10
Nov
2013

Responsabilità civile dei magistrati: testo del governo inaccettabile, seguire il modello spagnolo

L’ultimo Consiglio dei ministri ha varato un emendamento in due commi alla più ampia legge annuale di adempimenti comunitari. E’ un testo che riguarda la responsabilità civile pubblica a risarcire danni giudiziali. Il vicepremier Alfano ha creduto lì per lì, o almeno così è sembrato da un suo tweet, che si trattasse finalmente di una piccola e insieme grande rivoluzione, sulla cui necessità l’Italia è spaccata da 26 anni. Ma non è così, e ha subito dovuto fare marcia indietro.

E’ un tema delicatissimo, quello di chi e come debba pubblicamente risarcire i danni prodotti da procedimenti e decisioni della giustizia. Perché investe l’eguaglianza di tutti i cittadini, cioè l’articolo 3 della Costituzione. Investe l’uguglianza di tutti i pubblici dipendenti tra loro, cioè l’articolo 28, il quale prevede che «i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti», e che «in tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici». Ma investe anche le particolari prerogative di autonomia e indipendenza della magistratura da ogni altro potere, fissate all’articolo 101,104 e 108 .

E’ un tema al quale la magistratura associata e le diverse correnti togate riservano il fucile spianato, pronte a gridare alla lesa indipendenza del magistrato. Ed è un tema su cui, nella seconda Repubblica, Pdl e Pd hanno incessantemente litigato, con decine di progetti di legge nessuno dei quali è mai stato approvato.

Che l’Italia sia spaccata su questo, è storia lunga. Nel novembre 1987, ottenne una maggioranza dell’80% il referendum abrogativo dei tre articoli del codice di procedura civile del 1940, norme che sottoponevano la responsabilità civile a tali limitazioni, filtri, autorizzazioni e designazioni di giudici ad hoc diversi da quello naturale, da rendere per 47 anni il principio vergognosamente del tutto inoperante. Lo Stato, di fatto, si era reso sinora irresponsabile, come un antico monarca assoluto.

Dopo il referendum fu approvata una legge, la 117 del 1988 conosciuta anche come legge Vassalli. E’ una legge che di fatto, a giudizio di molti e anche di chi qui scrive, travisa l’esito del referendum (come del resto è avvenuto molte volte, pensate a quello sulla Rai). Perché la 117 ci lascia con la bocca amara? Perché apparentemente all’articolo 1 estende l’applicabilità della responsabilità civile – in capo allo Stato – a tutti i magistrati, monocratici e collegiali, ordinari e contabili, amministrativi e militari, e anche a coloro che partecipano alla funzione giudiziaria da estranei all’ordine. Ma poi, all’articolo 2, fissa dei paletti strettissimi all’esercizio concreto di tale responsabilità. Viene limitata a chi ha subito un danno per dolo, colpa grave o denegata giustizia da parte dei magistrati, ma esclude che in tali ipotesi possa ricadere ogni interpretazione delle norme di diritto, valutazioni di fatti o prove. E’ la cosiddetta “clausola di salvaguardia”, benedetta e difesa a spada tratta da Anm e CSM.

Inoltre l’azione di responsabilità è preventivamente sottoposta a un giudizio di ammissibilità del tribunale competente che deve preventivamente valutare, oltre al rispetto dei termini, la non manifesta infondatezza della domanda. Nel caso di danno riconosciuto è lo Stato che ne risponde, ed esso può poi rivalersi nei confronti del magistrato ma solo se questi ha compiuto un reato. E inoltre non in termini proporzionali al danno che lo Stato ha dovuto liquidare alla parte lesa, bensì entro il limite di un terzo dell’annualità di stipendio del magistrato stesso.

Non c’è da stupirsi se, con una legge concepita come mera versione aggiornata e corretta dello scudo prima impenetrabile, di fronte a oltre 400 cause di responsabilità civile avviate contro lo Stato (con circa 500 milioni di euro risarciti in 25 anni a vario titolo, a cittadini e imprese) solo 4 volte – quattro! – la rivalsa sul giudice responsabile sia effettivamente scattata.

E’ un numero che la dice lunga. Non sul rispetto dell’autonomia e dell’indipendenza del potere giudiziario. Ma sul fatto che i magistrati continuano a non rispondere del danno ingiusto a terzi, quando sbagliano. E’ il principio del “cane non mangia cane” (i magistrati insorgono, quando si usa tale espressione): quello per cui i tribunali sono “strettissimi” nell’ammissibilità dell’azione e nel giudicare atti di colleghi.

L’infrazione europea

Non è per questo, però, che il governo Letta torna sulla materia. E’ obbligato a farlo perché c’è un ballo una procedura d’infrazione europea. La Corte di Giustizia Europea ha più volte, negli anni, censurato i “paletti” della legge Vassalli. Lo ha fatto nel 2003, affermando che una limitazione del risarcimento al danno causato esclusivamente con dolo o colpa grave del giudice costituisce una restrizione della responsabilità dello Stato che non può essere accettata, in quanto non rispettosa del parametro della “violazione sufficientemente caratterizzata” – cioè manifesta – che può da sola determinare l’insorgere della responsabilità dello Stato. La legge italiana sui limita insomma ai soli “errori aberranti”, è troppo restrittiva. Sempre la Corte di Giustizia nel 2006 e nel 2011 ha poi precisato che la responsabilità dello Stato deve sorgere anche quando detta violazione manifesta del diritto vigente “risulti da un’attività di interpretazione di norme di diritto ovvero di valutazione dei fatti e delle prove”. Esattamente ciò che la legge Vassalli esclude. Se da una parte l’infrazione comunitaria si riferisce a circa l’80% delle norme vigenti che ormai hanno fonte europea, a maggior ragione dovrebbe valere anche nei residui casi che riguardano il solo diritto nazionale. Ma per anni il governo italiano ha fatto l’indiano. Malgrado le centinaia di condanne rimediate dalla Corte Europea, per casi conclamati di malagiustizia. E a settembre la procedura d’infrazione contro l’Italia è stata alla fine formalmente incardinata.

La risposta del governo

Ma il testo approvato in Consiglio dei ministri è, ancora una volta, per così dire, il minimo sindacale. Mui verrebbe da dire: un vergognoso minimo sindacale. Un primo comma prevede che lo Stato risponda del danno ingiusto su violazioni del diritto comunitario effetto di decisioni giurisdizionali del solo ultimo grado, esaurite le impugnazioni ed entro i tre anni dalla sentenza. Un secondo comma abbraccia sì l’estensione della responsabilità civile pubblica al caso di interpretazione delle norme prima escluso, ma con una sfilza di circostanze restrittive tali per cui ancora una volta i magistrati non vi ricadranno praticamente mai, e sarà eventualmente il solo Stato a pagare. Si prevede infatti che deve essere accertata: l’intenzionalità della sbagliata interpretazione – figuriamoci!; la scusabilità o meno dell’errore – idem come sopra; nonché il grado di chiarezza della norma applicata – con il singolare caso di uno Stato che ammette a discolpa propria e del magistrato il bizantinismo incomprensibile delle sue norme, che noi invece come cittadini-sudditi siamo obbligati a rispettare. Manca ogni tipo di intervento abrogativo o correttivo sul filtro oggi esistente di ammissibilità, come sulla rivalsa possibile sul magistrato nel solo caso di reato da questi commesso, ipotesi che restringe ulteriormente ogni ipotesi che qualche magistrato paghi (e sempre nei limiti del terzo di stipendio….)

 

Come funziona altrove

Ma è vero quel che i magistrati ripetono sempre, e cioè che in tutto il mondo avanzato il responsabile diretto non è mai il magistrato ma solo lo Stato? Sì e no. Anzi, i no pesano eccome. Nei Paesi di Common Law, Stati Uniti, Regno Unito e Commonwealth, in effetti il giudice è irresponsabile, direttamente e indirettamente. Tuttavia sia in America che a Londra questa irresponsabilità è equilibrata da misure disciplinari che arrivano alla rimozione per misbehaviour, cioè per cattiva condotta nella quale ricadono non solo tutti casi richiesti dalla Corte di Giustizia europea e negati dalla legge italiana, ma altresì la stessa semplice negligenza.

La Francia è invece persino peggio dell’Italia. La responsabile del magistrato è indiretta, e lo Stato può rivalersi su di lui solo per dolo o frode ma non per colpa grave. In Germania è prevista la responsabilità dello Stato, che può rivalersi nei confronti dei magistrati per dolo e colpa grave. Nei Paesi Bassi la responsabilità civile è solo dello Stato, nessuna sua rivalsa verso il magistrato. La Spagna è invece l’ordinamento europeo più avanzato. Lo Stato risponde non solo di ogni errore giudiziale ma anche del funzionamento anormale della giustizia – e da noi sarebbe più la regola che l’eccezione, col 41% dei detenuti in attesa di condanna passata in giudicato e il 19% in attesa di giudizio di primo grado. La Spagna risponde del danno per le carcerazioni preventive seguite da assoluzioni. E la Ley organica del Poder Judicial del 1988 consente al cittadino danneggiato di citare in giudizio, oltre allo Stato, direttamente il giudice responsabile per dolo o colpa grave, in quanto la sua responsabilità è diretta e concorrente. In Spagna Stato e giudice possono essere così chiamati direttamente a risarcire il danno, superato anche lì il filtro di un apposito Tribunale che verifica i presupposti dell’azione. Insomma n Spagna la responsabilità duale, dello Stato e a fianco del giudice, esiste eccome. Ed è quella alla quale si potrebbe benissimo guardare, anche in Italia.

 

Come procedere?

La tesi sostenuta dai magistrati è semplice. Poiché la decisione di un magistrato può produrre sempre conseguenze considerate come un danno dalla parte interessata, il togato va sollevato dalla responsabilità generale a risarcire di chiunque arrechi danni a terzi, posta all’articolo 2043 del Codice Civile. Numerosissime sentenze della Corte Costituzionale, negli anni, hanno appoggiato la tesi che contempera due princìpi: la responsabilità civile deve valere anche per i magistrati, come da articolo 28 della Costituzione, ma con limitazioni per rispettare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. Sono pienamente coerenti a questi dettami, a mio giudizio, i due quesiti sulla responsabilità civile compresi nell’ultimo “pacchetto referendario” dei radicali: coi quali si chiede l’abrogazione dell’articolo della legge Vassalli che esclude l’interpretazione di norme dalla responsabilità civile, come chiede la Corte Europea, e altresì dell’articolo che introduce il “filtro” giudiziale all’azione di responsabilità, facendo così cadere il “cane non mangia cane.” Ma, in realtà, un Parlamento che volesse davvero – a mio giudizio – essere coerente con la volontà espressa dagli italiani 25 anni fa, avrebbe dovuto e dovrebbe ispirarsi all’esempio della “responsabilità duale” spagnola. E’ difficile che avvenga se non impossibile, finché la giustizia sarà un terreno di scontro obbligato per via delle vicende di Berlusconi a cui si contrappone giustizialismo a prescindere. Ma sono i cittadini e le imprese italiane, intanto, a pagare la malagiustizia troppo diffusa. Una malagiustizia che vede lo Stato ancora più monarca assoluto, che eguale a noi nei suoi diritti e doveri.

8
Nov
2013

50 anni di Alitalia spiegati in 7 grafici

Gli studenti del mio corso di Finanza Pubblica, molto interessati a comprendere l’attuale crisi di Alitalia, erano alle superiori ai tempi della  crisi del 2008, quella che vide la cacciata di Air France e la discesa in  pista dei ‘capitani coraggiosi’, erano alle medie ai tempi del fallimento del primo tentativo di aggregazione con Air France e alle elementari quando falli l’accordo con KLM, all’asilo quando fu terminata la liberalizzazione dei cieli europei e neonati o ancor nel grembo materno quando nel giugno 1992 i ministri dei trasporti dei paesi dell’Unione si accordarono sui tempi e sulle modalità della completa liberalizzazione. Fu allora che furono programmati gli strumenti concorrenziali in grado di ottenere le migliori condizioni per i consumatori, tra cui gli stessi studenti che con poche decine di euro alla volta possono da anni visitare l’Europa, studiare in altri paesi, trovarvi lavori migliori e anche formare famiglie europee.

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7
Nov
2013

La Google tax e l’oca digitale

Stupisce, in un paese così profondamente votato all’inseguimento, la capacità della nostra classe politica di trovarsi sempre all’avanguardia in un campo: quello fiscale. Questa volta l’obiettivo sono Google e le altre multinazionali del web, colpevoli d’essere sbarcate in Irlanda – dove il reddito d’impresa è sottoposto a un prelievo del 12,5% – anziché in Italia, paese del sole e dell’Irap e dell’Ires al 27,5%.

Prima un emendamento alla delega fiscale, mirante a introdurre «sistemi di tassazione delle imprese multinazionali basati su adeguati sistemi di stima delle quote di attività imputabili alla competenza fiscale nazionale»: una formulazione talmente vaga da mandare in corto-circuito persino il nostro ordinamento tributario, non proprio un fulgido esempio di garantismo. Ora una proposta di modifica della legge di stabilità, che circoscriverebbe ai soggetti muniti di partita iva italiana la possibilità di vendere beni e servizi online nel nostro paese; proposta introdotta da Francesco Boccia, presidente della commissione Bilancio della Camera, con la sanzione esplicita di Guglielmo Epifani e quella implicita di Matteo Renzi ed Enrico Letta.

È evidente a chiunque conosca i rudimenti del diritto comunitario che si tratta di un provvedimento illegittimo, palesemente in contrasto con i principî del mercato unico e della libera circolazione dei servizi e tale da esporre l’Italia a una procedura d’infrazione da parte della Commissione Europea. In questo senso, sarebbe legittimo chiedersi se l’iniziativa sia figlia di grossolana ignoranza o del desiderio di veicolare un messaggio, in spregio alle regole. Tuttavia, questa fatale obiezione non dovrebbe dissuadere da un’analisi del merito: non ci occupiamo, infatti, di una misura irrealizzabile eppure animata da intenzioni condivisibili, bensì di un intervento criticabile già nella sua impalcatura concettuale.

In primo luogo, si denota una scarsa comprensione del fenomeno che s’intende regolare. Cosa significa vendere online in Italia? Significa concludere transazioni con clienti italiani, quando magari l’oggetto delle stesse è prodotto in Polonia e distribuito dalla Germania? Oppure dovrebbe rilevare la presenza del venditore sul territorio italiano? E se sì, con che livello di stabilità? Ovvero, ancora, vogliamo sottoporre a prelievo tutti i servizi ospitati da domini italiani? Il fatto è che lo scambio telematico mal sopporta le categorizzazioni geografiche: e se pure è possibile localizzare una particolare operazione, per esempio ai fini dell’individuazione del diritto applicabile, disporre traslochi ex lege è un altro paio di maniche.

In secondo luogo, quest’approccio travisa il senso della concorrenza fiscale. Boccia bercia di fiscal dumping e proclama la necessità di tutelare gli operatori italiani dalla concorrenza sleale di quelli stabiliti all’estero. Con studiata manipolazione del linguaggio, egli accredita l’idea che vi sia un livello di tassazione – per così dire – naturale: guardacaso, quello applicato in Italia e non quello, più basso, individuato in paesi come l’Irlanda e il Lussemburgo. Se davvero volesse «agire nell’interesse delle nostre imprese», Boccia avrebbe a disposizione una soluzione ovvia: adeguare al ribasso l’entità del nostro prelievo.

Ciò equivarrebbe a riconoscere che gli investimenti esteri e lo sviluppo del mercato digitale sono fattori di sviluppo cui l’Italia non può permettersi di rinunciare; e che il gettito generato non è il solo né il principale contributo di un’azienda al sistema economico di un paese. Purtroppo, oggi come sempre, l’urgenza è quella di «spennare l’oca in modo da ottenere il maggion numero possibile di piume con il minor numero possibile di strilli»: poco importa che l’oca viva su internet, starnazzi in inglese e deponga unicamente uova di Pasqua.

6
Nov
2013

Virus pericolosi — di Andrea Battista

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Andrea Battista.

Il mero confronto di dati, policy e regole di uno Stato con gli altri paesi europei è tanto apparentemente ovvio quanto logicamente fragile. È un confronto intrinsecamente distorto, perché in un mondo globale non v’è motivo di cercare la best practice a due passi da casa, in base alle più o meno presunte affinità culturali.

Né è ipotizzabile essere competitivi con il resto d’Europa per esserlo nel mondo, poiché il Vecchio Continente complessivamente non brilla certo – nella storia recente, nel momento attuale né, ahinoi, prospetticamente – per capacità competitive e performance economiche.

Sta di fatto che tale “benchmarking” avviene con continuità e disinvoltura in molti contesti. È pertanto fondamentale che le scelte scellerate degli altri paesi europei siano esaminate e criticate.

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5
Nov
2013

L’euro si conferma area monetaria non ottimale: cambiarne le regole o farsene mangiare

C’è un tema al quale la politica italiana, presa dalle sue mille polemiche interne, presta assai poca attenzione. Tranne poi vellicarlo superficialmente, da destra, sinistra e grillinamente, con sparate demagogiche a fini di consenso. E’ un tema assolutamente centrale: se ma soprattutto come cambiare l’Unione europea e le regole dell’euro, per impedire che o la crisi dell’euro uccida l’Europa, oppure che il perseguimento dell’euro a regole invariate ottenga, di fatto, lo stesso risultato.

Tra il 1996 e il 1997, prima della scelta finale della terza fase della moneta unica cioè dell’avvio dell’euro in quanto tale, pochi italiani autorevoli, di culture ed esperienza economica, finanziaria e manageriale assai diversa, tentarono invano di attirare l’attenzione della politica e dei media. Erano manager come Cesare Romiti, economisti keynesiani rigorosi alla Franco Modigliani come Paolo Savona, e offertisti come Antonio Martino. C’era anche l’allora governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, che nel consolidamento bancario italiano solleverà poi polemiche e inchieste, ma che di moneta per riconoscimento unanime ne capiva e ne capisce eccome. A organizzare eravamo, all’epoca noi della fondazione Liberal.

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3
Nov
2013

La gioiosa macchina per la spesa

Uno degli aspetti più allarmanti della triste condizione in cui versa il nostro paese è costituito dalla scarsa considerazione, ai limiti dell’incoscienza, di quanto soffocare il nostro tessuto imprenditoriale possa danneggiare le prospettive di crescita del nostro paese e in definitiva diminuire il benessere futuro della collettività.
Qualche giorno fa la pubblicazione del rapporto doing business 2014 non ha destato particolare eco sulla stampa nostrana, se non per qualche sparuta considerazione superficiale La maggior parte degli interventi si è limitata a constatare il posizionamento del nostro paese nella classifica generale, registrando un modesto recupero rispetto allo scorso anno. Tuttavia è sufficiente un minimo di approfondimento per evidenziare quanto la situazione del nostro paese dovrebbe essere preoccupante: se restringiamo la classifica ai paesi ad alto reddito membri dell’OECD che sono i comparabili con i quali ha più senso fare un confronto troviamo che l’Italia è 29ma su 31 paesi solo Grecia e Repubblica Ceca hanno un posizionamento peggiore.

Rankings

Stiamo dicendo che in un mondo sempre più globalizzato, in cui è sempre più facile per i capitali muoversi e soprattutto il capitale umano ha raggiunto un’importanza senza precedenti nel determinare la “ricchezza delle nazioni” l’Italia è quasi il peggior posto dove fare impresa tra i paesi sviluppati. In termini relativi c’è un forte incentivo per le nostre imprese e i nostri cervelli ad andarsene e per quelli stranieri a non venire nel nostro paese e dunque non c’è da meravigliarsi se le imprese che ancora resistono abbiano scarsa convenienza a investire e creare nuova occupazione.

Eppure nel dibattito politico e sui mass media prevale una visione dello stato come una “gioiosa macchina per la spesa” in cui tutte le forze politiche da destra a sinistra si preoccupano solo di come redistribuire le risorse (tenendo per se ovviamente la parte del leone) incuranti dell’agonia in cui versa e delle tragiche prospettive di coloro i quali quelle risorse producono con sempre maggiore difficoltà. Tutti sembrano ragionare come se lo stato potesse sopravvivere tranquillamente anche dopo la morte per soffocamento dell’ultima impresa privata, forse pagando la propria spesa con qualche tipo di moneta filosofale  e a poco vale osservare che ormai siamo al livello in cui aumentato le aliquote il gettito diminuisce.
Mi sembra poi emblematico un commento ricevuto a questo post  che sentenziava

le tasse vengono pagate in maggiore misura da dipendenti pubblici e pensionati

Mi pare evidente che al commentatore non è chiara la differenza fondamentale tra il ruolo di quelli che si trovano al di fuori del perimetro della pubblica amministrazione (e delle sue propagini pseudoprivate) e producono le risorse che servono a mantenere coloro i quali invece ricevono il proprio reddito dallo stato (parlo in dettaglio della questione in questo post)

Mentre siamo troppo occupati a inseguire il pettegolezzo del giorno sulle primarie del PD, o l’ennesima puntata della telenovella sul signor B, la nostra classe dirigente sta lentamente segando il ramo su cui tutti siamo seduti e il risveglio da questo sogno ad occhi aperti non potrà che essere brusco ed estremamente sgradevole.

@massimofamularo

Apologia di Socrate

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2
Nov
2013

Oro: quello che si deve sapere. Parte II — di Gerardo Coco

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gerardo Coco.

Nella prima parte di questo saggio abbiamo spiegato i fondamentali dell’oro. Il primo è la sua utilità marginale che decresce molto più lentamente di quella di qualsiasi altro bene tanto da potersi considerare costante per cui ogni incremento aggiunto a una scorta preesistente ha sempre la stessa utilità e questo è il motivo che rende l’oro la sostanza più tesoreggiabile in assoluto. Il secondo è l’elevato rapporto tra lo stock esistente e nuova produzione, più alto rispetto a qualsiasi altro bene per cui non se se verificano abbondanza o scarsità in grado di influenzarne il valore. La caratteristica oggettiva del valore dell’oro è dunque la sua stabilità, mentre quella del suo prezzo, la volatilità. Ma quest’ultima non è altro che quella riflessa delle valute legali manipolate in cui il metallo è correntemente quotato. L’oggettività del valore dell’oro non contraddice il principio di soggettività del valore di tutte le cose ma afferma soltanto che la soggettività non può prescindere dai fondamentali «oggettivi» del metallo. Senza queste proprietà l’oro non sarebbe diventato il denaro per eccellenza e l’espressione sintetica di tutti i valori. Come espressione di ricchezza reale nella sua forma più permutabile e liquida, costituisce il regolatore della quantità e qualità del credito impedendo gli abusi del debito di cui è il mezzo di estinzione definitiva. Sono stati proprio tali requisiti a caratterizzare il sistema aureo di cui, in questa seconda parte, spieghiamo il funzionamento, il significato storico e le tappe della sua eliminazione dal sistema monetario internazionale.

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31
Ott
2013

La fine della recessione spagnola – parte 2

Quali sono stati i fattori di maggiore rilevanza per la fine della recessione spagnola? In parte rispondevamo l’altro ieri su Leoniblog, con un grafico che rappresentava un settore importante dell’economia: l’automotive.

Negli ultimi anni in Italia si è parlato spesso di Fiat e dell’importanza di questo settore dell’economia in grado di produrre occupazione e veicoli da esportare. Mentre in Italia si parlava, molte volte a sproposito, e purtroppo poco cambiava, l’Italia rimaneva al palo, mentre in Spagna arrivavano gli investitori stranieri che portavano occupazione e sviluppavano il settore. Read More