Tecnici, nuovo PIL, pensioni: i 3 problemi del nodo Renzi-Cottarelli
L’ormai consumata crisi tra Cottarelli e Renzi pone tre problemi diversi, tutti rilevanti. Apparentemente il più serio è la stima dei saldi pubblici e del perché Renzi rinvii i tagli alla spesa tutto da quando il governo è nato, mentre l’economia resta stagnante. Ma è meglio tenerlo per terzo, perché solo stimando altre due questioni prioritarie si può cercare di capire e giudicare la via seguita da Renzi.
Il primo problema è il rapporto tra ”tecnici” e politica. Era evidente sin dall’esordio delle 72 slides di Cottarelli a governo Renzi appena nato, che il premier la pensava esattamente come ieri ha detto concludendo il suo intervento alla direzione Pd. In sostanza: Cottarelli vada pure se crede ed è chiaro che a questo punto se n’è già andato, ma è la politica a decidere, cioè il governo e cioè innanzitutto Renzi come premier. Non sta a Cottarelli giudicare che cosa vota la maggioranza e come si comporta il governo. Il rude invito ai tecnici a stare al posto loro vale in realtà anche per il ministro Padoan, che il Quirinale ha fortemente voluto al MEF e che sinora è stato un pilastro della credibilità internazionale italiana in materia economico-finanziaria.
Se c’è un errore da evitare, è credere di affrontare la questione Cottarelli-Renzi in punta di psicologie e caratteri personali, come troppo amano fare i media. Il nodo che viene al pettine è strutturale, è quello del redde rationem della politica nei confronti della supplenza di competenza e autorevolezza che si è richiesta ai tecnici sostituendo i politici, dalla debacle di Berlusconi nel 2011 a oggi, come avvenne alla fine della Prima Repubblica. Alla politica – a destra e a sinistra, a prescindere dalle difese d’ufficio di Cottarelli per pura polemica anti Renzi inscenate oggi da una destra che i tagli di spesa non li ha mai praticati – in realtà piace enormemente, la tromba della riscossa che Renzi suona contro i tecnici. E a molti media pure, dopo aver coperto di improperi i tecnici a ciascuno dei quali però, da Monti in poi, gli stessi media riservavano all’inizio un servo encomio…
Come sempre, però, passare da un estremo all’altro è egualmente sbagliato. E’ innegabile che la politica sola possa e debba decidere, in nome dei consensi guadagnati alle elezioni, della caratura dei suoi leader, e dei rapporti politici interni alle maggioranze. I tecnici “impolitici” scivolano spesso sulla saponosa china dei consensi e su quella di come parlare alla gente, da Monti a Saccomanni. Ma il punto di fondo è un altro. E Renzi su questo corre il rischio di sbagliare. Alla finanza pubblica italiana servono o no, i tecnici? La risposta a tale quesito, alla luce di decenni di andamenti reali diversi dai documenti previsivi dei governi di ogni colore, della continua prassi parlamentare di alterare lobbysticamente saldi e coperture già originariamente spesso azzardate, e dalla pessima qualità certificata della spesa pubblica corrente e in conto capitale, non può che essere diversa da “la politica decide tutto”. I tecnici servono, eccome.
Un serio governo riformatore dovrebbe tirare una riga netta. Aver abdicato di fatto in vent’anni formulazione di obiettivi, compatibilità e testi di governo della finanza pubblica alla Ragioneria Generale dello Stato e alle Agenzie tributarie si è rivelato un errore. E sta alla politica decidere se e come riformare i “tecnici di governo”, che sono spesso diventati “governi a parte”, soprattutto in materia fiscale e opponendosi-ritardando ogni dismissione. Ma la riga netta è necessaria su un’altra questione. Alla finanza pubblica italiana serve un’Agenzia indipendente dai governi e dal parlamento, alla quale attribuire valutazioni ex ante ed ex post sugli interventi in materia di spesa ed entrate, sulla allocazione degli investimenti pubblici, sui criteri comparati di impiego delle risorse pubbliche nella sterminata e difforme geografia degli oltre 10 mila soggetti della PA (più all’incirca un’eguale mole di società controllate e partecipate), nonché su ogni “riforma” strutturale varata dai governi. C’è bisogno di qualcosa di altrettanto indipendente e autorevole del Congressional Budget Office americano, ma ancor più vasto visto che da noi la spesa pubblica è molto superiore.
E’ una questione essenziale di trasparenza. I governi decidano, ma i contribuenti hanno diritto a sapere bene ciò che si potrebbe e dovrebbe fare, quali siano le stime e le conseguenze degli interventi proposti, quali i benefici e quali le esternalità negative di una seria analisi costi-benefici di tutto ciò che viene proposto. E’ esattamente per questo che il governo non ha reso pubblici i 25 pdf dei gruppi di lavoro riuniti da Cottarelli per l’esame della spesa pubblica. Ed è un pessimo segnale, che su sanità e previdenza, 80mila esuberi PA e partecipate locali, prefetture, forze dell’ordine e centri di acquisto, tanto per fare solo qualche esempio, il governo abbia storto il muso al fatto che il commissario Cottarelli indicasse come e dove intervenire da subito, a partire – dicevano le slides – dallo scorso primo maggio.
Conclusione del primo punto: il ritorno alla supremazia della politica non corretto da un bilanciamento tecnico indipendente in Italia può voler dire una sola cosa, rinunciare a rivedere in profondità perimetro ed efficacia di una PA che spende troppo e che continuerà a costare troppe tasse, impedimento strutturale alla crescita italiana.
Seconda questione: Renzi ha ragione o torto, a prender tempo sui conti?
Stiamo ai fatti. Padoan, l’Istat e Renzi stesso ieri hanno ricordato che la crescita italiana nel 2014 non sarà quella indicata dal governo nel suo DEF di aprile, un PIL a +0,8%. I segnali italiani di cui disponiamo, dice l’Istat, indicano una prospettiva di stagnazione. Vedremo la prossima settimana, quando verrà diramata la prima stima del Pil nel secondo trimestre 2014. Ormai da tempo le stime convergenti – Confindustria, Banca d’Italia, FMI – si collocano tanno in una risicata forbice tra +0,2 e +0,3%. E’ ovvio che meno crescita significa rischio di sforare il 3% di deficit sul Pil nel 2014, ulteriore intensificazione della velocità di aumento del debito pubblico, necessità di appesantire le manovre di correzione indicate dalla prossima legge di stabilità.
Non è questa la via della quale Renzi è convinto. Gli sembra un’impostazione vecchia, quella riservata all’Italia come sorvegliata speciale. Aveva senso nel 2011, quando sotto i colpi della crisi emergente greco-spagnola l’instabilità italiana poteva minacciare l’euro stesso. Ora è diverso, pensa il premier. E’ diverso perché di mezzo si è messo Draghi con il suo bazooka, “faremo qualunque cosa per preservare ‘euro”. E’ diverso perché c’è una cornice concordata, sia pur da rafforzare, di scudi europei di emergenza, mentre allora praticamente non esistevano. E’ diverso anche perché al recente voto europeo Berlino ha potuto misurare la forza crescente dell’avversione all’euro, creata da politici che lo indicano come strumento di un rigore cieco e affama-popoli. Ed è diverso anche perché a Berlino per prima la Merkel, non governerebbe senza i socialisti nel suo governo.
Non sono solo queste ragioni “politiche”, ad aver spinto Renzi a non assecondare chi consigliava di rimetter subito mano ai conti, e di accelerare sui tagli di spesa. Cottarelli a marzo proponeva tagli cumulativi per 7 miliardi nel 2014, 17 nel 2015 e 34 nel 2016. Anche ieri è stato Padoan, a dire che la minor crescita rispetto alle attese impegna a maggior sforzi sulla finanza pubblica. Renzi non dichiara mai qualcosa di analogo. Per diverse ragioni “fattuali”, a suo giudizio.
La prima è il ricalcolo in arrivo del Pil. Pochi ne tengono conto, ma l’Istat ha anticipato a settembre di quest’anno l’adozione dei nuovi criteri Eurostat che sostituiscono il set di regole – il Sec95 – con cui da vent’anni si calcola il prodotto interno lordo. Le nuove regole Eurostat danno maggior peso alle spese in ricerca e sviluppo, a quelle per armamenti, agli scambi esteri di beni intermedi. E infine, la parte più discutibile, l’inserimento nel PIL di tutte le attività che producano reddito anche se illecite: droga, prostituzione, contrabbando. Eurostat si aspetta una rivalutazione media per l’area Ue pari a 2,4% del Pil. Mentre per l’Italia l’attesa Eurostat è di un Pil 2014 che possa salire tra l’1% e il 2% rispetto ai vecchi criteri.
Ci sarà ovviamente chi griderà al trucco, ma la speranza di Renzi è che a settembre la stima del deficit 2014 e 2015 su un Pil così rivalutato lasci critici e rosiconi, italiani ed europei, a bocca asciutta.
La seconda ragione – che al MEF lascia perplessi, come tante altre cose su cui la struttura tecnica del ministero e palazzo Chigi non si prendono, di qui l’accelerazione di Renzi su un proprio pool di economisti fidati – sta in una stima molto ottimistica, fino a 6-7 miliardi, di IVA aggiuntiva incassata entro fine anno grazie all’accelerazione del pagamento dei debiti della PA verso le imprese.
La terza ragione, infine, è la riserva di azione politica che Renzi intende esprimere nel Consiglio europeo, più di quanto Padoan possa fare all’Ecofin. La Francia ha già chiesto un ulteriore slittamento del rientro del deficit verso quota zero, per la terza volta in cinque anni. La Germania vede crescita e indici di fiducia in frenata. Renzi resta convinto che al Consiglio Europeo questa volta devono pensarci bene, prima di ridurre la sua volontà di riforme a pagare l’amaro pegno di una stangata fiscale aggiuntiva per recuperare un 1% di deficit fuori controllo. Non è nelle sue intenzioni assecondare quelle eventuali richieste. A costo di impugnare lui la bandiera di un’Europa che ci vuol far morire di rigore, strappandola alle mani della lega e del M5S. E’ un azzardo, ma Renzi è fatto così.
Terza questione: senza dismissioni e con le tendenze di questa maggioranza che si vedono sulle misure economiche, la sostenibilità del rientro della finanza pubblica resta comunque poco credibile.
Il percorso pluriennnale di risanamento della finanza pubblica resta impervio, senza tagli decisi a spesa e tasse: uno studio di Barry Eichengreen e Ugo Panizza pubblicato ieri su Vox lascia poca speranza, sul fatto che davvero l’Italia possa per 10 anni almeno restare a livelli di avanzo primario – tutto realizzato per via di repressione fiscale su lavoro e impresa – tra il 4 e il 6% del Pil annuo. Solo pochi paesi ci sono riusciti, come Belgio, Nuova Zelanda, Irlanda e Singapore, piccoli paesi molto più aperti di noi all’economia internazionale, e dotati di convergenza politica a noi ignota.
Se esaminiamo le proiezioni in vista della prossima legge di stabilità, ai 10 miliardi di aggiustamento necessari per rendere permanente il bonus 80 euro, ai 10-12 necessari per tener conto dell’invito della Commissione Europea uscente a recuperare il ritardo accumulato nel rientro del deficit strutturale entro il 2015 (il 2016 non ci è stato concesso), ai 3,5 miliardi di “clausola di salvaguardia” ereditata da Letta per evitare che scattino altri aggravi d’imposta, a tutto questo non si fa fronte neanche coi 17 miliardi taglia-spesa che indicava Cottarelli, e che ora ai più sembrano tantissimi.
Dice Renzi che Consiglio europeo e Commissione, come confermato da Juncker, dovranno valutare innanzitutto la serietà delle riforme, solo poi i saldi da garantire. Finora, però, la riforma della Costituzione avrà effetti limitatissimi sulla finanza pubblica (resta l’autonomia speciale alle Regioni, che moltiplica spesa e debiti, vedi la Sicilia). Quella sul lavoro è rinviata a settembre, dunque si vedrà.
Ma allora perché mai, nella riforma della PA, Pd e maggioranza rimettono mano o meglio manomettono una delle poche vere clausole di sicurezza poste dalla politica italiana all’aumento della spesa, cioè la riforma delle pensioni Fornero di fine 2012? Perché autorizzare l’età della piena pensione ai dirigenti pubblici a 62 anni, quando per gli italiani normali quest’anno il trattamento di anzianità è 63 anni e 9 mesi e in crescita ulteriore? Perché riaprire il pieno pensionamento a quota 96 anni come somma di età e contributi versati anche a chi ha 60 anni? Come non capire che una volta aperte queste brecce la conseguenza è quella già indicata stamane dal ministro Poletti al Messaggero, e cioè tornare a quota 96 per tutti, come da sempre dicono Damiano, mezzo Pd e tutta la Cgil?
La somma di questi tre problemi sembra indicare che il governo crede davvero di evitare i tagli di spesa senza i quali non c’è sgravio fiscale di proporzioni tali da rilanciare l’offerta. E’ un copione già visto in 20 anni, da governi di destra e sinistra. Renzi sa che il declino italiano è figlio di quell’errore. Non resta che verificare, entro poche settimane, quale sarà la sua risposta.