5
Giu
2025

Strade Rosse, Fantasmi Queer: vivere da Libertario in Via Stalingrado

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Vinayakan Sajeev Beena

La cosa sorprendente di Via Stalingrado è che il nome sia sopravvissuto a quattro decenni di turbolenze ideologiche.
 — Simon Calder, The Independent, 1996

Ogni volta che scrivo il mio indirizzo — Via Stalingrado — mi sembra di abitare una provocazione. Non solo perché sono un libertario nella città che fu la capitale del comunismo all’italiana, ma anche perché sono un uomo queer.

A Bologna, questa via parte dalla Porta Mascarella e si allunga verso nord, attraversando il quartiere fieristico, hotel di catena, capannoni e il traffico intenso che accompagna la periferia industriale. Ma non è solo un’arteria urbana: è un simbolo. È la sopravvivenza silenziosa di un’ideologia che altrove è stata archiviata. A Bologna invece — come osservò il giornalista Simon Calder — la memoria è resistente quanto i mattoni rossi dei suoi portici.

Dalla Strada di Mascarella a Via Stalingrado

La via che oggi porta il nome di Stalingrado era un tempo parte della Strada di Mascarella, documentata già nelle mappe topografiche del cartografo Andrea Chiesa nel 1740 e nel 1762. Usciva da Porta Mascarella e si snodava verso nord, mantenendo il Canale di Dozza alla sua sinistra. Il tracciato originale è oggi quasi scomparso, inglobato dallo sviluppo della stazione ferroviaria e dai nuovi quartieri industriali.

Nel 1909, una delibera comunale attribuì il nome Via Mascarella al tratto esterno alla porta. Il 16 aprile 1949, in piena Guerra Fredda e con Bologna saldamente governata dal Partito Comunista Italiano, la strada fu ribattezzata Via Stalingrado — in onore della città simbolo della resistenza sovietica al nazifascismo.

Ma il nome non onora solo una vittoria militare: canonizza anche un regime. Un regime che ha ucciso milioni di persone, incluso chi, come me, aveva l’unica colpa di amare in modo diverso.

Stalin e la repressione queer

Nella memoria collettiva, Stalin è ancora spesso ricordato come l’uomo che fermò Hitler. Ma troppo spesso si dimentica che fu anche l’uomo che schiacciò, brutalmente, ogni forma di dissenso.

Nei primi anni della rivoluzione sovietica, l’Unione Sovietica fu uno dei paesi più progressisti al mondo sul fronte dei diritti LGBTQ+. Dal 1917, la sodomia maschile fu depenalizzata. Le persone intersessuali potevano decidere il proprio percorso medico e identitario. Si parlava persino, nel 1929, della possibilità di legalizzare matrimoni tra donne mascoline e le loro compagne.

Sophia Parnok scriveva poesia lesbica. L’artista Sergei Parajanov e il cantante Vadim Kozin furono tra le voci queer più celebrate dell’epoca.

Poi arrivò Stalin. E tutto cambiò.

Nel 1933, il regime stalinista reintrodusse il reato di sodomia, arrestando migliaia di uomini, spedendoli nei gulag, spesso alla morte. Il comunista scozzese Harry Whyte scrisse a Stalin una lettera appassionata in difesa degli omosessuali come “proletari perseguitati”. La risposta? Una nota a penna sul documento: “Un idiota e un degenerato.”

Volgograd fu ribattezzata in suo onore. Mantenendo l’uso di Stalingrado, Bologna lo onora con una delle sue strade principali.

La città della libertà, con un nome che la nega

Bologna è una città magnifica. Colta, opulenta e progressista. È la patria dell’università più antica d’Europa, dei portici senza fine, delle osterie chiassose e delle librerie militanti. È anche, oggi, una delle città italiane più inclusive.

Ma vivere da libertario e da uomo gay in Via Stalingrado è come camminare su una faglia storica. Parte della città abbraccia la libertà individuale; un’altra parte — quella incisa sulle targhe stradali — sembra ancora prigioniera del culto del collettivismo, anche quando si tratta di onorare tiranni.

Il nome Stalingrado dovrebbe indignare tanto quanto indignerebbe un’ipotetica Via Franco o Via Pinochet. Perché qui, sotto il velo della retorica antifascista, Bologna ha dimenticato di fare i conti anche con il comunismo totalitario.

Non si può celebrare il Pride sotto il nome di chi ha fatto dell’identità queer un crimine di Stato.

Se Bologna ha la libertà nel cuore, che la mostri anche sui muri

Bologna non ha bisogno di cambiare per essere amata. Ma ha il dovere morale di interrogarsi sui propri simboli. Via Stalingrado oggi è solo una strada, certo. Ma anche i nomi parlano. Anche i muri hanno memoria.

E se questa città vuole davvero onorare la libertà — quella vera, non quella mitizzata nei manifesti — deve cominciare a camminare nel futuro senza trascinarsi dietro, in silenzio, il nome di chi perseguitò le stesse libertà che oggi difendiamo.

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