25
Set
2015

Il sistema dei trasporti in Italia tra arbitrii e segreti—di Gemma Mantovani

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gemma Mantovani.

Non solo trasporti: sarebbe stato il sottotitolo più scontato degli ultimi 20 anni che, infatti, il bel libro L’arbitrio del principe: sperperi e abusi nel settore dei trasporti, che fare? di Marco Ponti, Stefano Moroni e Francesco Ramella” (IBL Libri 2015), non ha. Ma è per far capire che si tratta di un libro che ha più chiavi di lettura: ci permette con chiarezza e semplicità di viaggiare nei meandri tecnici, economico-finanziari del sistema dei trasporti italiano, ma la destinazione finale, per dirla con le parole della prefazione di Carlo Cottarelli “Sono i principi che dovrebbero guidare l’azione della spesa pubblica (…) Quei principi ci dovrebbero dire quale è il confine appropriato tra area di azione del settore pubblico e area di azione del settore privato e quali sono i limiti alla discrezionalità che chi gestisce la cosa pubblica dovrebbe rispettare se si vogliono ridurre gli sprechi”. Read More

22
Set
2015

#PropertyIsFreedom: salviamo il diritto di proprietà

Nel nostro sistema legale, nessuno può dire se una legge nuova sarà abrogata tra un anno o un mese o un giorno (…). Ne risulta che, se non si tiene conto delle ambiguità del testo, si è sempre ‘certi’ per quanto riguarda il contenuto letterale di ogni norma in un dato momento, ma non si è mai certi che domani ci sarà ancora la stessa regola di oggi.

La citazione è di Bruno Leoni, da “Freedom and the law”, ed è molto attuale. Pensiamo agli investimenti esteri: pochi, pochissimi, in Italia. Se consultate i principali studi in materia, scoprirete che a far paura agli investitori non sono (solo) le tasse o la burocrazia. No: il problema dell’Italia è soprattutto l’incertezza: le tasse che cambiano nome e aliquote, le regole modificate in corso d’opera, le azioni incontrollate della magistratura, gli espropri sine titulo. Segno di uno Stato che non può, o non vuole, tutelare il diritto più importante che c’è: la proprietà privata.

Si pensi al Teatro Valle, una delle tante note dolenti della triste melodia che accompagna la tutela della proprietà in Italia. Emblematica, perché racconta di una gestione pubblica disastrosa, sostituita non da un ordinato processo di valorizzazione e privatizzazione, come sarebbe lecito aspettarsi, bensì da un’occupazione che dura da anni col beneplacito dell’intellighenzia sessantottina e non solo.

Chi si è occupato del Valle si è spesso soffermato sul fatto che non paghi tasse e bollette o che si tratti di un bene sottoposto a vincoli storico-monumentali. Tutto giusto, ma a ben vedere l’aspetto più grave è che uno Stato non riesca a far rispettare, all’interno della propria capitale, il più elementare dei diritti di proprietà.

Un caso, quest’ultimo, che ricorda per molti aspetti quello delle occupazioni abusive di case popolari. Basti pensare a Milano, ormai da anni teatro di un’emergenza che, come per il Valle, vede l’abusivismo farsi beffe delle regole. Gli occupanti, del resto, hanno buon gioco a lamentare la lentezza della burocrazia comunale, che impiega spesso anni per ristrutturare e riassegnare gli alloggi sfitti. Anche in questo caso, le istituzioni perdono due volte: quando non riescono a gestire l’emergenza abitativa e poi quando, una volta acclarato il fallimento delle proprie politiche, si dimostrano incapaci di far rispettare i diritti di proprietà. Uno Stato elefantiaco, che nel fare troppe cose finisce per farle tutte male. Per colpa di chi? Difficile attribuire responsabilità precise, ma certamente la legislazione in materia non aiuta. Si pensi all’articolo 54 del codice penale, che è stato utilizzato come scriminante per l’occupazione abusiva di case e appartamenti per ragioni di solidarietà sociale. O alla legge-delega 67/2014, con la quale il governo in carica ha di fatto depenalizzato l’occupazione.

Ma l’indolenza non è il male più grave. Quando ad essa sostituiscono pretese di onniscienza e interventismi iatrogeni, i governi riescono spesso a fare ancora di peggio. Basti pensare alle espropriazioni senza titolo, dichiarate illegittime in diverse occasione dall’ECHR senza che l’introduzione della c.d. “acquisizione sanante”, nel 2011, abbia reso la normativa italiana in linea con quanto più volte richiestoci. O alle regole sulla determinazione dell’indennizzo da espropriazione, che fino a pochi anni fa facevano leva su un supposto “interesse allo sviluppo economico- sociale” per restituire ai privati molto meno del valore di mercato dei beni espropriati.

Questi e molti altri sono gli esempi di uno Stato che calpesta i diritti di proprietà, trattandoci come sudditi, e che d’altra parte non è in grado di farlo rispettare nemmeno dai suoi consociati. Ecco perché è da qui, dal diritto di proprietà, che bisogna ripartire per tornare ad essere Cittadini.

Twitter: @glmannheimer

21
Set
2015

Il carisma Tsipras: la logica non è la coerenza, è la coerenza di voler rivincere l’unica logica

Capisco l’esercito di astenuti in Grecia. Non ti viene la voglia di votare per la terza volta in 9 mesi, dopo aver dato la vittoria a gennaio a chi giurava di ribaltare le richieste Ue, dopo averla ridata a chi dal governo ti ha riportato a un referendum per respingere le richieste Ue, ma alla fine le richieste Ue le ha dovute e volute firmare, moderatamente attenuate ma sempre durissime, e comunque molto più dure di quelle che la Grecia avrebbe ottenuto se non avesse dato retta a Tsipras all’inizio. Ma che cosa significa davvero, la neovittoria netta di Tsipras? Per favore, ora non commettiamo l’errore di considerarlo un riformista socialdemocratico, perché non lo è affatto. Ma andiamo per ordine.

Non ci sarà dunque il governo di solidarietà nazionale tra Syriza e Nea Demokratia, l’esito che l’Europa sperava. Perché va bene che Tsipras ha dovuto cambiare radicalmente idea ed è diventato inopinatamente realista, invece di inseguire l’avventurista piano B di Varoufakis che voleva uscire dall’euro arrestando il presidente della banca centrale ad Atene. Ma l’Europa avrebbe preferito  se ora Tsipras avesse dovuto condividere la responsabilità di governo con chi, come Meimarakis di Nuova Democrazia, esplicitamente dice che l’unica cosa che la Grecia deve fare è rispettare le intese con l’Europa, e pedalare ventre a terra. Al contrario, Syriza e la formaziocina di destra nazionalista con cui era spregiudicatamente alleata riottengono la maggioranza, sia pur risicata. Tsipras ha detto in campagna elettorale – l’unica cosa che ha detto, praticamente, è stato lontanissimo da ogni impregno concreto – che non avrebbe accettato mai un governo di convergenza. E i greci gli hanno dato ragione. Forse c’è della razionalità, in questo. Se Tsipras ritira la corda – come credo – almeno i greci si sono riservati per il dopo un’alternativa più moderata.

Per l’impatto del neo vittorioso Tsipras, distinguiamo i due piani: il primo è quello della Grecia in Europa, il secondo quello politico della sinistra.

Ai mercati il risultato non dispiace, Tsipras ha soprattutto vinto la sfida alla sua sinistra, accettando che un terzo dei membri dell’organo nazionale del suo partito provassero a sconfiggerlo alle elezioni: col risultato che non ottengono neanche il 3% e restano fuiori dal parlamento. Detto questo, molti elementi dicono che la nuova vittoria di Tsipras non significhi affatto che il memorandum d’intesa, tra Ue e Bce da una parte e Grecia dall’altra, sia a questo punto una Bibbia indiscutibile.

Nel solo mese di ottobre, ricorda giustamente l’ex direttore del FMI Andrea Montanino , il memorandum tra Grecia creditori prevede 55 nuovi atti legislativi e regolatori per cominciare ad attuare le riforme a cui Tsipras suo malgrado si è impegnato: pensioni, sanità, fisco, creazione di un’autorità indipendente sulle entrate, liberalizzazioni di molti settori e del turismo, riforma delle professioni. Quanto alle privatizzazioni, su alcune – per esempio quelle elettriche – Tsipras non ha mai abbandonato la sua contrarietà. E comunque va detto: l’intesa sulle privatizzazioni NON è assolutamente credibile. Dal 2011 a oggi il fondo ellenico responsabile delle cessioni pubbliche – si chiama HRADF, Hellenic Republic Asset Development Fund – ha avviato privatizzazioni per circa 7 miliardi, pari al 4% del PIL greco. Pensare davvero che entro il 2018 la Grecia privatizzi per 50 miliardi, cioè per un ammontare pari al 26% del suo PIL attuale, ha dell’assoluto inverosimile, quand’anche ci fossero davvero asset residui di quel valore. E’ come se all’Italia si chiedessero cessioni pubbliche per 400 miliardi: cedendo tutti i mattoni pubblici si potrebbe fare, ma capite al volo che non lo farebbe nessuno.

Infine, non dimenticate che la firma a fine luglio dell’intesa tra Tsipras e i creditori continua a veder incombere su di sé una appuntita spada di Damocle: l’abbattimento ulteriore del debito greco, chiesto da Tsipras, negato dalla Ue, e sostenuto dalla scorsa primavera però anche dal FMI ( tanto, i miliardi la Grecia li deve ormai a Ue, ai suoi paesi membri e BCE, non al Fondo). La firma di allora fu apposta sulla base di un patto di fiducia: Tsipras ci faccia vedere che ora fa sul serio, e più avanti parleremo non di un vero taglio del debito, ma di allungarne ancor più le scadenze e di abbatterne ulteriormente gli interessi.

Chi qui scrive è convinto che l’abbattimento richiesto dalla Grecia – il secondo dopo quello del 2012, che vide i creditori privati perdere tra il 50 e il 60% in valore dei loro prestiti alla Grecia – sia tecnicamente giusto, visti i poveri fondamentali del paese. E la pensano così moltissimi economisti, non solo keynesiani o ostili all’euro. C’è da scommettere che la nuova chiara vittoria di Tsipras lo porterà a rilanciare sull’haircut del debito: è meglio che a Berlino si preparino. E che cominciamo anche noi italiani a fare il conto di quanto perderemmo.

Quanto alla sinistra, ne esce con le ossa rotte chi ha puntato in mezza Europa sull’antagonismo di Varoufakis e di Unione Popolare, la neoformazione greca nata a sinistra gridando “traditore” a Tsipras. Ma già si vedono le giravolte: a casa nostra Vendola ieri sera dichiarava che in Grecia vince la sinistra che non si arrende. Come no, Tsipras ha firmato il contrario di quel che per due volte alle urne aveva giurato di non volere.

Detto questo, allo stesso modo è del tutto improprio dire che sia una vittoria netta del riformismo socialdemocratico. Non lo è: è una conferma delle molte facce contraddittorie che può assumere il neoradicalismo, rispetto ai tradizionali partiti socialisti travolti dall’eurocrisi. Il carisma personale porta a vincere e rivincere lo stesso leader, a distanza di pochi mesi e su scelte opposte, legnando sia il vecchio Pasok sia i neoantagonisti. Sarebbe un errore pensare oggi che Tsipras sia la reincarnazione greca del tedesco Schroeder, che rimise i piedi la Germania con riforme impopolari del welfare, tagliando spesa e tasse, e rilanciando la produttività con grandi intese aziendali in cui si tagliava il salario per difendere l’occupazione.  Tsipras si è liberato degli oppositori interni e ora può ritirare la corda. Anche l’Italia ne sa qualcosa, di come la leadership carismatica a sinistra sia qualcosa di molto diverso da una sana tradizione socialdemocratica, e a destra sia del tutto aliena da una sana tradizione liberale. Da chi vince per carisma è legittimo attendersi che possa fare e rifare l’esatto opposto di ciò che ha detto. Perché nel carisma la logica non è la coerenza, ma è la coerenza di voler vincere l’unica logica.

 

21
Set
2015

#PropertyIsFreedom: perché difendere la proprietà privata

La nostra Costituzione stabilisce che la proprietà privata “è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurare la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”. Si tratta, come noto, di una definizione radicalmente diversa da quella di origine napoleonica (che individuava nella proprietà un diritto assoluto, circoscrivibile soltanto dal rispetto del principio di legalità e del rule of law).

Se la previsione di limiti determinati dalla legge determina già di per sé una compressione del diritto di proprietà, è tuttavia il riferimento alla funzione sociale a costituire la base della maggior parte degli ostacoli che si frappongono al suo pieno esercizio. Ciò, se non altro, nella misura in cui la dottrina maggioritaria interpreta la funzione sociale come “la ragione stessa per la quale il diritto di proprietà è stato attribuito a un certo soggetto” e intravede di conseguenza nella funzionalizzazione della proprietà un principio generale della materia, che deve operare sempre, anche in assenza di espliciti richiami legislativi.

Nell’impossibilità di discernere nettamente cause e conseguenze, è evidente che a tale filone dottrinale si accompagni, nel nostro Paese, una tendenza culturale a diffidare dell’importanza – economica, ma non solo – della certezza del diritto che una piena tutela della proprietà privata assicurerebbe. Non è un caso, in questo senso, che due fra i più importanti indicatori di libertà economica al mondo (Economic Freedom of the World Report e Index of Economic Freedom) assegnino all’Italia punteggi molto bassi per quanto concerne tutela della proprietà e rispetto del principio di legalità.

Negli ultimi anni, in questo senso, è emerso nel dibattito pubblico un nuovo diritto sociale, denominato “diritto alla casa”, che secondo diverse pronunce giurisprudenziali dovrebbe essere considerato alla stregua di un diritto costituzionale, pur non essendovi menzionato espressamente. Tale dibattito, alimentato dal riemergere di una nuova “questione abitativa”, ha condotto la giurisprudenza a configurare il “diritto alla casa” sullo stesso piano del diritto di proprietà, facendo leva sulla funzionalizzazione di quest’ultimo per arrivare a interrogarsi su quale fosse il corretto bilanciamento fra i due.

Non può sorprendere che oggi, in Italia, il diritto di proprietà sia minacciato da più parti. Le ragioni sono scritte nella Costituzione e nei giornali scientifici recenti e meno recenti, ma si trovano anche nelle chiacchiere al bar e nei dibattiti sui blog. Purtroppo, questa pericolosa tendenza comporta altrettanto notevoli conseguenze sul piano applicativo. Il governo in carica, pochi mesi fa, ha depenalizzato il reato di occupazione abusiva e i tribunali non perdono occasione per convalidare espropri sine titulo e occupazioni in nome del “diritto alla casa”.

L’argomento economico/utilitaristico dovrebbe essere sufficiente per difendere la proprietà, ma non basta. Bisogna tornare a interessarsi delle ragioni sociali, e quindi giuridiche, e di quelle etiche che rendono la difesa del diritto di proprietà una questione prioritaria e mai scontata.

Twitter: @glmannheimer

20
Set
2015

Musei e servizi pubblici, serve una riforma vera dei diritti sindacali

E’ risolutivo ed evitarà nuove chiusure del Colosseo e di Pompei, disporre che i musei siano servizi pubblici essenziali come ha deciso il governo venerdì? La risposta è : dopo anni di polemiche a vuoto la decisione di Renzi e Franceschini  governo è apprezzabile, anche per tempestività come a dire che la misura è colma; ma onestamente bisogna dire che no, la decisione non eviterà il problema. Sindacati a Camusso, che si oppongono a muso duro, restano con molte frecce al loro arco. Perché diciamolo chiaro: da anni queste cose avvengono, perché da anni che non si adottano le misure necessarie. Ora che i musei diventano servizi pubblici essenziali, è bene non dimenticare che molte volte interruzioni disastrose avvengono proprio a cominciare da uno dei più essenziali servizi, il trasporto pubblico locale.

A Roma, nello scorso luglio, 24 giorni consecutivi di sciopero bianco di un paio di sindacatini dell’ATAC hanno messo in ginocchio la metro, con disagi pazzeschi per complessivamente milioni di cittadini e turisti, prima che il prefetto decidesse la precettazione. Ed è rarissimo che ci siano procure come quella di Torre Annunziata che, a fronte della chiusura per assemblea sindacale degli scavi di Pompei a fine luglio, ha aperto un fascicolo per interruzione di pubblico servizio ex articolo 340 del codice penale, riservandosi inoltre anche l’ipotesi di reati diversi, come il danno erariale. E’ rarissimo perché in Italia, in materia di diritti sindacali, la giurisprudenza cumulata è molto a favore dei sindacati. Basti pensare che nel nostro codice penale l’articolo 340 prevede pene di reclusione da 6 mesi a 1 anno per chi partecipa all’interruzione e da 1 a 3 anni per chi la organizza e ne è capo, ma se l’interruzione di pubblico servizio avviene a opera di un’impresa e non di lavoratori sindacalizzati, ecco che l’articolo 331 del codice penale alza le pene per gli organizzatori da 3 a 7 anni.

Se esaminiamo quanto è avvenuto ieri al Colosseo alla luce delle norme vigenti, l’assemblea sindacale era legittima, richiesta e autorizzata nei tempi dovuti. Ecco perché la Camusso può rispondere a brutto muso a Renzi che non sta né in cielo né in terra tacciare il sindacato di essere nemico dell’Italia. Temo di dovervi dire che non cambietà molto con l’intervento preventivo dell’Autorità garante agli scioperi, che dovrà ora essere investita anche delle assemblee sindacali nei musei dopo il decreto governativo di venerdì. Sta già oggi ai dirigenti pubblici responsabili, a fronte di una richiesta d’assemblea, esaminare se l’assemblea configuri l’interruzione del servizio oppure no. Ma il dirigente pubblico – bneanche l’Autorità garante – non può chiedere preventivamente quanti custodi partecipino all’assemblea, per disporre eventualmente un servizio di vigilanza sostitutivo e temporaneo al fine di consentire l’accesso ai visitatori: perché sarebbe un comportamento antisindacale. La chiusura di Pompei, a luglio, e la decisione del soprintendente di aprire lui personalmente i cancelli ai turisti, avvenne proprio perché il soprintendente era convinto di aver raggiunto coi sindacatini convocatori dell’assemblea un impegno a evitare la chiusura, ma l’impegbnio poteva essere solo verbale e senza conseguenze, perché di fatto poi se all’assemblea va un certo numero di custodi chiudere bidogna.

Ed eccoci dunque alla già nota conclusione che ripetiamo, invano, da anni. In materia di esercizio dei diritti sindacali nei servizi pubblici, come in materia di sciopero nello stesso ambito, serve una vera e propri riforma di sistema, a modifica della legge 146 del 1990 e dei relativi annessi codici di autoregolamentazione, di settore e aziendali. Come si propongono di fare disegni di legge depositati in Senato: tra i più significativi uno di Pietro Ichino del Pd, l’altro di Maurizio Sacconi di Ncd.

Serve scrivere in legge alcune cose fondamentali.

In materia di assemblee sindacali, occorre prevedere che se esse si tengono in orario di lavoro non possano configurare l’interruzione del servizio pubblico. Finché non sarà tassativamente così, quand’anche ci fosse un pm che voglia, come a Torre Annunziata, procedere per interruzione di pubblico servizio a fronte di chiusure come quelle del Colosseo e di Pompei, dovrebbe dimostrare che gli organizzatori dell’assemblea mirassero dolosamente all’interruzione del servizio, e che i singoli partecipanti ne fossero consapevoli. E dovrebbe provare che non incorrano gli estremi dell’articolo 51 del codice penale, per cui un fatto anche illecito non è punibile se posto in essere – in questo caso – in esercizio delle libertà sindacali e dell’articolo 40 della Costituzione. Resterà così anche dopo il decreto di venerdì.

Quanto allo sciopero, nei servizi pubblici essenziali occorre adottare un criterio rigoroso della rappresentanza minima sindacale di chi li può proclamare – Ichino propone il 50% dei lavoratori del settore, il sindacato naturalmente è contrario – e un referendum preventivo tra i lavoratori, che approvino la proposta come condizione perché lo sciopero si possa tenere. E perché il sì eventuale sia valido la percentuale minima dei favorevoli non deve essere troppo bassa, per capirlo basta dare un’occhiata ai 17 paesi europei su 28 in cui il voto dei lavoratori è previsto.

Ecco, di questo c’è bisogno. Non di meno. I partiti – la destra per non essere accusata di antisindacalismo, la sinistra perché col sindacalismo era intrecciata – hanno sempre esitato a toccare queste materie, né hanno mai attuato la Costituzione con una legge che preveda democrazia interna e piena trasparenza economico-finanziaria dei sindacati. E’ venuto da tempo il momento di farlo. Renzi non si tira indietro dallo scontro coi sindacati. Bene, ora per favore, la politica lo faccia davvero. Basta polemiche frontali a cui seguono misure non risolutive, perché altrimenti servono solo a salire nei sondaggi ma il problema resta e le figuracce internazionali continuano.

19
Set
2015

La burocrate e le lavandaie—di Uliva Foà

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Uliva Foà.

Me la immagino la funzionaria della provincia che ha riesumato dal Medio Evo, l’inverosimile balzello. Dopo il sacrificio di una vita sprecata, fra noia e scartoffie, a fare un lavoro il cui scopo è procurarsi abbastanza gettito fiscale da garantirsi uno stipendio, viene gettata via, senza un minimo di riconoscenza, senza una festa con i colleghi, un orologio da far vedere ai nipotini. Fra pochi giorni diventerà una qualsiasi, fra i tanti dipendenti della Regione. Tutto da rifare, in un ambiente nuovo, in cerca, da capo, dei contatti “giusti”. Read More

18
Set
2015

#PropertyIsFreedom: a cosa serve la proprietà privata

C’è una bellissima foto, di metà ‘900 o giù di lì, che ritrae il muro che separa il Messico dagli Stati Uniti. Da una parte c’é Nogales (Sonora, Messico); dall’altra la gemella Nogales (Arizona, USA). Da una parte ci sono perlopiù baracche malandate; dall’altra signorili edifici in mattoni. Da una parte un carretto che trasporta legname; dall’altra ordinate fila di automobili. Cos’ha reso Nogales (Arizona, USA) così diversa da Nogales (Sonora, Messico)?

È questa la domanda da cui prende le mosse un grandioso saggio di due economisti, Daron Acemoglu e James Robinson, significativamente intitolato “Why Nations Fail”. Perché alcune società hanno successo e altre no? L’esempio delle due Nogales è indicativo (come lo sarebbe quello delle due Coree) perché nessuno potrebbe tirare in ballo ragioni legate alla geografia, alle risorse naturali o ai tratti culturali dei loro abitanti (se non in senso molto lato).

Secondo Acemoglu e Robinson, ciò che distingue le società e determina la loro evoluzione sono invece le istituzioni. Verso il successo, se sono istituzioni inclusive, cioè se premiano innovazione, imprenditorialità e pluralità politica; verso l’insuccesso, se sono istituzioni estrattive, cioè se il loro obiettivo primario è il mantenimento del potere, e quindi si rinchiudono in politiche protezioniste o illiberali, caricando di tasse e vincoli i propri cittadini e spremendone le migliori energie per fini personali o destinati al benessere di una ristretta élite. Nogales (Arizona, USA) ha avuto la fortuna di dipendere da istituzioni che le hanno permesso di prosperare; Nogales (Sonora, Messico), viceversa, è stata preda di istituzioni estrattive, che le hanno impedito di farlo, per molto tempo.

Si può essere d’accordo o meno con la tesi di Acemoglu e Robinson, ma un dato merita di essere sottolineato. In tutti gli esempi storici di società che hanno abbracciato istituzioni inclusive, a partire dalla Glorious Revolution sino ad oggi, c’è un elemento costante: la tutela della proprietà privata, intesa sia in senso negativo (cioè come astensione dei poteri pubblici da interventi diretti sulla proprietà) sia in senso positivo (intesa come tutela dello Stato dalle aggressioni alla proprietà commesse da privati verso altri privati).

Senza una tutela rigorosa della proprietà, il sistema dei prezzi, la migliore spia possibile per comprendere le esigenze e i bisogni delle persone, viene modificato unilateralmente dai poteri pubblici e finisce per andare in tilt, dando luogo a bolle finanziarie, espropriazioni di massa e rapine fiscali. Non solo. Senza una tutela rigorosa della proprietà, diviene impossibile valutare correttamente gli incentivi e i disincentivi, i premi e le punizioni che offrono le diverse opportunità economiche. A Nogales (Sonora, Messico), fino a non molto tempo fa, più dell’80% dei guadagni di ciascuno finiva nelle casse dello Stato. Né vi era alcun tipo di tutela contro espropriazioni e occupazioni abusive. Sostanzialmente, vigeva la legge del più forte. Che incentivo poteva avere un imprenditore a innovare o investire? O un lavoratore a migliorare la propria produttività?

Un grande liberale del diciannovesimo secolo, Antonio Rosmini, descrisse la proprietà come una “sfera attorno alla persona”: un fortino di libertà sottratto al potere, da difendere dinanzi ad ogni pretesa di dominio. In fondo, la proprietà non è altro che la forma più efficace di tutela delle minoranze: la “sfera” protegge la più piccola minoranza che ci sia, cioè l’individuo, dall’invadenza (talvolta tirannica) della maggioranza, perlomeno nei suoi affari privati. E non è forse la tutela delle minoranze ciò che rende tanto speciali le nostre democrazie? Ecco perché la proprietà privata non è soltanto l’ingrediente basilare del progresso economico, ma soprattutto il cardine di qualunque società che voglia definirsi libera.

Twitter: @glmannheimer

15
Set
2015

A che punto è il Ddl Concorrenza

Non certo indenne – anzi, piuttosto malandata – ma la legge annuale sulla concorrenza è stata approvata in commissione alla Camera e il prossimo 21 settembre sbarcherà in Aula. Qualche mese fa, avevamo analizzato la bozza del provvedimento presentata dal Governo al Parlamento. Oggi, al termine del passaggio in commissione, ci sembra opportuno rifarlo, limitandoci, come allora, a un’analisi delle disposizioni di maggior rilievo presenti.

Avvocati

È stata confermata la disposizione secondo cui gli studi legali potranno essere (parzialmente) aperti a soci di capitale, che potranno detenere fino al 30% della compagine sociale. Due terzi della società dovranno comunque essere composti da professionisti. E nonostante alcuni rappresentanti delle associazioni di categoria e degli ordini non abbiano perso tempo per evocare lo spauracchio dei “poteri forti” che si appropriano della libertà dei professionisti, si tratta di una novità che, ampliando le possibilità e le scelte (anche di management) degli avvocati, è senz’altro positiva.

È saltata, invece, l’apertura alla possibilità di validare i passaggi di proprietà di immobili non residenziali (box, negozi, ecc.) sotto i centomila Euro, che resta esclusiva dei notai.

Notai

Lo stop al divieto di pubblicità e al riferimento al reddito minimo di 50.000 euro triennali è una buona notizia, ma il fortino resta praticamente inespugnabile. Scompare, in primo luogo, la già accennata conferma dell’esclusiva sulle compravendite di immobili non residenziali sotto i centomila euro, che era più un’estensione dell’esclusiva agli avvocati che non una vera liberalizzazione. D’altra parte, l’emendamento con cui i relatori hanno stabilito il passaggio dei notai da uno ogni 7mila abitanti a uno ogni 5mila, pur costituendo un aumento quantitativo, non va a intaccare il numero chiuso. Parlare di “liberalizzazione”, in questo senso, ha un suono beffardo: un aumento “indotto” di concorrenzialità è certamente positivo, ma ogni nuovo provvedimento che non abroghi il numero chiuso (previsto da una legge del 1913!) è pur sempre una conferma formale che a giudizio del Parlamento il settore abbia bisogno di ritocchi e non di rottamazioni.

Trasporti

Per quanto riguarda i servizi di linea su gomma, rotaia o via mare, è stata prevista una “carta unica dei servizi” e “misure a tutela degli utenti”, tra cui l’obbligo di rendere note ai passeggeri, entro la conclusione del singolo servizio di trasporto usufruito, le modalità per accedere alla carta dei servizi, in particolare le ipotesi che danno loro diritto a rimborsi o indennizzi. Poco, anzi nulla, a che vedere con le liberalizzazioni.

Farmacie

Le farmacie sono state aperte alle società di capitali, pertanto anche chi non è farmacista potrà finalmente acquistare o investire in una farmacia. L’emendamento approvato in commissione Finanze prevede però che, per evitare conflitti d’interesse, non possano comparire tra i soci medici, produttori di farmaci e informatori scientifici. Eliminato anche il tetto che impediva di essere titolari di più di quattro farmacie. Confermato, invece, il divieto di vendita dei farmaci di fascia C nelle parafarmacie e nei corner della GDO: una delle assenze più dibattute del provvedimento, non tanto per il suo peso economico quanto per il valore simbolico di un limite che appare vetusto e immotivato.

Assicurazioni e fondi pensione 

Riprendendo quanto già previsto dal decreto Destinazione Italia di fine 2013, il governo aveva previsto l’obbligo per le compagnie di praticare sconti significativi a chi accettasse una serie di condizioni. Tuttavia, il testo è uscito ridimensionato dal passaggio in commissione (sul punto si rimanda al puntuale intervento di Paolo Belardinelli). Stralciata dalla bozza, invece, la condizione di far riparare l’auto in carrozzerie convenzionate, dopo le molte proteste dei carrozzieri.

Passo indietro per i fondi pensione. La bozza originaria prevedeva la fine dei vincoli dettati dai contratti di lavoro nazionali, stabilendo la piena portabilità dei fondi. Il testo uscito dalla commissione, tuttavia, ha stralciato questa parte del provvedimento, facendo leva su un non meglio precisato obiettivo di “aumentare l’efficienza delle forme pensionistiche complementari collettive”. Dal punto di vista della concorrenza nel settore, lo ribadiamo, è un passo indietro.

Energia 

La tanto attesa piena liberalizzazione dei prezzi dell’energia è posta sub judice. L’addio definitivo al mercato tutelato, previsto per il 2018, è stato subordinato a un rapporto che l’Authority dell’energia dovrà consegnare al MISE entro l’aprile del 2017. E basterà il mancato rispetto solamente di una delle cinque condizioni imposte dal provvedimento (che comunque rispecchiano obblighi previsti dalle direttive Ue) per il passaggio da un operatore all’altro perché la fine della “maggior tutela” slitti di altri sei mesi a partire dal gennaio 2018. Verrà adottato già da subito, tuttavia, un sistema di confronto dei prezzi che possa agevolare i consumatori nei prossimi due anni, mentre le principali società attive nel mercato dell’energia elettrica e del gas dovranno prevedere almeno un’offerta a prezzo fisso e una a prezzo variabile, così da consentire la confrontabilità dei propri servizi agli utenti.

Banche 

Il provvedimento è rimasto pressoché invariato rispetto al testo presentato a suo tempo dal governo, perciò si rimanda all’analisi di Pietro Monsurrò.

Comunicazioni

Rispetto al testo licenziato dal governo, non è cambiato molto: rimangono pertanto del tutto attuali le criticità individuate a suo tempo da Massimiliano Trovato. Fra le novità, le spese da sostenere per cambiare operatore telefonico e recedere dal contratto dovranno essere note al consumatore già al momento dell’offerta e non solo alla conclusione del contratto. Anche qui, poco a che vedere con le liberalizzazioni, se non per l’apertura alla possibilità che i biglietti di mostre, spettacoli ed eventi sportivi siano pagati con credito telefonico, in ottemperanza a una direttiva europea di prossimo recepimento: un piccolissimo passo in avanti verso la disintermediazione delle banche.

Servizi postali

Il Ddl liberalizza il servizio di notifica a mezzo postale degli atti giudiziari e delle violazioni al Codice della strada. In questo senso, pertanto, la novità è da accogliere certamente con favore: un privilegio – piccolo, ma non insignificante – è stato rimosso.

Twitter: @glmannheimer

14
Set
2015

Profughi: la Germania non aveva capito, ora è lei a dire che i profughi son troppi

Le ultime convulse giornate sul fronte europeo dei profughi offrono una lezione chiara. Non è un fenomeno gestibile con le svolte unilaterali germaniche. E Berlino infatti è stata costretta alla retromarcia, annunciando controlli alle frontiere e blocco dei flussi. Troppi profughi, dice Berlino. Che punta il dito contro Bruxelles. Tanto che il presidente della Commissione Europea Juncker ha dovuto subito, allarmato, chiamare la Merkel. Ma il punto è un altro. Di colpe europee, indifferenze e ritardi nel comprendere il fenomeno e adottare misure e mezzi adeguate, l’Italia ne sa qualcosa da anni. Ma è evidente che Berlino ha potentemente sottovalutato quello che sarebbe stata l’inevitabile conseguenza immediata, all’annuncio della svolta unilaterale tedesca pro profughi.

Alla luce di quanto sta accadendo, oggi al Consiglio Europeo dei ministri dell’Interno la partita non è quella di recepire la ripartizione nazionale dei 120mila profughi aggiuntivi ai primi 32 mila decisi a fine giugno. Ma di verificare immediatamente la disponibilità a una decisione nuova e diversa. Senza un accordo su di una struttura comune e concordata, volta ad affrontare il fenomeno nella sua intera complessità, dalle frontiere esterne europee per i paesi che le hanno come l’Italia, per poi assicurare flussi ordinati attraverso i paesi europei di transito fino a quelli destinatari, non risulta semplicemente possibile gestire ordinatamente un flusso di queste proporzioni: un milione di persone verso la sola Germania, ha detto il vicepremier tedesco Gabriel stamane.

Nel breve volgere di due settimane dall’annuncio unilaterale tedesco, la Germania si è trovata con l’esplosione di un grande problema a Oriente – non solo con l’Ungheria ma con tutti e quattro i paesi del blocco di Visegrad –, al Nord con la Danimarca, e a Sud con l’Austria. Sono state disposte interruzioni del traffico ferroviario con diversi paesi confinanti. Presidenti dei Laender tedeschi hanno dichiarato, come in Renania-Palatinato, di non essere in grado di affrontare i flussi. Inoltre, ministri federali tedeschi hanno fatto altri pesanti annunci unilaterali. A cominciare dal ministro dell’Interno de Maiziere, che ha dichiarato la necessità di “zone d’attesa” per i migranti in Italia, Grecia e Ungheria, quasi come se l’Italia non se ne sobbarcasse l’onere crescente da anni. Francamente, de Maziere poteva risparmiarsi le parole che ha aggiunto, ammonendo gli altri paesi europei a “non approfittare” della disponibilità tedesca. Più comprensione va riservata al ministro dei Trasporti Dobrindt, perché ha testualmente parlato di “fallimento completo della Ue nel proteggere i suoi confini esterni”: cioè, appunto, e innanzitutto, quelli dell’Italia e della Grecia, visto che la Germania non ha frontiere esterne europee.

Molti media europei ieri, di fronte alla degenerazione in scontri di piazza delle manifestazioni inizialmente pro profughi ad Amburgo e Brema, affermavano che la cancelliera Merkel a questo punto si gioca una partita decisiva. Se dovesse tornare indietro e smentirsi, se la Germania in due settimane dovesse dichiarare di non farcela dopo che per anni paesi come l’Italia hanno dovuto gestire l’emergenza commettendo certo molti errori, ma senza mai ottenere il pieno sostegno europeo che serviva, ebbene le conseguenze negative non sarebbero solo per la popolarità interna della Merkel in Germania. Sarebbe un disastro complessivo, che lascerebbe Italia e Grecia ancor più esposte.

Scrivemmo l’indomani stesso della svolta unilaterale tedesca, che essa avrebbe comportato problemi enormi aggiuntivi sia per i paesi di sbarco come l’Italia, sia per quelli di transito. Aggiungemmo di sperare che una svolta di tale portata fosse stata soppesata con cura, e cioè che preludesse alla piena commisurazione di un progetto comune di gestione del fenomeno, e di risorse adeguate. I fatti di questi ultimi giorni dicono con grande chiarezza che non è stato così. Ora è il momento perché i tanti entusiasmi che si sono sprecati cedano il posto a valutazioni fredde e serie. Un’Europa che ha un Fondo speciale per i disastri naturali – il FSUE, creato guarda caso quando la germania nel 2002 fu alluvionata – ma non adotta uno strumento analogo per i disastri umanitari, non è degna delle ambizioni che dichiara. Se il paese economicamente leader di questa Europa  dichiara da un giorno all’altro di esser pronto ad accogliere per anni a venire oltre 500mila profughi l’anno non avendo frontiere esterne europee, non può credere che arrivino in Germania paracadutati sul suo territorio.

Per tutte queste ragioni, l’appello è ad evitare ora un nuovo rimbalzo di responsabilità verso l’Italia. O i leader europei adottano un progetto davvero comune per gestire il fenomeno dovunque in Europa, oppure tra veti nazionali contrapposti e frontiere interne all’Europa chiuse il bilancio da trarre sarà molto amaro. Nell’imperfezione oggettiva in tanti anni delle sue politiche di accoglienza, l’Italia non ha mai esposto l’Europa al danno molto grave che rischiamo nei prossimi giorni e settimane. Le aree di attesa per i profughi servono in Libia, in Egitto, in Tunisia, ma alle richieste italiane sinora non è venuta neanche l’autorizzazione alla terza fase di EurNavFormed, in modo da poterla far intervenire nelle acque libiche e non solo internazionali. Che in queste ore decisive la saggezza aiuti dunque i politici tedeschi. Altrimenti non solo l’esodo non cesserà. Ma, politicamente nei diversi paesi europei sarà il miglior regalo fatto a tutti coloro che cavalcano nazionalismi e razzismi: in molti paesi – va detto, a questo punto – con toni molto più oltranzisti che a casa nostra.