Ma guarda, il PIL scende mentre spesa e incassi pubblici salgono: ora basta scuse, rinvii e propaganda
L’Istat ha purtroppo confermato le attese. Nel secondo trimestre del 2014 il PIL italiano è diminuito dello 0,2% rispetto al trimestre precedente e dello 0,3% nei confronti del secondo trimestre 2013. Dopo il deludente -0,1% del primo trimestre su quello precedente (e -0,5% sullo stesso periodo 2013), abbiamo oggi la conferma che non è alla nostra portata il più 0,8% annuo di PIL previsto nel DEF ad aprile dal governo Renzi appena insediato. C’è poco da gioire, anche per chi come noi l’aveva detto per tempo. Si può solo esser tristi due volte, perché inascoltati.
Ed è su questo sfondo, che ieri il premier non ha troppo gradito le osservazioni venute da Confcommercio, sull’effetto praticamente nullo su consumi e crescita sin qui manifestato dal bonus di 80 euro lordi mensili disposto dal governo ai lavoratori dipendenti sotto i 25 mila euro lordi di reddito. “Andatelo a chiedere agli 11 milioni di beneficiari, se l’effetto è nullo”, ha seccamente replicato Renzi. Bisogna riconoscere che tra Confcommercio e Renzi non hanno ragione l’una e torto l’altro. Hanno ragione entrambi. E non per cerchiobottismo, ma semplicemente perché parlano di due cose diverse. Confcommercio parla degli effetti che il bonus non ha avuto sulla crescita. Mentre Renzi si riferisce all’effetto che il bonus ha esercitato sul reddito disponibile di chi l’ha percepito. A entrambi i numeri danno ragione, visto che si parla di cose diverse. Quanto agli effetti del bonus sulla crescita, l’ISTAT parla chiaro: il contribuito alla crescita della domanda interna è nullo, nel secondo trimestre 2014. L’Indicatore dei Consumi Confcommercio di giugno rileva una crescita limitatissima su maggio, appena dello 0,1%. Aumenta dello 0,3% la domanda di beni, ma per i servizi la spesa cala dello 0,2%. Venendo invece ai redditi delle famiglie che stanno a cuore a Renzi, in termini reali procapite in 7 anni la caduta rispetto al precrisi è tra il 13 e il 14%, siamo tornati indietro a livelli da anni Ottanta. E’ effetto di oltre 3 milioni di disoccupati, dell’elevata disoccupazione giovanile, dei mancati pagamenti e della bassa liquidità di cui soffrono autonomi e piccole imprese.
E’ ovvio dunque che, in condizioni di progressiva asfissia quanto a livelli di reddito, Renzi abbia ragione a sottolineare che aver disposto bombole ad ossigeno per alcuni milioni di italiani è stato utile, e in effetti in proporzioni senza precedenti (la copertura del decreto Irpef è stata effettuata per 3 miliardi con tagli di spesa e per 4,5 miliardi con nuove entrate, il bonus vale 12 miliardi su base annua che vanno trovati per confermarlo nel 2015). E’ anche vero, però, che il governo ha scelto di concentrare il più degli sgravi 2014 sul versante Irpef-famiglie meno abbienti considerando un criterio di equità e redistribuzione, non quello dei maggiori effetti a brevi ottenibili in termini di crescita. Una considerevole evidenza di dati e letteratura scientifica accumulati mostra che, se il governo avesse anteposto la crescita, avrebbe ottenuto maggiori effetti quanto più avesse concentrato gli sgravi sulle imprese, abbassando l’IRAP molto più della limatina concessa nel 2014. Per una stessa quantità di sgravi, l’elasticità nell’unità di tempo al rilancio dell’offerta da parte delle imprese è maggiore di quanto sia quella delle famiglie al rilancio della domanda, cioè dei consumi.
Perché? Presto detto. Con livelli di reddito tanto depauperati, le famiglie traducono una minima percentuale del bonus in consumi, perché tornano ad elevare – come è ripreso ad avvenire dal 2013 – la propensione al risparmio. Per tre ragioni. La prima è che ricostituiscono cuscinetti di liquidità per integrare redditi in calo. La seconda – definita in gergo tecnico “equivalenza ricardiana”- è che avendo sperimentato in questi anni forti progressivi aumenti della pretesa fiscale dello Stato, a maggior ragione preservano risorse per fronteggiarla. La terza è che nel frattempo è caduto anche il valore medio del proprio portafoglio patrimoniale, a cominciare soprattutto da ciò che in Italia ne costituisce l’85%, e cioè il mattone di proprietà delle famiglie. Era assolutamente prevedibile, dunque, che il bonus 80 euro si traducesse in pochi consumi aggiuntivi. E molti infatti – anche noi – lo scrivemmo. Ma il governo, sotto elezioni europee, ha preferito la via “sociale” a quella “economica”.
Il problema del nostro paese non è affatto quello di considerare “sociale” ed “economico” in alternativa. Questo lo affermano i fautori del deficit e del debito pubblico a briglia sciolta, incaponendosi in una demagogica quanto popolare campagna contro il presunto “rigore”. Che in italia è solo a carico del contribuente, visto che fatto pari a 100 la pressione fiscale del 2000, qui da noi a oggi è aumentata del 5%, mentre in Germania è scesa del 7% rispetto ad allora: il che spiega perché da noi il Pil reale procapite sia sceso del 6% rispetto al 2000 (e dell’11% rispetto al 2008), mentre quello tedesco è salito del 15% rispetto al 2000. Ma mentre da noi c’è rigore fiscale per famiglie e imprese, il rigore nella spesa pubblica non c’è: continua a crescere, meno di prima in questi tre anni ma continua a salire. ll rigore per lo Stato non c’è: e ancora nel DEF presentato da Renzi ad aprile, dagli 809 miliardi di pesa pubblica 2014 si continua a salire sino a quota 852 nel 2018. Se guardiamo all’ultimo dato reale del 2014, l’aumento della spesa è anzi ben maggiore di quanto si proponesse il DEF: stiamo arrivando a 825 miliardi di spesa pubblica in questo solo 2014, con un più 7,8% sul 2013 e una spesa corrente che da sola aumenta del 3,4% a 535 miliardi..
Se dobbiamo dunque pensare a riprendere con più forza il sentiero della crescita, i problema non è tanto quello di strappare nuovi margini dall’Europa per sforare i tetti di deficit, ma deciderci sul serio a interventi energici per meno imposte su imprese e lavoro, il che significa prendere sul serio la spending review invece di continuare a parlarne e polemizzarne. Se c’è un errore da cui i governo deve guardarsi, è quello di cadere nella trappola “stazionaria” che incombe nelle teste di molti componenti l’attuale maggioranza. Pensando che reddito e occupazione siano una torta data e ferma, ragionano in termini di mera redistribuzione: di qui idee come la staffetta generazionale con prepensionamenti nel settore pubblico, basati sull’idea “levati-tu-che-mi-ci-metto-io”. I sei milioni di occupati che ci mancano per raggiungere il tasso di occupazione tedesco non li costruiamo con onerosi prepensionamenti pubblici e staffette generazionali. E’ un errore, per recuperare reddito e produttività abbiamo bisogno di aver più occupati sia giovani sia anziani, e per fare questo bisogna tagliare molta spesa per realizzare non in deficit tagli alle imposte su impresa e lavoro, e bisogna cambiare l’idea stessa del lavoro e del welfare, rispetto alla mentalità novecentesca che continua a vivere nella nostra preferenza per le politiche passive del lavoro e per la sciocca difesa del lavoro com’è-e-dov’è. Non si tratta di farlo “al posto” del bonus 80 euro. Si tratta di farlo “insieme”, unendo crescita ed equità. E’ questa, per il governo Renzi, la difficile strada obbligata della prossima legge di stabilità.
Ricordando tre cose. Le polemiche contro i gufi – cioè contro chi ha avvisato per tempo degli effetti negativi di spesa e tasse che continuano a salire mentre il PIL arretra – sono senza senso. La cosiddetta “rivincita della politica sui tecnici” rischia di sfociare in un autogol clamoroso: in assenza di manovre correttive, il governo nella prossima legge di stabilità per correggere i saldi e tagliare di almeno 15 miliardi la spesa pubblica – e non bastano! – dovrà più che mai affidarsi all’apparato tecnico del Tesoro e della Ragioneria Generale, che fin d’ora pensa alla tanto rinviata manovra sulle tax expenditures il cui effetto è quello di accrescere gli incassi fiscali. Terzo: il quadro internazionale – crisi russo-ucraina, Medio Oriente, rallentamento BRICS, uscita progressiva dal QE della FED, tutto ciò significa che a domanda interna stagnante si somma meno domanda internazionale del previsto – non rappresenta per nulla un aiuto alla pretesa italiana di avere più comprensione nell’affrontare i propri ritardi. Se quello di oggi è il dato peggiore da 14 anni, come dice l’ISTAT, è perché i mali italiani vengono da un tempo lunghissimo. Scuse, rinvii e propaganda sono da troppo tempo il copione della finanza pubblica nazionale.



















