4
Dic
2015

Per chi “giù le mani da pensioni”: ricchezza giovani -60%, anziani +60%

Prima il rapporto Ocse. Poi quello Istat. Infine ieri i dati Bankitalia. In pochi giorni, un diluvio di dati aggiornati sulle pensioni degli italiani, e su come sta cambiando il reddito e la ricchezza nel nostro paese. Ognuno sceglie tra i dati quello che più si adatta alla propria tesi. C’è chi comprensibilmente grida allo scandalo, perché nel 2014 il 40,3% dei pensionati ha percepito un reddito da pensione inferiore ai mille euro mensili. C’è chi invece scuote la testa, perché continuiamo a essere un paese con le più elevate entrate contributive per finanziare le pensuioni correnti dopo Grecia e Spagna, e al contempo dove tra i 60 e i 64 anni il tasso di occupazione resta al 26% rispetto al 45% media OCSE, ma con la più elevata età di ingresso nel lavoro, sia per uomini sia per donne.

Così si rischia di perdere di vista il problema più essenziale. Da vent’anni, stiamo aggravando a livelli pazzeschi lo squilibrio intergenerazionale. Ed è l’effetto di come siamo intervenuti sulle pensioni. Per tutti, parla il dato nel rapporto Bankitalia di ieri sulle famiglie italiane. Molti scimmiottando Piketty si riempiono la bocca di diseguaglianza netta in crescita tra ricchi e poveri in quanto tale, e invece Bankitalia li sconfessa. Tra 2012 e 2014, per effetto della crisi immobiliare dovuta alla sberla fiscale sul mattone, la diseguaglianza nella distribuzione dei patrimoni si è fortemente attenuata, il quinto di italiani più ricchi ha perso molto più di quelli più poveri, e il coefficiente di Gini è sceso in 2 anni da 64 a 61 ( guardate fig 12 e 13). Al contrario, il baratro vero che si è aperto è quello della diseguaglianza tra le generazioni (andate a fig.6). Tra il 1995 e il 2014 la ricchezza netta media delle famiglie con a capo chi ha meno di 34 anni è scesa verticalmente, da 100 a 40. Quella con capofamiglia sopra i 65 anni è salita invece da 100 a 160. Vent’anni fa la ricchezza media delle famiglie anziane era di poco inferiore a quella delle “giovani”. Oggi, è tre volte e mezzo superiore. Un dato devastante: ecco il paese “non per giovani”

Perché? Essenzialmente (anche se non solo, concorrono anche le norme sul mercato del lavoro e il nostro sistema della fomazione pubblica inadeguato all’occupabilità dei giovani) per le due riforme strutturali delle pensioni, la Dini nel 1995 e la Fornero a fine 2011. Buone riforme nel complesso ma una troppo diluita nel passaggio pluridecennale da retributivo a contributivo; l’altra, assunta per l’emergenza creatasi dopo anni di colpevole sottovalutazione, rapidisissima invece nell’innalzare l’età pensionabile. Ma abbiamo lasciato intanto il sistema a ripartizione, in base al quale le pensioni in essere sono pagate da chi lavora oggi. La ripartizione funziona bene quando il PIL cresce, e in assenza di riforme o troppo lente o troppo rapide. Ma quando ci sono discontinuità forti, il sistema a ripartizione diventa uno “schema Ponzi”, una catena di sant’Antonio con vittime e privilegiati: in cui chi fatica di più a ottenere un lavoro perché non ha professionalità formate adeguate, chi non ha continuità contributiva perché è precario, chi non avrà mai in ogni caso pensioni elevate come quelle retributive, si trova a pagare il reddito corrisposto a chi invece il lavoro lo ha ottenuto con molti minori problemi, è andato in pensione presto, e per decenni incasserà un assegno tarato sulla sua ultima retribuzione.

Quando Tito Boeri pone il problema dei giovani attuali che solo a 75 otterranno -forse – una pensione pari anche solo al 40% del reddito che avevano faticosamente conquistato, indica in termini di giustizia sociale (ma anche crescita) il problema numero uno del nostro paese. Quello tra generazioni. Pensateci: destiniamo oltre il 17% del PIl a pensioni così distorte, e un quarto all’istruzione, il 4,6% del PIL nel 2014. La proporzione dice tutto.

Affrontare questo disastro postula politici seri. Che dimentichino che sul totale degli elettori gli anziani sono maggioranza rispetto ai giovani (l’età media è oggi a 45 anni in Ita). Che rimettano mano alle pensioni facendo pagare meno contributi a chi ha meno anzianità di lavoro per alzarli poi nel tempo, nel mentre intervengono su chi ha assegni-regalo retributivi superiori ai 5mila euro, sproporzionati rispetto ai contributi versati. In 20 anni abbiamo già ridotto i giovani a meno di un terzo di ricchezza degli anziani. Continuiamo così, e li condanneremo dal purgatorio all’inferno.

3
Dic
2015

C’è un giudice a Bellinzona. ILVA nazionalizzata dai pm ormai a picco

Notizia numero uno: a fine ottobre 2015 l’Italia è uscita dalla lista dei primi 10 produttori mondiali di acciaio, segnando anche quest’anno un meno 8,6%. E’ l’effetto diretto del continuo declino dell’ILVA pubblica a Taranto, l’azienda espropriata senza indennizzo ai Riva a seguito della vicenda giudiziaria iniziata nel 2012.

Seconda notizia: in Svizzera, il tribunale federale di Bellinzona ha respinto su tutta la linea la richiesta avanzata dalla magistratura italiana di trasferire alla disponibilità dei commissari pubblici dell’ILVA 1,2 miliardi detenuti dagli eredi Riva su conti UBS. Per i giudici elvetici, è illegittimo espropriare fondi privati prima che venga emessa qualunque sentenza sui Riva indagati, in assenza di garanzie esplicite sulla loro tutela patrimoniale in caso di proclamata innocenza. Inoltre, era manifesto che la richiesta italiana fosse volta ad altro fine: non la sanzione per ipotesi di reato ancora da accertare, ma la devoluzione immediata al risanamento ambientale dell’ILVA ormai pubblica.

Terza notizia: la Commissione europea è ormai pronta a formalizzare la contestazione all’Italia per aiuti di Stato all’ILVA, per non meno di 1,8 miliardi a seguito dei due ultimi decreti riservati all’acciaeria di Taranto. I concorrenti dell’un tempo profittevole e temibile gruppo siderurgico italiano stringono d’assedio Bruxelles da ormai due anni, perché il dossier venga aperto.

Aridi fatti messi in fila: il bilancio dell’immane distruzione di valore, occupazione, export e gettito fiscale realizzata da una rinazionalizzazione per via giudiziaria che non ha eguali in alcun paese del mondo, tranne le autocrazie in cui le imprese vengono confiscate a discrezione.

Lasciamo ad altri – cioè ai sindacati e a qualche sostenitore del governo – dar torto ai giudici svizzeri: in base anche alla più elementare concezione liberale del diritto penale e di proprietà, hanno mille volte ragione.

Ma ormai questionare sul passato non ha molto senso: le procure hanno creato un fatto compiuto. E la domanda diventa un’altra. Come ne esce il governo? Stanzia altri denari del contribuente? Chiude l’impianto, che dà lavoro a 12 mila persone e oltre 22 mila con l’indotto, in una delle aree più colpite dalla crisi al Sud? O ha un’altra alternativa? L’Europa intanto dà quasi per scontato che, anche quei 2milioni di tonnellate annue che Taranto si è ridotta a produrre, presto scompariranno. E così diminuirà l’eccesso di produzione continentale. Cinesi e indiani, già da 2 anni, commossi ringraziano.

2
Dic
2015

Art.18 anche agli statali: il governo sbaglia, la Cassazione no

E’ una questione di equità, fortemente sentita da milioni di italiani. Da un anno e mezzo a questa parte, quando si mise in moto il Jobs Act e fino ai suoi decreti attuativi tra fine 2014 e inizio 2015, tante volte lo ripetemmo: sarebbe stato meglio esplicitamente decidere che la nuova disciplina valesse per i dipendenti privati come per i pubblici. A cominciare dalla revisione dell’articolo 18, sulla rescissione dei contratti che abolisce la reintegra giudiziale tranne che per i licenziamenti illegittimi, e regola con indennità quelli economici e per giustificato motivo soggettivo.

Già la riforma si applica solo ai nuovi assunti, distinguendo le coorti di lavoratori per anagrafe. Dunque era l’occasione almeno di parificare tra pubblico e privato tutele e diritti, indennità e doveri. Il governo alla fine si decise per il no. Ma non lo scrisse in legge. La novità è che la Corte di Cassazione ha invece emanato una sentenza chiara, per la quale l’articolo 18 riformato si applica automaticamente anche ai dipendenti pubblici. Ma ecco che, dopo poche ore, arriva la contronovità: il ministro Madia annuncia che il governo metterà per iscritto nel Testo unico del pubblico impiego che no, la riforma non si applica ai dipendenti pubblici.

Perché il governo Renzi non si adegua a una limpida sentenza della Corte di Cassazione, e decide in poche ore di ribaltarla? Per capirlo, facciamo un passo indietro sul terreno del diritto. La tesi affermata dalla Corte di Cassazione è secca. La Corte si è pronunciata sul licenziamento di un pubblico dipendente siciliano. Richiesta esplicitamente di chiarire se l’articolo 18 riformato valga anche per i pubblici dipendenti o, nel dubbio, di sottoporre la questione alla Corte Costituzionale, la Cassazione ha ritenuto che la risposta fosse univoca, senza alcun bisogno di un giudizio di costituzionalità. Il Testo Unico del pubblico impiego, il decreto legislativo 165 del 2001 con il quale è avvenuta la cosiddetta “privatizzazione” delle modalità contrattuali pubbliche, è inequivoco secondo la Cassazione: lo Statuto dei lavoratori, “con le sue successive modificazioni e integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti”. “E’ innegabile”, scrive la Corte, “che il nuovo testo dell’articolo 18 riguardi anche gli statali, anche a prescindere dalle iniziative di armonizzazione previste dalla riforma”. Ovviamente, sicomme non sono comprese nell’applicazione delle modalità contrattuali ex dlgs 165 dl 2001, l’unica eccezione che continua a valere è per docenti universitari, magistrati e comparto militari-sicurezza.

Ma se questa è la sentenza, perché il governo dice il contrario? Bisogna rifarsi a numerose sentenze della Corte costituzionale, in materia di equiparazione tra lavoro pubblico e privato.

Leggiamo alcuni brani della sentenza della Corte Costituzionale numero 146 del 2008. “Malgrado la progressiva assimilazione del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni con quello alle dipendenze dei datori di lavoro privati, sussistono ancora differenze sostanziali che rendono le due situazioni non omogenee. Questa Corte in più occasioni ha ammesso la possibilità di una disciplina differenziata del rapporto di lavoro pubblico rispetto a quello privato, in quanto il processo di omogeneizzazione incontra il limite «della specialità del rapporto e delle esigenze del perseguimento degli interessi generali» (sentenza n. 275 del 2001). La pubblica amministrazione, infatti, «conserva pur sempre – anche in presenza di un rapporto di lavoro ormai contrattualizzato – una connotazione peculiare», essendo tenuta «al rispetto dei principi costituzionali di legalità, imparzialità e buon andamento cui è estranea ogni logica speculativa» (sentenza n. 82 del 2003)”. La Corte costituzionale respinse con quella sentenza del 2008 la pretesa di estendere automaticamente un trattamento dal privato al pubblico, “in nome delle specificità irriducibili del lavoro pubblico per il quale rileva l’articolo 97 della Costituzione”. Numerose sentenze delle sezioni civili nonché riunite della Corte di Cassazione sono ispirate alla medesima linea, la perdurante “non omogeneità” del lavoro pubblico e privato.

Si direbbe dunque che la Cassazione è andata contro questa giurisprudenza, allora. Ma non è così. Se rileggete le sentenze della Corte costituizionale, esse affermano “la possibilità” di una disciplina differenziata tra lavoro pubblico e privato. Cioè aprono alla possibilità che, se governo e parlamento ritengono, possano e debbano spiegare in legge su cosa e perché intendono differenziare il regime dei dipendenti pubblici da quelli privati. Ed eccoci al punto: né quando l’articolo 18 fu riformato dal ministro Fornero, né nella legge delega del Jobs Act, né nei suoi decreti attuativi relativi anche all’articolo 18, mai è stato scritto nei testi di legge che essi si riferivano ai soli lavoratori privati. Il governo Renzi lo ha affermato in interviste, ma ha preferito evitare di sancirlo per legge. Perché? Il motivo è presto detto: era diviso. Nel Pd c’era chi come il senatore Ichino sosteneva automaticamente l’applicazione del nuovo articolo 18 ai dipendenti pubblici, per le stesse ragioni addotte dalla Cassazione. E la stessa cosa, nella maggioranza, sostengono il sottosegretario al MEF Enrico Zanetti e i parlamentari di Scelta Civica. Al contrario molti altri esponenti del Pd, come Damiano o Baretta, erano per la tesi contraria, oltre alla maggior parte della minoranza del partito.

Ora che la Cassazione ha messo i puntini sulle i, per il governo si apriva un bivio. O adeguarsi senza battere ciglio, anche approfittando del fatto che molti degli oppositori Pd di allora sono intanto usciti dal partito. Oppure rinculare, e decidere di tutelare i lavoratori pubblici. E il governo sceglie questa seconda strada. Ritiene di avere già abbastanza problemi col rinnovo dei contratti pubblici – obbligati dalla Corte costituzionale, dopo 5 anni di blocco – e per il quale non ha soldi da stanziare (solo 300 milioni, che a mala pena coprono l’indennità di vacanza contrattuale). E dunque Renzi preferisce non aprire un altro fronte. I nuovi sessantamila assunti a ruolo nella scuola avrebbero iniziato a protestare subito.

Ma è un grande peccato. Un errore vero e grande. Non solo la reintegra giudiziale che resterà per i lavoratori pubblici tra gli italiani è incomprensibile e impopolare, a maggior ragione con i numerosi casi scandalosi che puntualmente avvengono anche a fronte di licenziamenti per macroscopiche mancanze disciplinari finché non si arriva al giudizio della Cassazione (anche se le norme disciplinari non prevedono di doverlo attendere). Inoltre, escludere dal lavoro pubblico il contratto a tutele crescenti è un errore anche perché consentirebbe di vagliare meglio la professionalità dei nuovi ingressi, concorso o non concorso vinto per accedere al ruolo. Ma soprattutto perché il fronte sindacale non è affatto unitario, nel difendere l’inapplicabilità ai lavoratori pubblici delle stesse regole del privato. Ieri a radio24, il segretario della funzione pubblica Cisl Faverin si è detto pronto alla piena parificazione tra pubblico e privato: il che significa non solo articolo 18, ma anche basta con le sospensioni unilaterali da parte dei governi dei contratti. Non cogliere né l’umore profondo degli italiani, né disponibilità sindacali a ragionare in modo nuovo, è un segno che la carica di innovazione tende a esaurirsi.

1
Dic
2015

Clima: a Parigi il solito inutile rituale

La narrazione ha il sapore del déjà vu. Quasi un rituale che si ripete ogni anno dall’ormai lontano 1992. Parliamo della conferenza sul clima che si è aperta ieri a Parigi. Per molti è “l’ultima chance di salvare il Pianeta” (come a Copenhagen nel 2009). Dopo, come ha sostenuto il Presidente francese François Hollande, “sarà troppo tardi”. I freddi numeri ci raccontano però una realtà assai diversa: stando ad un’analisi dell’MIT, se gli impegni volontari presi dalla maggior parte dei Paesi che partecipano alla conferenza saranno rispettati – ed i dubbi sono più che legittimi non essendo previsti meccanismi sanzionatori per eventuali inadempienze – l’effetto in termini di riduzione della temperatura del Pianeta al termine di questo secolo sarà dell’ordine dei due decimi di grado. Ancor meno entusiasmante è la stima dell’ambientalista “scettico”, il danese Bjorn Lomborg, secondo il quale l’impatto di Parigi sarà al più di 0,17 °C e comporterà un costo complessivo dell’ordine di mille miliardi di dollari per anno.

L’aspettativa “salvifica” nei confronti del summit parigino sembra quindi aggiungersi ai numerosi falsi miti di cui si alimenta il dibattito pubblico sui cambiamenti climatici ma che non trovano riscontro negli stessi documenti dell’IPCC, l’organismo delle Nazioni Unite che si occupa dei cambiamenti climatici.

Al centro dei più recenti negoziati sul clima vi è l’obiettivo di contenere l’aumento di temperatura rispetto ai livelli pre-industriali entro i 2 °C (oggi siamo a circa + 0,9 °C ossia a poco meno di metà strada). E’ questa una soglia da non oltrepassare per nessuna ragione? No, la scelta sembra essere arbitraria e senza basi scientifiche. Nel più recente rapporto del Panel dell’ONU, le evidenze disponibili in merito agli impatti dei cambiamenti climatici vengono sintetizzate in un grafico che evidenzia come fino ad un aumento di 2-2,5 °C gli effetti positivi del riscaldamento sono grosso modo equivalenti a quelli negativi.

La ricaduta complessiva può essere paragonata a quella di un anno di recessione economica: lo stesso livello di benessere che, in assenza del riscaldamento, sarebbe raggiunto nel 2100, verrebbe traguardato l’anno successivo.

Ciò nondimeno, nel lunghissimo periodo, le conseguenze negative avrebbero il sopravvento rispetto a quelle positive. Ma, se guardiamo al presente, il problema ambientale più rilevante è, ancora sulla base dei dati forniti dalla Organizzazione Mondiale della Sanità, quello dell’inquinamento atmosferico all’interno delle abitazioni dei Paesi più poveri. Inquinamento dovuto, non all’eccessivo uso ma alla indisponibilità di fonti fossili ed al ricorso a combustibili “naturali”. Il problema interessa quasi 3 miliardi di persone e si stima che porti ad un numero di morti premature pari a 4,3 milioni per anno (la concentrazioni di polveri sottili all’interno delle abitazioni è di circa 1.000 microgrammi/metrocubo ossia venti volte superiore a quella che si registra nell’atmosfera di una città dell’Europa occidentale). Per tutti costoro un maggior consumo di carbone e di gas avrebbe immediate ricadute positive.

Questo è il dilemma cui siamo di fronte.  La riduzione dei consumi dei “ricchi” non potrebbe modificare, se non in misura molto modesta, le emissioni previste per questo secolo. Ad esempio, il peso dell’Europa sul totale della CO2 emessa a livello mondiale è già diminuito dal 20% del 1990 al 10% attuale e si ridurrà ulteriormente al 7% nel 2030. Circa tre quarti delle emissioni nei prossimi decenni verranno da Paesi a basso reddito. Imporre ad essi drastici tagli significa ostacolare quel processo di miglioramento delle condizioni economiche che ha portato negli ultimi tre decenni a straordinari risultati in termini di riduzione della povertà, della mortalità infantile, di incremento della speranza di vita e di miglioramento della capacità di difendersi dagli eventi climatici estremi. Il livello di benessere è assai più strettamente correlato al reddito che non al clima: Norvegia e Israele sono caratterizzati da climi assai diversi ma da analoghe condizioni di vita; Israele ed i Paesi arabi limitrofi condividono lo stesso clima ma sono separati da un ampio divario di sviluppo economico ed umano.

Peraltro, nei Paesi a reddito più elevato, a subire le conseguenze più negative dell’aumento dei costi dell’energia correlati alla incentivazione delle fonti rinnovabili  sono state le persone meno agiate.

Le politiche di contrasto ai cambiamenti climatici attuate finora non hanno avuto né avranno in futuro alcun effetto apprezzabile sull’evoluzione del clima (solo l’1,5% dell’energia mondiale proviene da solare ed eolico). Da Parigi, come detto, non ci si può aspettare nulla di diverso.  Come sottolinea l’Economist nel numero in edicola, sarebbe quindi auspicabile una drastica riduzione dei sussidi che i governi destinano alla incentivazione sia delle rinnovabili che delle fonti fossili. Una parte delle risorse così risparmiate potrebbe essere destinata ad attività di ricerca nel settore energetico al fine di sviluppare forme di produzione che siano al contempo a minor contenuto contenuto di carbonio, meno costose ed altrettanto affidabili di quelle oggi garantite dalle fonti fossili. Non sarebbe, neppure questo, un “pasto gratis”. Ma è un prezzo che può valer la pena pagare per evitare un improbabile ma grave rischio che potrebbe emergere nei prossimi secoli.

28
Nov
2015

Il bonus è un malus—di Gemma Mantovani

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gemma Mantovani.

I 550mila italiani che compiono diciotto anni potranno usufruire di una carta, un bonus di 500 euro per poter partecipare a iniziative culturali, come i professori.

L’ironia sulla politica dei bonus è ormai diventata uno sport nazionale, e va benissimo, ma sarebbe bene passare dalla satira comica ma un po’ ambigua alla Petrolini agli strali diretti e in toni gravi, perché la questione è serissima. Un antico adagio delle mie zone recita “piuttosto che niente è meglio piuttosto”, e questo motto popolare insieme ad uno dei più grandi filosofi italiani, Massimo Catalano, hanno sicuramente ispirato la politica economica del premier: è meglio un bonus cultura di 500 € a Natale o nessun bonus per tutto l’anno? A 18 anni con il bonus avrei fatto certamente un pieno di concerti. Ma amici meno frivoli di me a 18 anni lavoravano nei ristoranti per poi aprire il loro ristorante, imparavano i mestieri, di elettricista o estetista o liutaio, per poi aprire le loro botteghe: 1000 di lire li avrebbero voluti sì, certo, come primo mattone della loro futura attività. Read More

27
Nov
2015

Quel 64,8 % di tasse sulle imprese è il triste primato della miope Italia—di Francesco Bruno

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Francesco Bruno.

“Più grande è la fetta presa dallo Stato, più piccola sarà la torta a disposizione di tutti”. Citando Margaret Thatcher, è evidente che allo Stato Italiano continui a star bene che la torta si sia ormai ridotta a poco più  di un bignè, come conferma l’ultimo rapporto Paying Taxes.

Il Paying Taxes è un report realizzato annualmente e congiuntamente dal colosso del consultino PricewaterhouseCoopers (PwC) e dalla World Bank che analizza principalmente tre indicatori con cui hanno a che fare le imprese di 189 Paesi: Total Tax Rate (carico fiscale complessivo sulle imprese), Time to comply (le ore impiegate dalle imprese per adempiere i loro obblighi fiscali) e Tax Payments (il numero di versamenti effettuati ogni anno). Read More

25
Nov
2015

Quanto è triste il canone in bolletta

Sono trascorsi quasi cinque anni da quando Paolo Romani, da poco nominato ministro dello Sviluppo Economico, in un’intervista al Corriere della Sera (25 novembre 2015) nel parlare dei vari provvedimenti allo studio annunciò anche la riforma del canone Rai: «A tutti i titolari di un contratto di fornitura di elettricità, siano essi famiglie o pubblici esercizi o professionisti, verrà chiesto di pagare il canone, perché, ragionevolmente, se uno ha l’elettricità ha anche l’apparecchio tv. Chi non ha la televisione dovrà dimostrarlo e solo in quel caso non pagherà». Read More

22
Nov
2015

Sei tesi per dire no al salvataggio bancario odierno

Il decreto legge odierno di salvataggio di 4 tra le banche commissariate da Bankitalia, salvataggio in fretta e furia prima che entrino in vigore le norme europee sulla risoluzione delle crisi bancarie, mi vede tra i pochi fortissimamente critici. Sono in assoluta minoranza, rispetto al coro di sostegno unanime con cui il provvedimento è stato annunciato. E tra chi critica, meno ancora coloro che lo dicono in pubblico, per non rischiare la berlina. Desidero allora spiegare alcune delle ragioni della mia forte opposizione.

Ci sono due modi per farlo: il più serio sarebbe una lunga disamina dei coefficienti perduranti di bassa patrimonializzazione del sistema bancario ITA – e in particolare delle banche di cui parliamo ora – quando dal 2008 era chiaro a tutti che il patrimonio obbligatorio e i buffer aggiuntivi di capitale per affrontare i rischi dovevano salire; nonché dell’esplosione dei crediti deteriorati nel sistema italiano (tutto, tranne che una sorpresa, in un paese iperbancocentrico e a forte conduzione del credito secondo logiche relazionali invece che di merito); nonché sull’improvvisa tardiva emersione di molti episodi di malagestio bancaria in tutta Italia, per anni misteriosamente non colti dal radar di decine e decine di ispezioni Bankitalia e poi affiorati quando la vigilanza diventava della BCE. Ma ci vorrebbe un libro: un estesissimo e argomentato libro sulle collusioni – purtroppo – degli azionisti bancari, della politica, e purtroppo anche del regolatore in questi anni. Che non riguardano solo Mps o la Popolare di Vicenza, ma tre quarti d’Italia.

Il secondo modo è andare dritti al punto, con poche affermazioni motivate ma di fondo, giusto per far riflettere chi ne abbia voglia. Su almeno sei enormi bubbole contate in questi anni, insieme, da sistema bancario e politici (e non smentite con la forza dovuta dal regolatore). Scelgo ora questa seconda strada.

Primo: il sistema più sano al mondo. Quante volte lo avete letto sui giornali italiani, che c’era un motivo di fondo perché in ITA non c’erano crisi sistemiche bancarie come in Spagna, Paesi Bassi, Regno Unito, Irlanda: e cioè che avevamo i miglior sistema bancario del mondo? Non era affatto vero. Era vero che avevamo meno bolla immobiliare degli spagnoli e degli anglosassoni. Ma sommavamo rischio di credito e rischio sovrano, vista la crescente mole di titoli pubblici in pancia alle banche, e ancor più nel post 2011. E vista la perdita di PIL eravamo comunque condannati a una massiccia esplosione di NPL (oltre 200bn di crediti deteriorati oggi, oltre 340 se li valutiamo in maniera più realistica, sommando quelli che nei bilanci bancari non rientrano ancora nella definizione “ristretta”). In un sistema troppo poco patrimonializzato, con azionisti scarsi di capitale fresco da immettere, gonfio di costi fissi (mattoni e dipendenti) non brutalmente razionalizzabili nella crisi, con un margine d’intermediazione tendente a zero, ROE e ROI negativo. E regole non scritte ma diffuse, di troppo credito agli “amici degli amici”.

Secondo: le banche italiane non hanno bisogno di aiuti. Questa seconda bubbola è stata raccontata quando sono partiti i piani di salvataggio-ristrutturazione bancaria sotto l’ombrello europeo con fondi anticipati e vigilanza rigorosa comunitaria nel post 2011, come in Spagna. Già allora era evidentissimo che qualcosa di analogo, su scala minore forse ma di analogo, era necessario all’Italia. Ci fu chi riservatamente segnalò e argomentò l’esigenza ai premier Monti e Letta. In entrambi i casi, si decise di soprassedere. Quirinale e Bankitalia, oltre naturalmente all’ABI, non volevano scatenare polemiche di facile presa politica, sul fatto che i governi d’emergenza avrebbero rappresentato in Europa il nostro paese come gravato da un grave problema sistemico. Un errore grave, quello di ver messo polvere sotto il tappeto per evitare la sorveglianza europea: pagato da famiglie e imprese con la gravissima restrizione di credito ancora in corso. Errore la cui gravità è stata confermata quando, entrata in vigore la vigilanza comune Bce sui maggiori istituti nazionali, improvvisamente sono emerse sistematicamente debolezze patrimoniali, con la necessità di aumenti di capitale a raffica tra metà 2013 e 2014 e 2015, senza che per questo evitassimo di risultare con diverse banche a rischio comunque elevato negli stress test BCE.

Terzo: noi non siamo come i tedeschi, che salvano le loro banche violando le regole. Vero, i tedeschi hanno ottenuto con le ragioni della forza eccezioni serie e travi per le loro scassate Landesbanken politiche, hanno fatto pasticci inenarrabili come con la fusione Commerz-Dresden, hanno continuato a far leve finanziarie suicide come in Deutsche Bank, oggi alla resa dei conti. Ma il motivo per cui l’Italia non ha mai alzato la voce a Bruxelles contro questi salvataggi preferenziali, fuori dal naso e dall’occhio di una sorveglianza europea, è ben diverso da quello raccontato sui media: il motivo è che al momento giusto ci riservavamo di fare la stessa cosa.

Quarto: il silenzio di un anno sulla bad bank all’italiana. Gli osservatori più scafati delle vicende creditizie italiane sapevano da inizio 2015, che Bankitalia-governo-Abi si muovevano a Bruxelles per far passare nel corso dell’anno una versione italica di aiuti al sistema bancario, per consentirgli di cedere gran parte dei NPL senza però farlo a prezzi troppo bassi cioè di mercato (perché se no, come al solito, sarebbero state necessarie ricapitalizzazioni….). E comunque prima che entrasse in vigore il comune meccanismo previsto dalla direttiva europea varata a seguito della crisi cipriota prima e greca poi, quella che entra in vigore il primo gennaio 2016 e che è conosciuta come bail-in (con il coinvolgimento, nella risoluzione delle crisi, primariamente degli azionisti, poi degli obbligazionisti meno tutelati, fino ai depositanti oltre i 100 mila euro). Ma, per 10 mesi, sui media il silenzio su questo tentativo è stato pressoché assoluto. Ogni tanto usciva qualche dettaglio sul coinvolgimento di CDP o addirittura di Sace. Tutti coloro che hanno fonti a Bruxelles sapevano che alla Commissione Europea si era esterrefatti, di fronte al tentativo italiano di usare aiuti di Stato quando ormai c’era la doppia cornice della vigilanza comune BCE sui maggiori istituti di ogni paese, nonché della direttiva bail-in. Puntualmente, il penoso tentativo italiano è andato a scontrarsi con un no scontato: che il MEF ha ammesso solo la settimana scorsa, con una secca nota che non dava altre spiegazioni sul merito vero delle proposte avanzate. E sui media è partito il coro imbeccato dal sistema bancario, contro “i burocrati dell’Europa che su permettono di obiettare all’Italia che non ha mai chiesto aiuti”.

Quinto: il silenzio sul monito europeo nella vicenda Tercas. Lo stesso silenzio è stato riservato alle dure obiezioni europee espresse 9 mesi fa all’intervento di salvataggio nella banca teramana operata coinvolgendo il Fondo interbancario dei depositi, con la pretesa che fosse uno strumento “privato”. Quell’intervento non era privato perché orchestrato da Bankitalia, privo di un valido conto dei costi-benefici comparato, tale da giustificarne il ricorso rispetto a un’operazione condotta invece sul mercato e con criteri di mercato, e inoltre il Fondo serve a tutelare i depositanti delle banche, non gli azionisti. Tutti noi che seguiamo le vicende bancarie abbiamo in mano il documento europeo: ma nessuno quasi ne ha scritto, e fino a 2 settimane fa i media italiani continuavano a ripetere che per le 4 banche su cui si interviene oggi si sarebbe adoperato il Fondo interbancario. Invece ora bisogna cambiare retrospettivamente anche il modo in cui si è operato in Tercas. Che pena.

Sesto: il pasticcio attuale. La collusione ABI-governo-Bankit solo negli ultimi giorni ha dovuto prender atto che l’errore di non aver voluto un intervento sistemico vigilato dalla UE nel 2011-2012 non ha costituito base per vedersi approvata alla fine una scappatoia “nazionale”, all’ultimo secondo utile prima dell’entrata in vigore del bail-in. Ergo l’Italia la settimana scorsa ha recepito di corsa il sistema europeo di risoluzione delle crisi bancarie – che era stato apposta ritardato fino all’ultimo – con un’apposita unità costituita in Bankitalia. Si dirà a questo punto: bene caro Giannino, hai comunque ottenuto quel che vuoi, azionisti e obbligazionisti subordinati sono colpiti nelle 4 banche in cui si interviene. Ma non diciamo fesserie: il punto è che traccheggiando per anni abbiamo alimentato all’inverosimile l’aspettativa di salvataggi per tutti, rendendo sempre più comatosa la situazione di molte banche che si trovavano in condizione-limite, e che non sarebbero giunte a questo se regolatori e politica non avessero alimentato aspettative impossibili. In ogni caso, il salvataggio degli istituti delle Marche, Etruria, Chieti e Ferrara avviene ora con una modalità che rispetta le regole nuove e comuni solo per modo di dire. Primo: gli aiuti di Stato restano, vengono quantificati in 400 milioni nello stesso comunicato immediato rilasciato  della Commissione UE.  E in ogni caso la valutazione dei NPL delle 4 banche è fatta ” a tavolino”, non dal mercato. Poiché poi il finanziamento annuale del fondo – 500 milioni a carico dell’intero sistema bancario – ancora non è disponibile poiché occorreranno mesi per le delibere di ogni istituto, ed ecco che allora sono alcuni grandi banche italiane a metter capitale nelle 4 banche ognuna divisa tra good e bad bank, e poi quando sarà il Fondo subentrerà. Ma avremo impegnato più di 4 annualità del Fondo che serve alla risoluzione di tutte le crisi bancarie italiane: cosa faremo per le altre banche commissariate da Bankitalia? E perché mai – se non per un obbligo “di sistema” ordinato da politica e Bankit – devono metter soldi in banche fallite che non si vuol far fallire chi, come Unicredit, ha dovuto ora ora varare il secondo piano industriale in pochi mesi con tagli e cessioni sanguinosi? Ma dove sta scritto che non deve fallire mai nessuna banca, neanche le banche più piccole ergo senza rischi sistemici nonché peggio amministrate? Perché domani si dirà che l’intervento è a spese zero per i contribuenti, visto che le banche recupereranno 1 dei 3,2 miliardi dell’intervento varato oggi attraverso gravi fiscali cioè appunto a spese dei contribuenti? E che segnale è mai quello odierno, verso le fusioni sinora bloccate da solite questioni territorial-politiche tra grandi popolari investire dalla (buona, per me)  riforma voluta dal governo: non è ovvio che le frenerà ulteriormente? E verso le quasi 400 BCC, che anch’esse avrebbero bisogno di una vera e propria ondata di fusioni e ripatrimonializzazioni?

Si fa quel che si è deciso oggi per evitare la paura dei depositanti, si dice: l’Italia della ripresa non ne ha bisogno e deve evitarla a tutti i costi.  Siete sicuri che sia così? Oppure è  per evitare che la gente inizi sul serio a farsi i conti e a guardare i bilanci bancari, per capire dove mettere i propri soldi, e di quali azioni e obbligazioni bancarie disfarsi? Chiedetevelo, prima di liquidare le mie sei tesi come “fesserie liberiste”.

Oggi siamo a un altro capitolo di una lunga storia di errori e omissioni, bubbole e collusioni. Ripeto: il conto lo hanno durissimamente pagato imprese e famiglie. Mi rendo conto, è più facile dar la colpa all’Europa. Ma non sta né in cielo né in terra: la colpa è di un sistema collusvo che non ha saputo e voluto guardare in faccia alla realtà, e non ha preferito famiglie e imprese agli azionisti bancari, e ai loro intrecci troppo stretti con la politica locale e nazionale.