Eurostagnazione? Ridere della Germania, dimenticando i numeri e prendendosela con l’Istat
E’ una svolta? Presto per dirlo, ma di sicuro il ferragosto di stagnazione dell’intera eurozona è una cattiva notizia. Nel secondo trimestre del 2014, solo Cipro ha registrato un dato congiunturale del PIL – fotografa l’andamento sul trimestre precedente – peggiore di quelli di Germania e Italia, entrambe arretrate dello 0,2% mentre per i ciprioti è stato meno 0,25%. La Francia è rimasta sconsolatamente ferma a quota zero. Ma il peso delle economie dei tre grandi paesi fondatori è tale, che l’intera euroarea nel secondo trimestre ferma a zero la sua moderata crescita che lentamente avanzava da trimestri. Neutralizzando il quasi +0,5% di Olanda e Finlandia, e il risultato lievemente superiore messo a segno da Portogallo e Spagna. Cerchiamo di capire in pochi punti sintetici che cosa significa davvero, e che cosa può comportare. Ma con due premesse. Primo: per me, è una scemenza gioire a gogo del dato tedesco, come molti – politici e osservatori – hanno fatto in Italia. Secondo: per me, è surreale aver ordinato all’Istat di rilasciare ‘ora in poi le stime del PIL italiano non prima degli altri paesi europei, altrimenti si parla male di noi. E’ una cosa da film di Totò: solo che lui “castigava ridendo i Mori” (cit. da Totò sceicco), il dramma è che all’Istat il governo l’ha ordinato sul serio.
Attenti ai dati. Sui social network il dato negativo tedesco ha prodotto in Italia quasi un’esplosione di gioia. Ognuno la pensi come vuole, ma rifletta sui numeri. Il dato di un trimestre non deve far dimenticare che la Germania resta avviata a una crescita stimata 2014 tra l’1,2 e l’1,5%, e la stessa Francia a un moderatissimo +0,4%. L’italia rischia ancora un 2014 col segno meno. Soprattutto, è diverso il pregresso. Il reddito procapite tedesco è cresciuto del 21,5% e quello francese del 9,5% negli ultimi 15 anni, il nostro è arretrato del 3%, e addirittura del 14% nei 7 anni di crisi alle nostre spalle. In Germania anche nel secondo trimestre la domanda interna ha tirato positivamente il PIL insieme agli investimenti pubblici, mentre a mancare è stata la domanda estera e gli investimenti in costruzioni che nel primo trimestre erano stati a livello boom. Da noi la domanda interna latita, le costruzioni sono al lumicino da anni. Andiamoci piano insomma, prima di gioire rispetto a un paese che ha la più bassa disoccupazione da decenni come la Germania. Ne abbiamo, di strada da recuperare. E per colpe tutte nostre. Che, appunto, si vogliono negare gioendo delle frenate altrui.
Il terno di Renzi. Il premier italiano vince però una scommessa. A tutti coloro che da mesi lo invitavano a una manovra correttiva per evitare di sforare il 3% di deficit, visto che la crescita non andava certo verso quel più 0,8% indicato dal governo appena insediato, Renzi rispondeva che non serviva e non serve, perché l’intera eurozona avrebbe dovuto prendere atto che il problema non è l’Italia, ma la frenata europea complessiva. E’ esattamente avvenuto quel che Renzi pensava. E’ ovvio che in questo quadro si rafforza la richiesta italiana al tavolo europeo di un “cambio di passo”, sfruttando davvero e fino in fondo tutti i margini di flessibilità che nel patto di stabilità e di crescita esistono: ed esistono davvero, malgrado quel che dicono gli accaniti antieuro professi.
L’esterno e l’interno. Due fattori di frenata pesano per tutti i membri dell’eurozona, a prescindere cioè dalle magagne nazionali che si sommano (nel nostro caso, tantissime e gravi). Su un fattore l’Europa può fare poco o nulla. Sul secondo, invece, può fare parecchio. L’elemento pressoché ininfluenzabile è il calo rispetto alle attese del commercio internazionale e dunque della domanda estera, che frena i grandi esportatori manifatturieri come Germania e Italia. Purtroppo, è l’effetto di 4 fattori esterni: la crisi russo-ucraina (che raffredda gli investimenti tedeschi assai più di quelli italiani), quella mediorientale, la progressiva diminuzione degli interventi sui mercati della FED, il rallentamento dei paesi emergenti. Ciò invece su cui l’Ue e l’euroarea devono riflettere è la gamba interna che manca ancora: cioè il rafforzamento del commercio intra-europeo. La Germania, a dire il vero, sotto il governo Merkel-Spd sta aumentando consumi e potere d’acquisto ai suoi lavoratori. Dunque ha iniziato a dare un contributo al rilancio dell’export degli altri paesi europei verso la Germania Ma ancora non ci siamo. Tra settembre e dicembre, quando al termine del semestre italiano di presidenza si metterà mano a una riflessione di fondo su fiscal compact e patto di stabilità, potrebbe essere la volta buona per attuare quel che ha detto la settimana scorsa Mario Draghi. E che, purtroppo, è stato equivocato dallo stesso Renzi. Che ha dovuto recuperare andando di corsa a trovarlo.
Cedere sovranità. Il presidente della BCE non ha affatto additato ai paesi “fuori linea” come l’Italia il rischio della Troijka. Ha detto un’altra cosa. E cioè che il coordinamento delle politiche economiche, e non solo di finanza pubblica, dovrebbe fare per tutti un passo avanti. Ovviamente, l’emergenza è maggiore per chi sta più indietro, come noi. Ma immaginare da una parte un bollino europeo “rafforzato” – ex ante ed ex post – alle riforme economiche prioritarie per i paesi più arretrati (ripetiamo: come noi), e dall’altra un accordo complessivo per riequilibrare le bilance dei pagamenti attraverso consumi più sostenuti e dunque flussi di commercio intra-Ue più vigorosi, questo è l’esempio di una complessiva “cessione di sovranità comune”, assai diversa dal commissariamento di chi di suo continua a spendere e tassare troppo, e così facendo si fa male da solo (ripetiamo ancora: come noi). La commissione Juncker non è ancora formata, il 30 agosto si entra nel vivo dei nomi da scegliere. Ma più dei nomi, conta una comune volontà politica di registrare un passo avanti nei meccanismi cooperativi. Altrimenti inutile illudersi: l’euro da solo, come era scontato, non risolve ma accentua le asimmetrie delle politiche dei diversi paesi membri. E alla lunga un euro così salta, smontato dalle pressioni dal basso espresse nelle urne d chi sta peggio. Chi qui scrive non è affatto convinto che si vada nella direzione di un maggior coordinamento europeo: i primi a non volerlo sono i governi che pure si dicono più europeisti, come è accaduto con Renzi che suol Ft ha riservato a Draghi parole durissime (ma lo stesso vale in Francia con Hollande). E aggiungo anche di essere molto scettico, sul come il coordinamento avverrebbe: servirebbero drastici abbattimenti delle barriere nazionali che separano i mercati del lavoro, dei beni e dei servizi, quando partiti e sindacati da destra a sinistra sono invece tutti corrivi con la difesa delle regolamentazioni autarchiche. Detto questo, se i sedicenti europeisti non vanno avanti sulla via delle cessioni concordate di sovranità, le contraddizioni europee non potranno che aggravarsi.
La BCE. La stagnazione europea non è solo una cattiva notizia per la politica, e un invito a mettere in campo la volontà comune di novità serie. Anche per Mario Draghi e l’Eurotower è un segnale che invita a nuove decisioni. La BCE ha il merito di aver salvato l’euro con le aste di liquidità straordinarie prima e le OMT poi, lo scudo di ultima istanza che mai è stato necessario sfoderare. Un terzo contributo straordinario l’ha dato nel negoziato per accelerare l’unione bancaria. E un quarto con le recenti decisioni del tasso negativo di deposito per le banche a Francoforte, con le nuove aste di liquidità che partiranno in autunno finalizzate al credito delle PMI, e con la disponibilità futura – in corso di studio – a rilevare pacchetti di crediti cartolarizzati (utili per sfoltire le sofferenze bancarie). Ma diciamola tutta: la deflazione ormai conclamata nei paesi eurodeboli spinge l’andamento dei prezzi dell’intera eurozona sempre più lontano da quell’obiettivo del +2% dichiarato programmaticamente dalla Bce come dato di riferimento. Continuare a dire che non ci sono rischi di deflazione è impossibile, perché la deflazione è tra noi. E anche Draghi, dunque, ha di che riflettere seriamente. Non tutte le deflazioni sono uguali, e la deflazione non è affatto detto che sia un male in sé 8come pensano i keynesiani). Vi sono esempi nella storia numerosi esempi di deflazione “virtuosa”. Quando è l’effetto dell’afflosciarsi di bolle mobiliari o immobiliari, per esempio. Oppure pensate alla Svizzera, che dal 2010 ha avuto prima inflazione inferiore all’1% annuo e poi 2 anni di deflazione, ma con un’economia che continuava a crescere intorno al 2% e la disoccupazione di poco superiore al 3%. Caso diverso è il nostro: perché la componente nominale del Pil depressa mentre quella reale stagna o recede non fa che peggiorare la situazione. E allora è anche in prima battuta la BCE che può e deve agire come titolare della politica monetaria, perché la deflazione “non virtuosa” cambi segno.











