27
Ago
2009

Serve un nuovo paradigma macroeconomico

Due letture immediate a commento degli ultimi dati poco confortanti, due visioni diverse – entrambe non ottimiste, comunque, nello stile di questa  nostra casa – dei rischi a cui tutti restiamo esposti, al di là degli ottimismi di maniera. Io vi dico subito che sono per la seconda lettura, quella che indica la necessità di un nuovo paradigma macroeconomico, ponendo l’intermediazione finanziaria ben al centro di una profonda revisione dei modelli teorici sin qui seguiti.La prima tesi è quella dell’ascoltatissimo pessimista ante-marcia, Nouriel Roubini. Su Forbes scrive giustamente che al 2010 andranno in scadenza il più dei tagli fiscali proposti da Bush e che il Congresso approvò solo “a tempo”. Ciò comporterebbe un aumento di pressione fiscale superiore all’1,5% di GDP, e poiché anche per Roubini la disoccupazione americana resterà intorno al 10-11%, ecco che le pressioni per nuovi aiuti pubblici all’economia per 2-300 bn$ almeno farebbero rischizzare il deficit pubblico verso il 12% del prodotto, non al “solo” poco più che 10% appena corretto al ribasso dall’Amministrazione. È una prospettiva da incubo, quella di un debito pubblico americano che dal 41% passi all’80% del GDP in pochi anni. Ma dopo averlo ammesso, Roubini conclude limitandosi a dire che bisogna con grande attenzione evitare di cambiare di passo alla politica monetaria easy prima del tempo, sennò si fa l’errore del Giappone negli anni Novanta e dei primi anni Trenta americani, strozzando la ripresa in culla. Serve un exit strategy di medio periodo per la finanza pubblica, dice Roubini: ma detto così può facilmente essere confusa con le più alte tasse che minaccia Obama.

Al contrario. Keiichiro Kobayashi propone una strada diversa. La sua tesi è che  il Giapopone non uscì affatto per tutti gli anni Novanta dalla crisi, sinché si intestardì a seguire solo la via keynesiana della politica monetaria e fiscale espansive a bocca di barile. Fu la decisone di far fallire un po’ delle banche più compromesse invece di continuare a sostenerle tutte, e di sottoporle a una cura obbligata di rafforzamento patrimoniale, ciò che portò alla sia pur moderata crescita giapponese degli anni 2002-07. Krugman nega  naturalmente ogni evidenza alla tesi, sostenendo che gli investimenti privati giapponesi continuarono anche dopo a  rivelare una scarsa dinamica, e dunque che Keynes non si tocca. Kobayashi sostiene invece che il difetto sta nel manico: perché sia i modelli neokeynesiani, sia quelli neoclassici che ci convincono di più, hanno tutti una comunque pecca di fondo. Considerano l’intermediazione finanziaria esclusivamente come un velo tra i tre attori essenziali del mercato: famiglie, imprese e governi. Di qui, modelli dinamici di equilibrio stocastico diversi  nei presupposti, per la divergente stima delle conseguenze che i governi possono esercitare nelle crisi rispetto allo “sconto” dei costi del loro intervento effettuato da famiglie e aziende, ma convergenti nel non considerare l’intermediazione finanziaria come un quarto attore proprio e a propria volta distinto, nell’elaborazione delle equazioni dell’equilibrio. È una provocazione intellettuale che a mia modesta opinione coglie assolutamente nel segno. Già in saggi come quello pubblicato nel 2007  dal Journal of Political Economy di Chicago a firma di Ricardo Lagos e Randall Wright – entrambi accademici e governor di FED locali – si proponeva di porre la basi per un framework unificato di politica monetaria e analisi politica delle interazioni tra diversi attori del mercato, con l’intermediazione finanziaria elevata al rango dei tre tradizionali agenti di prima istanza. A mio giudizio, dovrebbe essere considerata la più rilevante lezione e traccia di ricerca dell’attuale crisi. I non performing loans, il VAR autodichiarato, le dark pools di liquidità attraverso le quali si operano sempre più acquisti “pesanti” per far salire le Borse, il repackaging di asset cartolarizzati insieme per quanto a rischio di controparte assai diverso, non sono più da considerare problemi microeconomici che impattino la sola industria bancaria e finanziaria. Questa crisi ci ha dimostrato che sono tutti nuovi aspetti della velocità o della lentezza, della trasparenza o della opacità di trasmissione dei segnali e delle decisioni di politica monetaria. Tema complesso, sì. Ma fuori dai denti si traduce così: le banche sono roba troppo seria, per lasciarla solo ai banchieri. E tanto meno ai soli keynesiani, che sanno solo salvarle a spese nostre  da una parte, e criticarle demagogicamente per l’eccesso di bonus dall’altra, ma senza cambiare le regole del gioco che sono molto più importanti dei bonus.

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4 Responses

  1. Far assurgere gli intermediari finanziari (soprattutto commercial & investments banks)
    al rango di 4° attore del gioco del mercato sarebbe dovuto essere una ovvietà per tutti coloro che agivano con responsabilità e che si aspettavano responsabilità da tutte le controparti. Teorici e studiosi inclusi.

    Senza responsabilità (tracciate, tracciabili e rin-tracciabili) infatti sarebbero scaturiti diversi obbrobbri (guidati naturalmente dall’ego) nel Mercato, quali ad es.: corruzione, malagestione, bonus eccessivi, inefficienze, opacità, TBTF,…

    Riguardo alle TBTF (too big to fail) mi chiedo:
    se lo scopo più alto e nobile di una società responsabile è la valorizzazione costante del singolo individuo,
    e se le azioni di ogni attore dovrebbero costantemente tendere al soddisfacimento tanto dei propri bisogni quanto dei bisogni degli altri,
    perché non aumentare controlli/responsabilità nel momento in cui le dimensioni di un attore diventano tali da poter causare, in tempi di crisi, dei bagni di sangue, quali sono i licenziamenti di centinaia e centinaia di individui?

    Stocasticamente, è molto arduo mantenere il FONDAMENTALE equilibrio “soddisfacimento proprio-altrui” nel momento in cui si superano determinati parametri dimensionali: siamo immersi in un andamento ad onda dei fenomeni bio-socio-economici (alti e bassi) e, sempre stocasticamente, un momento di secca porterebbe un “Too Big” a farCI fare dei bagni di sangue (= crisi di tante imprese = licenziamento di centinaia di individui = crisi di centinaia di famiglie = crisi di tantissimi attori dell’intero mercato).

    Il salvare OGGI dei grossi gruppi mi pare una azione scellerata, perché il problema stava a monte: occorreva studiare insieme, creare, distribuire e condividere degli strumenti di responsabilità tali da controllare, gestire, ossia DISINCENTIVARE la crescita dimensionale di OGNI attore oltre certi livelli limite.

    Tali grossi gruppi/attori vanno poi a costituire un enorme vincolo per la successiva crescita e per il benessere dell’intero sistema di Mercato lungo l’ “onda” delle proprie manifestazioni di vita.

    Tralascio poi il discorso sulle conseguenze anti-liberali derivanti dalla degenerazione (spesso naturale, purtroppo) dei grossi gruppi/attori in abusi di posizioni dominanti di Mercato.
    Degenerazioni guidate ed istruite dall’ “EGO”, il quale assurge ad arbitro del gioco socio-economico in un sistema in cui non si è più in grado di mantenere il fondamentale equilibrio “soddisfacimento proprio-altrui”.

    Sistema degenerato quindi principalmente dall’ego, il quale ridimensiona: il Capitalismo in capitalismo, il Mercato in mercato, le Persone in persone,… la Vita in vita di bassissimo spessore; vita per la quale un giovane, come me, perde molti interessi (non solo bancari, anzi…).

    Sono OGGI molto deluso da coloro che possono (porre le regole).
    Perché non mi pare stiano distribuendo delle profonde regole e dei seri strumenti di responsabilità che mirino, in particolare, alla trasparenza e alla (tracciabilità e rin-tracciabilità della) responsabilità sociale degli intermediari finanziari in primis.

    E temo che si sia giunti ad un punto tale che l’aver permesso, in passato, la creazione di Too Big abbia a sua volta prodotto delle putidre commistioni all’interno del sistema globale di mercato (oggi è purtroppo senza la M) tali da impedire degli interventi di trasparenza, pulizia, responsabilità, ossia di LIBERTA’ e DEMOCRAZIA di/per ogni singolo attore.

  2. Stefano

    E’ preoccupante l’ignoranza della politica. Un conto è non intervenire per lasciare fare il mercato, un conto è non avere la più pallida idea delle possibilità tecniche che ha oggi la finanza.

  3. Non è affato preoccupante l’ignoranza della politica, (non era Hayek a dire che l’ignoranza è il motore del progresso umano?!)
    Ciò che preoccupa è che molti della nostra classe dirigente ci sguazzino senza avere una minima parvenza di curiosità intellettuale: questo è davvero grave..

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