo dell’estate, mentre inizia a buttar giù le prime bozze della legge di Stabilità, l’esecutivo se ne esce con un’idea: gli investimenti devono restare fuori dal Fiscal Compact. E allora ecco che arriva la richiesta di flessibilità per gli investimenti. E via con la deroga. Poco importa se, nell’anno corrente, di investimenti la Commissione dice di non averne visti, né noi siamo riusciti a spendere quasi 9 miliardi di fondi strutturali. Servono margini, e margini saranno.

Infine, tragicamente, i fatti di Parigi. La lotta al terrorismo, si dice, ha bisogno di risorse. Hollande solleva subito il tema, e il nostro governo a ruota. Vorrete mica risparmiare sulla nostra sicurezza, dopo quello che è successo? Come se i decenni di manovre in deficit e di accumulo del nostro mostruoso debito pubblico fossero colpa della Commissione europea o di chissà chi altro. La spesa pubblica aumenterà ancora, come ha sempre fatto. E già me le immagino, le polemiche che monteranno se qualcuno, a Bruxelles, batterà ciglio. E così via, di emergenza in emergenza, di deroga in deroga, senza soluzione di continuità. Ignari del fatto che le spese di oggi sono le tasse di domani (e che la spending review di oggi è il tesoretto di domani), nessuno chiede conto al governo del fatto che quegli ottocento miliardi che spende già non bastino per fare le riforme, per il welfare, per gli investimenti o per la sicurezza. Ce ne siamo fatti una ragione, ma almeno smettiamo di chiamarlo Fiscal Compact: d’ora in poi, chiamiamolo Shit Happens.

Twitter: @glmannheimer

13
Nov
2015

Recupero da evasione? Di tutto, di più—di Carlo Amenta

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Carlo Amenta.

Per anni il dibattito politico sul tema dell’imposizione fiscale ha spesso evitato un’analisi seria: il politico medio di qualsiasi formazione politica, invece di concentrarsi sul difficile compito di tagliare la spesa per tagliare le tasse, ha sempre agitato il mantra del “pagare meno, pagare tutti”. E’ il recupero dall’evasione il Sacro Graal di una classe dirigente incapace di fare scelte difficili: tagliare la spesa significa anche procedere a licenziamenti di personale pubblico inefficiente e presente in numero superiore alle esigenze e non solo tagliare spese di manutenzione ed acquisti di carta igienica e detersivi. L’incentivo ultimo del politico è sempre il consenso ed il taglio dei posti di lavoro raramente ne porta, oltre a far venire meno la prassi clientelare diffusa su tutto il territorio nazionale in maniera inversamente proporzionale al PIL pro-capite regionale. Read More

11
Nov
2015

Tributo a Roberto Perotti, e del perché si torni al deficit

Roberto Perotti si è dimesso da commissario alla spending review in coerenza al suo carattere. E’ tignoso ma riservato, misuratissimo nei toni e nei giudizi. Ha solo detto di aver formalizzato la sua decisione sabato a Renzi, perché non si sentiva più utile. Nessuno dal governo gli ha dedicato una parola. Un addio britannico, freddo anzi algido. E’ la freddezza di chi ha toccato con mano l’inconciliabile distanza tra l’approccio che come studioso Perotti ha sostenuto per anni, e per il quale immaginava di essere chiamato a collaborare dal premier, rispetto invece all’impostazione scelta in concreto per la legge di stablità da palazzo Chigi e dal ministro Padoan. Anzi, soprattutto da Renzi, che ha in corso un processo di accentramento degli indirizzi economici a palazzo Chigi spodestandone il MEF, processo che tra poche settimane avrà esito nell’istituzione formale di una vera cabina di regia alla presidenza del Consiglio.

Gli amici l’avevano detto, a Perotti: ma chi te lo fa fare, lo sai come sono fatti i politici, non ti faranno mai applicare davvero quel che scrivi mettendo a nudo i multipli vergognosi con cui sono i pagati rispetto al resto del mondo i politici e i dirigenti pubblici italiani, o gli ambasciatori o le strutture di Camera e Senato e Quirinale. Ma lui aveva accettato comunque. Per servizio civile, diceva.

E’ finita com’è finita. Con lo stesso esito riservato dalla politica negli anni a Carlo Cottarelli, a Enrico Bondi, a Piero Giarda. E’ finita la grande ubriacatura dei tecnici, ha detto ieri il premier Renzi, la politica ha ripreso solidamente le redini del paese. Infatti si vede: si torna a far salire il deficit rispetto agli obiettivi, e la si presenta come una virtù. E’ l’eterna cattiva abitudine della politica italiana a esser tornata, e la novità è che Renzi ne va molto fiero.

Diciamo allora che ci sono due modi per tentare di spiegare l’inutile arrabbiatura che si è preso Perotti in questi mesi. Il primo è ricordare le mille difficoltà che si oppongono a tagliare davvero la spesa. Il secondo: capire meglio a cosa davvero pensino Renzi e Padoan, e perché credono sia giusto.

La spesa pubblica italiana, checché dicano i suoi difensori che ne scorporano questa o quella voce per farla apparire in linea con quella degli altri paesi, è dannatamente elevata: nel 2015 è al 50,8% del PIL, rispetto al 47,4% della media Ue, al 43,5% della Germania, al 43,4% della Spagna. Con entrate pubbliche totali pari al 49% del PIL per non far troppo debito aggiuntivo, il fardello della finanza pubblica italiana è piombo nelle ali della crescita.

Sappiamo da decenni grazie a Max Weber e James Buchanan che la PA non è fatta per tagliarsi le spese ma per farle crescere, perché è da esse che misura il proprio ruolo e potere. Perciò i burocrati pubblici hanno inventato la tecnica di contabilità che usiamo in Italia, che fa figurare come tagli di spesa riduzioni dell’aumento tendenziale della medesima per l’anno prossimo inferiori al suo aumento reale previsto: così gli statalisti possono urlare contro il rigore, i governi dire che sono rigorosi, ma l’effetto è che la spesa pubblica cresce comunque, e PA e politica sono contenti insieme. Tanto, a pagare è il contribuente-somaro. Agli studiosi è nota come legge di Wagner: la spesa pubblica tende a crescere sempre, con un tasso tanto superiore quanto più sale il reddito procapite.

Sappiamo inoltre che vale la legge del ciclo elettorale della spesa. Il politico non tocca comparti “sensibili” di spesa quanto più si avvicinano le elezioni. Per questo i poverissimi contenimenti dell’andamento della spesa pubblica tendenziale previsti in legge di stabilità si riducono a 8,7 miliardi nel 2016 (3,6 mld a carico delle Regioni, metà della parte restante sono minor spesa per investimenti, il resto quisquilie), a fronte però di 5,4 miliardi di maggior spesa prevista. Mentre la manovra in quanto tale è in deficit aggiuntivo per un punto di Pil, rispetto a quanto ci eravamo impegnati con l’Europa.

I dossier su cui aveva lavorato Perotti erano numerosi: il disboscamento delle detrazioni e deduzioni fiscali a questa e quella lobby che valgono 180mld di minori entrate annue, le spese dei ministeri, l’accorpamento e l’omologazione dei 12 comparti della pubblica amministrazione, le partecipate pubbliche e le 12 mila piccole Iri del socialismo municipale. Ma per Renzi toccare ciascuna di queste contsituencies avrebbe resto la legge di stabilità un Vietnan. E ha deciso di risparmiarselo, ovviamente.

Oltre a questo, però, che riguarda Renzi e il suo calcolo elettorale, c’è dell’altro. In Padoan vive anche un’impostazione teorica diversa dalle bassezze dei politicastri. Ma, a veder bene, ancor più di sinistra. Dacché è ministro, i DEF inviati a Bruxelles sono un’accanita contestazione di come si calcola l’output gap di un paese, la differenza tra l’andamento del suo PIL e quanto si potrebbe davvero ricavare dal miglior uso dei diversi fattori della produzione. E’ un punto centrale che divide il dibattito mondiale del dopo crisi.

Studiando oltre un centinaio di crisi fiscali e finanziarie sovrapposte nel corso degli ultimi 150 anni, economisti come Carmen Reinhart e Ken Rogoff ne hanno dedotto che in molti casi la via migliore per uscire dalle crisi è affrontarne le cause con correzioni energiche al limite dello shock, abbattendo l’eccesso di debiti pubblici, bancari e privati, spesa e tasse, perché in quel caso la ripartenza è più rapida e solida: vedi il caso in corso dell’Irlanda per fare un esempio, che oggi cresce al 5% annuo senza aver alzato la sua aliquota sulle imprese al 12,5%.

A questa impostazione se ne oppone un’altra, che accusa il rigore di errori micidiali. Può essere vero che impugnando l’accetta si riparte, sostiene, ma così facendo ci si riprende dalla base di un prodotto potenziale molto più basso, cioè si sacrifica lavoro, reddito, consumi e investimenti non destinati facilmente a tornare. E’ la tesi della cosiddetta “stagnazione secolare”, sostenuta da Larry Summers e Paul Krugman. La loro ricetta è: bisogna seguire politiche monetarie ancor più lasche di quelle sinora messe in opera, fregarsene del deficit e del debito pubblico perché ci deve pensare il banchiere centrale a sostenerli e renderli comunque solvibili, bisogna spendere spandere e investire perché solo così si evitano guai peggiori. Perché ormai la piena occupazione è coerente a tassi naturali d’interesse molto più bassi che in passato, ed è con politiche monetarie e di bilancio no convenzionali – cioè lasche e dispendiose – che bisogna combattere stasi dell’innovazione e declino demografico.

Ecco, con Renzi-Padoan la strada imboccata dalla legge di stabilità è quella Summers-Krugman. In realtà si tratta del Keynes della vulgata deficista, che dimentica quel che Keynes aveva scritto prima del 1936 sull’errore di politiche monetarie troppo accomodanti. Non si scelgono dunque i tagli fiscali alle imprese e al lavoro con cui si ripartirebbe prima, ma quelli sulla prima casa che servono alla fiducia cioè al consenso. Non si incentivano contratti di lavoro e investimenti “addizionali”, ma quelli lordi a cominciare dunque da quelli che si sarebbero fatti comunque: ancora una volta perché la fiducia viene anteposta all’arido calcolo di cosa alzi più il PIL davvero nel breve termine. Tanto ci pensa Mario Draghi a salvarci il fondoschiena, pensano i politici che tornano alla virtù del deficit e del torchio monetario.

Con tutto questo, davvero Roberto Perotti non c’entrava nulla. Vedremo come andrà: ma attenti che la crescita mondiale è al ribasso, l’effetto petrolio è quasi svanito, e anche san Mario Draghi può molto, ma i miracoli in eterno di sicuro non riescono neanche a lui.

9
Nov
2015

Come governare e cambiare un Paese. Appunti dall’advisor di Blair—di Lorenzo Castellani

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Lorenzo Castellani.

Per la politica contemporanea delle democrazie liberali soddisfare le aspettative dei cittadini rappresenta il principale problema. Ciò che muove una contestazione, elettoralmente considerevole in Europa e negli Stati Uniti, verso le forze politiche di governo è la sensazione che, nonostante il cambio di colore dei governi, le democrazia restino oramai un potere vuoto. Read More

5
Nov
2015

La Mosca al naso e le riforme virtuali—di Gemma Mantovani

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gemma Mantovani.

Zzz quel sibilo noioso, insistente, e poi sembra che smetta, forse è uscita dalla stanza, invece no zzz è sempre lì e ti si posa sul naso, e la scacci ma lei è ancora lì. Ma la mosca in questo caso è una legge. Insopportabile come una mosca vera. La legge n. 252 del 1974, meglio conosciuta come “legge Mosca”: “Regolarizzazione della posizione assicurativa dei dipendenti dei partiti politici, delle organizzazioni sindacali e delle associazioni di tutela e rappresentanza della cooperazione”. Una delle leggi più dispendiose e deleterie in tema di privilegi assegnati a politici e sindacalisti.
Giovanni Mosca, padre della legge, una volta intervistato disse: “La legge era giusta, non mi sono mai pentito. Read More

3
Nov
2015

Perché al liberale non piace l’8 x mille, e cosa vorrebbe invece

La Corte dei Conti anche quest’anno ha puntato il dito contro le molte anomalie dell’8 per mille, la modalità di finanziamento che dal 1985 è a disposizione dei contribuenti italiani per destinare una parte dell’IRPEF a sostegno delle confessioni religiose o dello Stato.

La Corte ha molte ragioni, in primis quella di suscitare molti pesanti interrogativi su un meccanismo che è asimmetrico e di fatto sfuggito di mano. Interrogativi ai quali però la politica è sorda, per non urtare la gerarchia della Chiesa cattolica italiana che del meccanismo – per come funziona – è la maggior beneficiaria, incassando da anni oltre un miliardo l’anno e cioè l’80 e più per cento del totale delle risorse assegnate.

Ma la Corte ha anche un limite evidente: le sue osservazioni valgono nel limite delle leggi vigenti. Che sono leggi sbagliate o quanto meno superate, almeno dal punto di vista liberale. Leggi che andrebbero ripensate in un’unica ottica: accomunare in una sola disciplina di agevolazione fiscale – neutrale, senza distinzioni dettate da discrezionalità politica – le libere scelte di donazione dei contribuenti a favore dei confessioni religiose, terzo settore e partiti. Spezzando le anomalie che in Italia separano 8 per mille riservato alle Chiese, 5 per mille alla sussidiarietà sociale e culturale, e 2 per mille alle forze politiche.

La politica non ne ha però alcuna intenzione. E sinora ha fatto orecchie da mercante anche alle osservazioni della Corte, che già l’anno scorso erano tal quali a quest’anno. La prima anomalia dell’8 per mille è che solo per la Chiesa cattolica derivi dal Nuovo Concordato tra Italia e Vaticano del 1984, che sostituì a firma Craxi quello fascista del 1929. Il leader socialista lo sottoscrisse pensando ai voti dei cattolici. Invece il tempo era maturo per una legge generale sulla libertà di culto in Italia, che equiparasse tutte le confessioni lasciandole libere di sottoscrivere intese con lo Stato. Al contrario, per l’8 per mille è competente una commissione paritetica Stato-CEI per quanto riguarda la Chiesa cattolica, mentre altre confessioni – valdesi, israeliti, luterani, chiesa avventista eccetera – hanno sottoscritto semplici intese. Ed è nella commissione mista Stato-CEI, che la politica italiana proprio non se la sente di affrontare le contraddizioni rilevate dalla Corte dei conti.

E’ verissimo che le risorse si sono triplicate in pochi anni, mentre per esempio quelle del 5 per mille sono fissate ogni anno dal MEF a seconda dei saldi di bilancio dello Stato, impedendo al terzo settore di poter pianificare pluriennalmente bilanci a sostegno dei malati, del patrimonio culturale e della ricerca. E’ verissimo che il meccanismo della ripartizione di quote integrando coloro che non optano a favore di nulla finisce per premiare la Chiesa cattolica: un meccanismo che dovrebbe essere considerato incostituzionale, come sostengono alcune altre confessioni. E’ altrettanto vero che la legge che ha introdotto l’8 per mille nel 1985 comunque ne identificava tre aree di utilizzo esclusivo da parte delle confessioni, mentre nel rendiconto generalissimo annuale redatto dalla CEI si capisce che gli scopi a cui sono volti i fondi sono anche altri. Ed è ancora vero che lo Stato, per parte sua, si è impadronito per altri fini di spesa corrente del più delle risorse annuali che i contribuenti gli riservavano per interventi che dovrebbero essere anch’essi esclusivamente sociali. Come è vero che non si è adoperato per smascherare e punire, in numerosi CAF che redigono le dichiarazioni dei redditi dei contribuenti, i falsi comprovati nell’attribuzione alla Chiesa cattolica di molte dichiarazioni inoptate.

Se lo Stato non si dà da fare con campagne di promozione pubblica per la scelta a proprio favore, e se non raddrizza tutte queste storture evidenti dell’8 per mille, è per non irritare la CEI. Ragione in più, allora, per evitare interventi solo mirati alle gerarchie cattoliche, superando una volta per tutte il regime concordatario e approvando una sola legge generale sulla libertà religiosa (e sui relativi doveri essenziali delle confessioni). Un ordinamento davvero liberale non dovrebbe conoscere distinzioni nelle agevolazioni fiscali concesse ai diversi soggetti ai quali il cittadino contribuente può scegliere di donare: si tratti di religione, sussidiarietà sociale e culturale, o politica. Invece abbiamo un sistema che strapremia la Chiesa cattolica, e che ha introdotto a favore della donazione ai partiti sgravi fiscali multipli di quelli riservati a chi vuole finanziare di tasca propria le università, o i musei, o le misericordie che assistono anziani e malati. Un paese che conta a favore della confessione più forte anche e soprattutto chi non esprime alcuna scelta cioè la maggioranza, e che taglia invece le risorse da destinare a chi invece sceglie esplicitamente questa o quella onlus del terzo settore “civile”. Un paese, in sostanza, ipocrita: perché finge di rispettare la libera scelta di dono dei suoi cittadini, e in realtà la piega alle convenienze della politica.

1
Nov
2015

Metodo-Milano a Roma? Perché il liberale resta scettico

Esportare il modello-Milano a Roma e in tutta Italia? Lo slogan sembra diffondersi, all’indomani della chiusura di Expo e della nomina del prefetto di Milano, Paolo Francesco Tronca, a commissario di Roma dopo l’incredibile autodafè del sindaco Marino. E’ uno slogan che può sembrare ovvio e seducente, di fronte all’imminente Giubileo a Roma. Ma bisogna avere l’onestà liberale e non propagandistica di dirlo: attenti all’equivoco, perché c’è bisogno di altro.

L’EXPO è finito ieri con un ottimo bilancio. “l’Italia ha vinto la sfida”, ha detto alla cerimonia conclusiva il Capo dello Stato, Mattarella. E’ un fatto. Quando i ritardi nei lavori fecero dire ai più che la scommessa appariva in bilico, quando la scure degli scandali e delle indagini giudiziarie colpì anche progetti legati a Expo come quello delle cosiddette “Vie d’Acqua”, tutte le istituzioni milanesi, il governo nazionale e i manager di prima fila di EXPO, seppero serrare le fila. E il risultato c’è stato. Ventuno milioni di visitatori. Tutte le delegazioni internazionali, politiche e del mondo del business, unanimi nel riconoscere che non si aspettavano una prova così riuscita dall’Italia.

La vera chiave del metodo-Milano è stata una sola. Constatato che anche a Milano i ritardi delle procedure ordinarie dell’ancora vigente codice degli appalti si sommavano a quelli precedenti nelle decisioni di Regione e Comune, e che il malaffare era in agguato anche negli appalti lombardi, di fronte al baratro internazionale che sembrava aprirsi tutti hanno saputo convergere. Il governo ha messo soldi. I manager di EXPO, Regione e Comune hanno concordato comunque col governo di procedere in regime di deroga rispetto alle gare, ma spalancando a Raffaele Cantone e all’ANAC la porta preventiva di ogni aggiudicazione. I sindacati hanno siglato mesi prima la tregua su ogni sciopero. Quando l’inaugurazione fu bruttata dai black bloc, che misero a fuoco il centro di Milano, la reazione civile e istituzionale fu immediata e unanime.

Ma detto questo, valgono comunque quattro osservazioni.

La prima è che il prefetto Tronca, da solo, non avrebbe potuto ottenere nulla più a Milano del collega Gabrielli a Roma, se non avesse incontrato una convergenza assoluta di tutte le istituzioni, centrali e locali. Non è così a Roma, dove l’esperienza Marino tramonta nello scontro aperto tra governo e Pd da una parte ed ex sindaco dall’altro. E lo stesso vale per Napoli o Palermo e il resto del Sud. Forse è per questo ed è comunque apprezzabile, che il prefetto Tronca neo commissario a Roma abbia ieri cominciato a correggersi e a frenare, sulla replicabilità del modello-Milano anche altrove.

La seconda. EXPO è stato un successo, ma la sfida ha riguardato infrastrutturare e gestire al meglio un’area di 100 ettari. Sono un milione di metri quadrati, cioè un chilometro quadrato. Ma il Comune di Roma ha una superficie 1.285 volte superiore: pari alla somma di Milano, Napoli, Torino, Palermo, Genova, Bologna, Firenze, Bari e Cagliari insieme. A Roma per il Giubileo, per quanto gonfiate siano le cifre girate sull’attesa di pellegrini, è enormemente più complesso il compito di assicurare in poche settimane trasporti pubblici e raccolta d’immondizia efficienti, dopo decenni di malaffare e inefficienza, conflittualità diffusa e incuria civica. E la stessa cosa vale in tutto il Sud, verso il quale il governo non mostra la stessa forte disponibilità riservata a Milano, all’EXPO prima e ora all’utilizzo dell’area post EXPO.

La terza. Riguarda un tema scivoloso: la moralità pubblica. Sostenere la superiorità etica di Milano su Roma e sul Sud potrà piacere a molti, e molti dati come l’evasione IVA così attestano, ma comunque è un modo certo per sbagliare. Anche EXPO è stato realizzato in un regime di deroghe, e con le Procure addosso. Intanto, la riforma del codice degli appalti dopo 16 mesi ancora non è stata approvata dal parlamento (anche se per un liberale la riforma avrebbe dovuto disboscare molto di più le nome…). E il ruolo dell’ANAC non è ancora regola e non eccezione nella fase pre-appalti a Roma, dove la percentuale di gare affidate senza evidenza pubblica è rimasta maggioritaria anche sotto il sindaco Marino (anche se a un liberale l’ANAC sembra una foglia di fico…). In quella Roma dove ancor non conosciamo i nomi dei 101 funzionari pubblici collusi con il malaffare nell’amministrazione capitolina e delle municipalizzate, secretati nel rapporto della commissione d’indagine di prefetti e funzionari del MEF che precedette la relazione del prefetto Gabrielli.

Ma no, in realtà non c’è una superiorità morale del Nord sul Sud: le norme favorevoli alla malagestio pubblica sono le stesse.  In Italia c’è un problema generale di troppe regole vischiose che spalancano la porta ad affari impropri di chi le gestisce. Quando l’ex assessore ai Trasporti di Roma Esposito dice che funzionari e dipendenti del suo assessorato sono collusi, non è un prefetto super-commissario da solo a poter far pulizia. Cento centri di spesa pubblica all’ombra del solo Campidoglio e delle sue società partecipate sono ben altro problema, rispetto all’unica società che ha gestito EXPO. E in legge di stabilità non c’è l’ombra di una spending review né di una riduzione delle partecipate pubbliche, ovviamente.

La quarta osservazione, conclusiva. Dal successo di EXPO c’è da imparare. Ma i guai profondi di Roma e del Sud sono una sfida cento volte più complessa. Solo mobilitando per anni risorse incomparabilmente superiori, risorse istituzionali e civili, economiche e professionali, sarà possibile colmare il profondo fossato della fiducia aperto tra cittadini e cosa pubblica. Il miglior Giubileo possibile a Roma ha la forza di un simbolo. Ma la sfida a Roma e nel Sud non durerà sei mesi come a Milano, perché troppi sono gli anni degli errori commessi e da riparare. Il liberale resta scettico, insomma, e non crede ai miracoli.