24
Apr
2018

Un nuovo ruolo per la CdP? Modelli di mercato o “catoblepismo” di ritorno – di Stefano Simonelli

La recente attualità – l’eventuale trasformazione di CdP in ‘banca pubblica di sistema’ invocata dal leader pentastellato Luigi Di Maio – ci ha fatto ritornare indietro di 70 anni, quando nacque Mediobanca per mano di istituti bancari pubblici e avendo tra i propri soci anche i principali grandi attori del sistema industriale privato italiano.

Si concretizzava dunque il rischio di ‘catoblepismo’, ovvero di incestuosi rapporti tra credito ed industria (primo fra tutti il rischio di assistenza finanziaria e dunque di porre le basi per un eventuale rischio ‘di sistema’), come saggiamente metteva in guardia Raffaele Mattioli, in veste di azionista Comit, quando la creatura Mediobanca era ancora in fase di gestazione e durante i primi anni di vita dell’Istituto. Ma, seppure in presenza di una difficile separazione tra le diverse anime della banca, ovvero tra holding di investimento e banca commerciale, tra consulenza M&A e gestione private, il Paese necessitava di un soggetto che fosse in grado di coordinare la ricostruzione postbellica in assenza di un mercato di capitali sviluppato (nasceva il credito finanziario a lungo termine), attraverso colossi pubblico-privati di partecipazioni incrociate di derivazione banco-centrica (come avvenuto del resto anche in Giappone o in Germania).

Un discorso analogo poteva essere fatto per l’IRI, durante e dopo il fascismo, per non parlare poi del sistema delle Partecipazioni Statali, che tuttora sopravvive sotto diverse vesti: tutte strutture che ‘in nuce’ dovevano sostenere un’industria autarchica, garantire una piena occupazione e difendere un sistema fragile da possibili attacchi esterni. In poche parole, l’opposto di un sistema di Politica Industriale composto da reali campioni nazionali dell’innovazione (come in Francia) e PMI dinamiche capaci di affrontare a viso aperto la concorrenza nei mercati globali (la vera risorsa della manifattura Italiana).

La fine di questo sistema pubblico-privato, causa la competizione globale, ha visto la cessione di interi pezzi di industrie oramai decotte a privati domestici o internazionali (SME, Alfa, Ilva..) o privatizzazioni di interi settori cardine dell’economia (banche e tlc). Questo lungo e doloroso processo avveniva in parte anche fallendo le sfide dell’innovazione, della riconversione industriale, della piena occupazione e della tutela ambientale (si pensi alle famose ‘cattedrali nel deserto’ dei settori oil, petrolchimico o acciaio in aree depresse e quindi fiscalmente agevolate).

La stessa CdP che raccoglie risparmi attraverso la rete Poste e sul mercato dei capitali, vede le Fondazioni bancarie (al 16%) e soprattutto il Ministero dell’Economia (83%) tra i propri soci fondatori e di maggioranza: è dunque una SpA, ma a controllo pubblico. Il ricco panel di attività prevede in ordine sparso: un portafoglio equity quotato (Eni, Poste, Saipem, Fincantieri tra le più note), non quotato (Ansaldo Energia, Openfiber, Hotelturist..), divisioni private equity (FSI SGR e un tempo FII SGR), Reti (Terna, Snam, Italgas e ora Telecom), area di interventi special & distressed situations di interesse nazionale oltre a SACE/SIMEST, un’importante attività immobiliare e altri strategici Fondi Partecipativi in minoranza (tra cui Atlante).

Finora, il driver principale per CdP è stato prevalentemente, ma non esaustivamente, l’economicità (4,5 miliardi di utili netti consolidati da ultimo bilancio pubblicato 2017), anche nelle attività distressed da ristrutturare, beneficiando quindi di un Rating migliore di quello del Paese (l’istituto è stato valutato da agenzie indipendenti meglio per quanto concerne il merito di credito del Paese e non come una pura proxy del rischio-Italia, quali ad es. le banche sistemiche Intesa o Unicredit).

Lo Statuto della CdP l’ha infatti preservata dal sobbarcarsi direttamente in salvataggi di Stato, oppure oggetto di decreti governativi ad hoc, quali: Mps (oggetto di una ricapitalizzazione preventiva, ovvero un mix tra intervento diretto dello Stato e burden sharing), le Banche Venete non più viable (a patrimonio netto negativo) oppure, per quanto concerne le situazioni di crisi industriale (ca 160 i dossier ancora sul tavolo del Ministero dello Sviluppo economico per 180 mila posti di lavoro), Ilva e Alitalia per citare i più conosciuti. Si noti, casi ben diversi, in cui l’intervento pubblico diretto è stato solamente e giustamente destinato come extrema ratio, ai casi di cd ‘rischio sistemico’ o ‘contagio di sistema’, mentre poco si è potuto fare per le aziende vittime della competizione globale (di costo, di prodotto, fiscale..).

Trasformare dunque CdP in Banca Pubblica erogatrice di prestiti a tassi agevolati per gli investimenti (stile BEI o stile Cassa del Mezzogiorno? Non è chiaro) o come ‘lender of last resort’ in partite problematiche creerebbe un ibrido pericoloso che riporterebbe il sistema indietro di 70 anni (parafrasando Mattioli ‘Nell’interesse di chi verrebbe gestita Cdp?’).

Sarebbe inoltre sottoposta ad una vigilanza UE e BCE che la priverebbero di ogni agilità decisionale su delicati dossier industriali e bancari, oltre a verificarne l’intervento diretto in partecipazioni industriali (attualmente in carico per oltre 30 miliardi di controvalore). Non sentiamo francamente il bisogno di un’altra anima pubblica per: a) il credito agevolato (meglio una no tax/no burocrazia area al Sud ‘tout court’ per incentivare gli investimenti infrastrutturali e porre le basi di un rilancio del Mezzogiorno in settori light come artigianato, food e turismo);  b) deconsolidare partecipate statali fortemente indebitate (si pensi alle Municipalizzate locali); c) ristrutturare dossier industriali/bancari ove le soluzioni di mercato non fossero  percorribili facilmente (per non parlare dei limiti imposti dalle cogenti normative UE in tema di salvataggi pubblici industriali e bancari).

Lo stesso utilizzo di CdP per privatizzazioni di comodo per ridurre la mole di debito pubblico – in particolare, Partecipate dallo Stato /Municipalizzate locali improntate a questioni di ‘pubblica utilità’ più che di redditività, con l’aggravante di essere operanti in condizione di monopolio naturale – è discutibile in quanto mera partita di giro contabile tra diverse anime statali: l’unica soluzione resta quella di ridurre il perimetro delle attività dello Stato vendendo ai privati le attività inefficienti, in modo da fermare la potenziale emorragia di deficit/debito pubblico.

In quale modo? Separando le bad company (con debito, eventuali reti, concessioni e asset strategici in mano allo Stato) – oppure liquidandone gli asset pur deteriorati in maniera lenta e ordinata per non svenderli – grazie ad una valorizzazione delle good company (debt-free) da lasciare in gestione ai privati per farle tornare nuovamente profittevoli.

In aggiunta, potrebbe essere utile studiare i casi e i modelli francesi (BpI France, a fianco della loro CDP) e tedeschi (Fondo pubblico statale di CDP) per finanziare le start-up di venture capital innovative quando il rischio operativo e finanziario è molto elevato (seed capital/angel investing) e non si trovano i capitali poiché non esiste ancora il prodotto industriale e siamo ancora nella fase di Ricerca & Sviluppo. Ritengo tuttavia che, dato l’elevato costo del capitale di questi segmenti del private equity (alti rendimenti, oltre che alti rischi), sarebbe meglio che rimanessero realtà gestite da capitali e patrimoni privati in modo da promuovere l’avanzamento tecnologico, che continua ad essere uno dei principali ‘talloni d’Achille’, insieme alla bassa produttività, del ritardo nel tasso di crescita annua del PIL Italiano rispetto ai principali competitors europei (+1.5% e +1.1% per l’Italia vs +2.4% e +2.0% per l’Eurozona le stime FMI di crescita del PIL per il biennio 2018-2019).

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