14
Apr
2016

Prepensionati in part time a esborso pubblico: ma perché, quando zero finora per povertà?

Il cantiere delle pensioni italiane non si ferma mai, l’instabilità di orientamenti della politica è sempre alla ricerca di nuovi interventi. Che, come effetto, alimentano una percezione pubblica di totale insicurezza in milioni di italiani. Ieri è stato approvato il decreto attuativo di una delle due misure previdenziali previste nella legge di stabilità 2016, relativo al prepensionamento anticipato in forma di part time. Lo dichiaro subito: non sono per nulla d’accordo. Non capisco proprio, con un governo che non ha ancora fatto nulla per la povertà (potrei aggiungere: né per i giovani disoccupati, numeri alla mano della somma di Jobs ASct e decontribuzione sullo stock occupati 2016 su 2015)), come e perché si trovino fondi pubblici per far passare chi un lavoro ce l’ha a tempo indeterminato a un part time, pagandogli i contributi figurativi come se restasse a tempo pieno e assicurandogli retribuzione aggiuntiva esentasse. Proprio non lo capisco, è solo un’ulteriore conferma che politica e sindacato hanno in mente che sta relativamente meglio, rispetto a chi sta sicuramente peggio.

Ma prima di capirne significato e impatto, serve una premessa, sui numeri previdenziali complessivi.

Tutti ripetono che la spesa previdenziale italiana è stata messa in sicurezza come in nessun paese europeo. In realtà la spesa previdenziale annua è di 4 punti di Pil superiore alla media europea: noi siamo sopra il 16%, e a legislazione invariata nei prossimi 4 anni la spesa crescerà di ulteriori 20,5 miliardi, passando dai 261,9 previsti nella Nota Def per il 2016 ai 282,4 del 2019. A farla crescere, essenzialmente la demografia dell’Italia: cresce la longevità ma non il tasso di partecipazione al lavoro e l’occupazione. Sono queste le cifre che dovrebbero essere costantemente ricordate, da sindacati e  partiti che chiedono incessantemente di tornare ad abbassare i tetti previdenziali in graduale salita, disposti dalla riforma Fornero. Viene sollevato ripetutamente l’argomento che prepensionare servirebbe a creare automaticamente posti di lavoro per i giovani: quando non funziona affatto così, perché in presenza di alta inoccupazione le imprese continuano a preferire lavoratori le cui abilità sono già formate, cioè non i giovani. Persino a fronte dell’elevatissima decontribuzione offerta alle imprese nel 2015 per i contratti a tutele crescenti, a giovarsene sono stati gli over cinquantenni con oltre 280mila occupai aggiuntivi, mentre tra i 35 e 49 anni abbiamo perso 206 mila occupati in Italia, se raffrontiamo fine febbraio 2016 con lo stesso mese del 2015, e per i più giovani la variazione è stata inferiore alle 20mila unità. Da qui al 2050 la spesa previdenziale non scenderà mai sotto il 15% del Pil, come ha scritto la Ragioneria Generale dello Stato nell’ultimo Rapporto sulle tendenze di medio-lungo periodo di sistema pensionistico e socio-sanitario, presentato a luglio scorso.

Abbiamo sin qui speso oltre 12 miliardi per i 7 interventi di salvaguardia dei cosiddetti esodati, finendo per comprendere in 180mila soggetti tutelati sempre più over 55enni disoccupati di lungo periodo, in realtà non direttamente colpiti dalla riforma Fornero. E in legge di stabilità 2016 il governo ha giustamente respinto le proposte – forti anche nel Pd – di abbassare per tutti l’età pensionabile, accogliendo invece la proroga della cosiddetta opzione donna, per risolvere il problema di un requisito pensionabile che nel 2016 sarebbe salito per le dipendenti del settore privato di 22 mesi nel solo 2016, e poi il part-time incentivato di cui appunto ieri è stata approvata la norma attuativa.

In realtà, si tratterà di un regime sperimentale per al più 15-20mila soggetti, finanziato infatti con soli 60 milioni di euro per il 2016 (il titolo di Repubblica stamane sui 400mila soggetti ai quali sarebbe riservato è, mi spiace dirlo, un’asinata: con che soldi?) . Riservato ai dipendenti privati – non pubblici,né autonomi – con almeno 20 anni di contributi, che maturino entro fine 2018 il requisito anagrafico previsto dalla legge Fornero e cioè che abbiano a fine 2015 almeno 63 anni e 7 mesi di età. Le donne non escluse, come tutti ripetono, a loro si è già provevduto: le nate nel 1951 potevano già andare in pensione, e idem dicasi per quelle della classe ’52 in questo 2016 grazie a una deroga alla Fornero. Per la classe femminile 1953, il requisito Fornero si raggiunge solo nel 2019, quindi solo per loro nulla da fare. Questi soggetti potranno andare in part time agevolato con riduzione d’orario fino al 60%, con l’erogazione in busta paga da parte dell’impresa in maniera esentasse dell’equivalente che sarebbe stato versato dall’azienda come contributi se il rapporto fosse prestato a tempo pieno, e contributi figurativi versati anch’essi dallo Stato (quindi: versati per finta, coperti in deficit) come se il contratto restasse invariato. I contributi figurativi sono a carico statale, ed è su questi che scatta il tetto dei 60 milioni. I primi che sottoscriveranno accordi di questo genere ne avranno diritto: finita la dote prevista nel bilancio pubblico, il diritto non sarà più esercitabile ( a Repubblica hanno deciso di non accorgersene).

Quel che si può prevedere, dunque, è che a beneficiarne saranno poche migliaia di dipendenti, per lo più di grandi gruppi che saranno i più lesti. Insomma, è l’ennesimo intervento a latere. Che farà però scaldare i motori alle richieste che puntualmente verranno riavanzate al governo da destra e sinistra nel prossimo autunno, per abbassare radicalmente per tutti di 2-3 anni i tetti previsti dalla legge Fornero.

Il governo ha promesso che qualcosa farà. Ma le diverse proposte sin qui dibattute, quella dell’onorevole Damiano come quella del presidente Inps Boeri, sono tutte caratterizzate dall’aggravare nel breve il deficit previdenziale. Il responsabile economia del Pd Taddei e il sottosegretario Nannicini, che a palazzo Chigi ha in mano i dossier di finanza pubblica, ripetono sempre che l’intervento dovrà essere a parità di deficit, cioè con tagli agli assegni proporzionati all’anticipo previdenziale. E la decisione finale sarà presa solo quando, di qui a 6 mesi, sarà un po’ più chiaro il quadro della crescita europea e del deficit aggiuntivo complessivo accordatoci.

Quel che non entra in testa a politica e sindacato è che col sistema contributivo la flessibilità d’uscita è sì coerente  benvenuta, ma bisogna accettare assegni più bassi quanto prima si accede alla pensione rispetto ai tetti previsti dalla Fornero, cioè a parità attuariale della rendita spalmata in più anni generata dal montante versato. E’ molto difficile pensare che nel prossimo autunno questa idea venga accettata, visto che sindacati, destra e sinistra pensano ai consensi immediati e non all’equilibrio di bilancio previdenziale (ogni anno: poco meno di 100 miliardi vengono all’Inps dalla fiscalità generale). In quel caso, saranno i giovani, come sempre, a pagarne le conseguenze: perché saranno loro a dover pagare ancora coi loro scarsi contributi – funziona così il sistema a ripartizione – le pensioni accordate in anticipo a soggetti rispetto ai quali i giovani non avranno mai una pensione equivalente.  Il resto, lo metteremo noi contribuenti.

12
Apr
2016

Atlante il salvabanche: o lo chiariscono bene, o provoca altri guai

Oggi il mercato ha fatto strame dei titoli bancari coinvolti nell’operazione salva-banche Atlante. Purtroppo non bisogna stupirsi. L’operazione è stata lanciata senza un minimo di chiarezza su troppi aspetti essenziali, perché non fosse questa la reazione. Pensate solo alla dichiarazione dei promotori “o parte Atlante, oppure tutti i prossimi aumenti di capitale annunciati (leggi: imposti da SSM, la vigilanza comune europea) finiscono in bail in delle banche interessate”. Mai nessuno in Europa, neanche la Grecia, lanciando un veicolo nel quale sono coinvolti come regia MEF e Bankitalia, e a cui partecipano tutta la prima fila del sistema bancario italiano, assicurazioni e fondi pensione e fondazioni bancarie oltre alla Cdp che è mano diretta del governo,  mai nessuno ha dichiarato una simile debolezza agonica del proprio sistema bancario. E meno male che per anni è stato ripetuto che era il sistema più solido al mondo… Cerchiamo allora di enucleare almeno alcuni dei tanti dubbi  che vanno chiariti dai promotori con precisione millimetrica, prima che anche quest’operazione figlia della disperazione sfugga di mano, con conseguenze disastrose.  
Ammettiamo pure – come diceva Totò: “ammesso e non concesso” – che le regole di governance di Atlante, tutte da capire, e la presenza limitata nei conferimenti ad Atlante di CDP (pare non superiore al 5%..) consentano di aggirare scontate obiezioni su aiuti di Stato che furono avanzate dalla Commissione Ue  per il caso TerCas ( non è così scontato… è evidente che questo veicolo è confezionato da Bankitalia-Mef e che governo ha annuciato già  che darà per decreto pioggia d’incentivi fiscali ai conferenti…). 
Ma intanto, allo stato, non si capisce bene la natura giuridica stessa di Atlante: è una Sicav o cos’altro, o un AIF? In quest’ultimo caso sarebbe sottoposto a limiti molto stretti dalle attuali norme Bankitalia, non potrebbe avere leva finanziaria superiore a 1,5 , ergo con dotazione 5-7bn col cavolo che potrebbe davvero coprire inoptati prox aumenti capitale PopVi, VenetoBanca, Banco Popolare, e addirittura avviare a soluzione il guaio sanguinolento MPS, come è stato fatto invece intendere esplicitamente dai promotori. Allo stesso tempo, Atlante avrebbe anche limiti molto stretti di impegno su controparte per percentuale totale di impieghi. Forse Atlante è qualcosa che ancora non conosciamo, forse con deroghe ad hoc a regole attuali. E a chi risponderà, a Bankit o a SSM? Una cosa è sicura: era meglio chiarire bene natura, governance e regolamentazione del veicolo prima di lanciarlo pubblicamente ai media.  
Quanto alla sostanza: il rischio molto grosso è che appaia come un vero e proprio bail out all’italiana. Il principio BRRD del bail in non è solo divieto a interventi sulle banche del governi cioè a spese contribuenti, è anche in maniera estesa principio che accolla ad azionisti e bondholders subordinati il peso della recovery o dell’eventuale risoluzione di ogni banca. Qui invece si fa una recovery coadiuvata da una clearence house costituita ad hoc, una specie di stanza di compensazione dove siedono banche, fondi pensione, assicurazioni, fondazioni bancarie e Cdp. i rischi evidenti sono molteplici, e cioè che essi : 
a-diventeranno attraverso il veicolo titolari di quote DI CONTROLLO di molte banche italiane;     
b- eserciteranno effetto distorsivo su valori di mercato tanto dell’equity che delle passività bancarie, consentendo il lancio di aumenti di capitale imposti giustamente da SSM a prezzi però MOLTO più alti di quanto avverrebbe per ottenerne la copertura a prezzi di mercato, contando sul fatto che a quel prezzo più alto tranche molto rilevanti saranno acquisite e parcheggiate invece in Atlante; idem dicasi per valori degli NPL, che esplicitamente Atlante dichiara di esser pronto a rilevare ( ma per quante decine di miliardi su oltre 83 mld netti di sistema, a fronte della dotazione striminzita di conferimenti dichiarata?) a valori allineati il più possibile a quelli attuali di libro e cioè tra il 45 e il 55% del nominale a seconda delle diverse banche, invece che a svalutazione di mercato 17,5% su 100 di nominale come nelle 4 banche risolte a novembre…
c- terranno probabilmente fuori – sono i promotori a dichiararlo – dal mercato per il controllo proprietario degli asset bancari italiani sia fondi sia banche straniere: Fortress ha già mollato e altrettanto farà a quanto sembra Apollo in Carige, e forse è ben per questo che Barclays capendo l’antifona a fine 2015 ha ceduto l’intera rete retail e agenzie a CheBanca di Mediobanca, pagando a quest’ultima per sovrammercato 240mln pur di uscire da Italia che vedeva sempre più “avversa allo straniero”.
Sul punto a-, ricordo a tutti che mentre una nazionalizzazione oggi non più possibile azzera azionisti, pulisce attivi bancari e poi è costretta a rivenderla al mercato, la governance pseudo-privata-para-pubblica di Atlante – che comunque ancora ignoriamo nei particolari – corre seriamente il rischio di rendere tutto opaco e difficilmente criticabile, perché manager e azionisti bancari, Confindustria e media italiani brindano tutti alla nascita di un veicolo il cui scopo dichiarato è tenere le cose come stanno… Il precedente storico, inoltre,  è poco rassicurante: quando nel 1922 per salvare le banche miste italiane nacque il consorzio sovvenzione valori immobiliari rilevandone le partecipazioni industriali, non si evitò poi né il crollo bancario né le industrie vennero restituite al mercato. Nel 1933 le partecipazioni del consorzio finirono attribuite alla “sezione smobilizzi” del neonato IRI che doveva dismetterle entro 10 anni, e invece l’IRI si tenne tutto e si allargò fino a divenire il primo Kombinat pubblico dell’intero Occidente, e durò la bellezza di 63 anni prima che arrivasse l’obbligo di liquidazione dall’Europa con Van Miert e sottoscritto dal benemerito Andreatta … Atlante nasce come consorzio sovvenzione valori bancari ma il precedente è quello, anche se oggi con governance pseudo-privata invece che statale. Ma in sostanza il grande pericolo è che appaia come un calcio alle regole BRRD  e a SSM. Alcuni, potrebbero anche immaginare  che sia come uno scudo alle banche per andarcene da soli, in caso saltassero Ue ed Euro negli anni travagliati dell’eventuale postBrexit e delle successive problematiche elezioni che si terranno in grandi paesi Ue… Ma quand’anche fosse questa l’ipotesi inconfessabile delle autorità e dei promotori privati di Atlante, allora dovrebbero preoccuparsi di mettere a punto un veicolo impeccabile per regole e capitale all’altezza dei fini dichiarati, non un accrocchio che fa inabissare ulteriormente i corsi bancari anche delle banche sane.
12
Apr
2016

Pianificazione urbanistica e criminalità: come lo statalismo ha allevato una serpe in seno —di Gemma Mantovani

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gemma Mantovani.

È comparsa qualche giorno fa la notizia della demolizione della casa natale di un vip. Ma non si tratta di una lussuosa villa in California o di un castello nell’Oxfordshire. Si tratta di un palazzo grigio, orribile, di cemento armato, uno dei tantissimi tutti attaccati l’uno all’altro. Siamo nel quartiere nel quale è cresciuto quello che è diventato un mito del calcio francese, Zinedine Zidane, una banlieue di Marsiglia, la Cité de la Castellane, un quartiere che vive una vera e propria emergenza criminalità. Fra quelle strade e in quelle case disoccupazione, traffico di droga e crimine la fanno da padroni. Un vero e proprio fortino, inaccessibile anche agli uomini delle forze dell’ordine. Per questo, si continua nell’articolo, il comune ha deciso di avviare un’opera di riqualificazione della zona, che passa attraverso l’abbattimento di alcuni di questi palazzi. E si comincerà proprio dall’edificio G, quello in cui è cresciuto e ha trascorso la sua infanzia l’attuale tecnico del Real Madrid. La demolizione è prevista a metà aprile, nel 2017, sarà poi il turno della torre K, composta da 97 alloggi, ormai in mano a trafficanti e spacciatori. Read More

11
Apr
2016

Su Riina, Vespa e, soprattutto, sulla Rai—di Mario Dal Co

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Mario Dal Co.

L’occasione

L’intervista di Bruno Vespa al figlio di Riina per la pubblicazione del suo libro autobiografico ha dato luogo ad una serie di polemiche in cui il mondo politico si è tuffato a capofitto.

Dall’intervista emerge una separatezza della vita e dei valori allucinata, stupefacente per uno spettatore non esperto di mafia. Qualcuno sostiene che il figlio di Riina si sia candidato a fare l’erede del padre. Forse. Ma mi ha colpito in modo assai più profondo la sensazione che, con il tipo di vita imposto alla famiglia, il padre non gli abbia dato scampo, non gli abbia concesso nessuna chance: non la scuola come gli altri, non la libertà di ribellarsi alla famiglia come accade a quasi tutti i giovani, non la possibilità di trovare una sua strada. Ma non sono un esperto di mafia. Il servizio giornalistico in sé era interessante e non avrebbe dato adito ad alcuna polemica se la Rai non fosse pubblica. E’ questo filtro distorto che impedisce una discussione normale sui contenuti, imponendo il terreno tutto politico di discussione sul quesito se il servizio pubblico debba occuparsene e come. Un quesito che nulla ha a che fare con la qualità del lavoro giornalistico e dell’informazione. Il quesito verte sul se e sul cosa deve dire il servizio pubblico.

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10
Apr
2016

Lo Stato rientra nelle tlc con Enel, con un mucchio di guai regolatori da chiarire

Diamo per scontato un grande consenso alla missione “banda larga ovunque”, presentata a palazzo Chigi dal premier Renzi e dai sindaci di 5 città, presenti i vertici dell’Enel che ne è protagonista.“Va bene fare le scuole, le strade, la bonifica di Bagnoli”, ma per “immagine l’Italia dei prossimi 20 anni bisogna puntare sulla banda larga”, ha detto il premier. Visto il ritardo che registriamo in tutti i ranking internazionale di settore, giustissimo. Tuttavia, l’entusiasmo non deve farci dimenticare che ora, lanciata l’operazione, vi sono numerosi aspetti regolatori da tenere nella massima considerazione. Prima li si chiarirà, meno problemi insorgeranno. In ballo, infatti, c’è la fair competition tra tutti gli operatori del settore, cioè le condizioni affinché la nuova offerta di banda larga ottemperi a tutte le necessarie condizioni perché avvenga in maniera coerente alla concorrenza da garantire. E a questo si aggiunge un secondo capitolo: evitare contestazioni europee su eventuali aiuti di Stato.

In coerenza ai princìpi europei, e a quanto dichiarato dal governo nei lunghi mesi alle nostre spalle spesi nel tentativo di convincere tutti gli operatori ad aderire a Metroweb, i 4,9 miliardi di euro di fondi pubblici deliberati dal CIPE dovevano servire alla copertura delle “aree bianche”, quelle a minor domanda sin qui di servizi a banda larga ergo a minor ritorno degli investimenti degli operatori privati. Il progetto affidato a Enel Open Fiber è tutt’altra cosa. Si tratta di assicurare entro il 2020 la copertura del 100% del territorio italiano con una connessione a 30 Mbps e il 50% a 50 Mbps. Per le aree bianche, le gare devono ancora essere bandite. Su questo s’incardina il rischio di contestazioni europee per aiuti di Stato all’ex monopolista elettrico, ed è bene fare in modo di evitarle. Altrimenti, molti mesi si frapporranno all’avvio concreto del progetto.

Quanto alla concorrenza, quel che serve è un’iniziativa concertata senza precedenti da parte dell’Autorità dell’Energia alla quale soggetta Enel, e insieme dell’Agcom che vigila sulle tlc. E’ un precedente europeo, in nessun altro grande paese l’ex monopolista elettrico è attore dell’offerta di banda larga retail, cioè direttamente ai clienti finali, e insieme wholesale, l’offerta all’ingrosso ai concorrenti di Telecom Italia di potersi avvalere della nuova infrastruttura in fibra per i propri clienti finali. E finora la diversificazione in altrui settori delle società elettriche non ha portato bene né all’Enel in passato, proprio nella telefonia, né ai grandi competitor di settore. Certo Enel non è non è un’incumbent nelle tlc come Telecom Italia, che è soggetta per la sua posizione di mercato a una regolazione più “stretta”. Ciò malgrado vanno preventivamente chiariti con grande attenzione molteplici aspetti dei costi e degli investimenti sostenuti da Enel nel suo progetto banda larga, nonché delle tariffe che praticherà e delle modalità in cui le tariffe saranno proposte ai clienti. Solo il concorso straordinario delle due Autorità di settore può evitare opacità e pasticci regolatori, ed eventuali e inevitabili impugnative da parte di Telecom Italia.

L’Autorità per l’Energia in una recente delibera ha stimato come “modeste” le sinergie tra sostituzione dei contatori di consumo elettrico con quelli digitali di nuova generazione. Al contrario, l’Enel afferma che in questo modo l’investimento è tra il 30 e il 40% inferiore rispetto agli altri operatori di Tlc. Com’è possibile, visto che il decreto 133/2008 garantisce a tutti gli operatori l’accesso a cavidotti esistenti in condizioni di parità e senza oneri? In ogni caso, gli investimenti in banda larga di Enel andranno realizzati, contabilizzati e gestiti in maniera separata da quelli per i contatori di servizio elettrico. In maniera tale da consentire all’Agcom un’attenta ricognizione della provenienza delle fonti finanziarie impiegate e della modalità della loro remunerazione, allo scopo di evitare sussidi incrociati da offerta elettrica che sarebbero lesivi della concorrenza verso le imprese di tlc, o tali da configurare un improprio sostegno ai concorrenti di Telecom Italia che pagassero tariffe wholesale artificiosamente inferiori, grazie al sussidio elettrico, a quelle possibili da sola offerta di servizi di comunicazione. Lo stesso dicasi per la bollettazione, che non può avvenire al cliente finale in bolletta elettrica, già sovraccarica di oneri impropri e ora anche del canone Rai.

Tralasciamo tutti gli altri aspetti su cui le cifre sin qui date da Enel e Telecom Italia divergono: dalla percentuale dei nuovi contatori direttamente nelle case, alla distanza media dalla centrale di smistamento Telecom, alla penetrazione complessiva in Italia delle proprie reti, che Enel vanta come superiore a Telecom Italia quando quest’ultima, grazie al vecchio telefono fisso, è invece al 100%. Tutto ciò fa parte di una normale dialettica concorrenziale. Ma sugli aspetti regolatori che riguardano la piena trasparenza della formazione di investimenti, costi e tariffe invece no, perché il progetto si avvii bene la chiarezza preventiva deve essere massima. E’ nell’interesse stesso degli azionisti di mercato italiani e internazionali in Enel diversi dallo Stato, ottenere il massimo della trasparenza su rischi e ritorni di questo nuovo maxi progetto. Altrimenti il pericolo è di non ottenerne le ambiziose finalità, e di infliggere un altro bel danno a Telecom Italia.

 

10
Apr
2016

Caso Regeni: attenti alla Francia nella partita Italia-Egitto

La tensione tra Roma e il Cairo sale giorno dopo giorno. Sembra impenetrabile il muro delle autorità egiziane all’accesso per gli inquirenti italiani ai dati sensibili dell’inchiesta sull’assassinio e le torture di Giulio Regeni. Che cosa è in gioco nei rapporti italo-egiziani? Una grande partita economica, sin qui più importante per l’Egitto che per noi. Ma anche una forte partnership politica tra governo Renzi e presidente al Sisi. Se l’Italia congela le relazioni con l’Egitto, l’equilibrio può dunque cambiare: gli egiziani possono sostituirci innanzitutto coi francesi in alcune partite economiche, e le conseguenze politiche per l’Italia si rivelerebbero subito sul difficile fronte degli interventi per stabilizzare la Libia.

Qualche numero. L’Italia è il quarto partner commerciale mondiale per l’Egitto, con un commercio bilaterale che dai 5,2 miliardi di dollari (bel un miliardo l’anno di soli macchinari produttivi italiani per le imprese egiziane) era previsto raddoppiare nel giro del 2018. L’Eni è il secondo investitore più importante in Egitto nel settore petrolifero e del gas. Ogni anno, prima degli attacchi jihadisti ai complessi turistici a Sharm el Sheik e in Sinai, 6-700mila turisti italiani si recavano in Egitto.

Renzi fin dalle prime settimane in carica come premier, nel 2014 rivelò di non avere dubbi sul pieno sostegno italiano ad al Sisi, malgrado tutti i dubbi possibili sulla sua presa del potere contro il precedente leader Mohamed Morsi, espressione della Fratellanza Musulmana. Se la prima visita in Nordafrica di Renzi era stata a Tunisi, subito nell’estate 2014 era personalmente andato al Cairo da Abdel Fattah al Sisi. Per Renzi, al Sisi era un baluardo contro il propagarsi di Daesh in Libia a Ovest, nel Sinai a Est e nel deserto sahariano a Sud, ed era l’unico mediatore possibile della crisi di Gaza. E il regime di al Sisi aveva riservato a Renzi un’accoglienza calorosissima.

Quella dell’ENI in Egitto è storia che viene dal lontano, dal 1954, rafforzata sotto Nasser dagli scontri egiziani con gli USA e dal fallito intervento militare franco-britannico nel 1956, contro la nazionalizzazione del canale di Suez. Ma i rapporti in questi anni andavano a gonfie vele. Dopo la scoperta nel 2014 a opera dell’Eni nel bacino esplorativo egiziano di Zohr del maggior giacimento della storia del Mediterraneo, con un potenziale di risorse fino a 850 miliardi di metri cubi di gas (5,5 miliardi di barili di olio equivalente), nel 2015 l’estensione delle concessioni italiane è stato oggetto di trattative serrate. Il ministro del petrolio egiziano, Sherif Imail, e il primo ministro Ibrahim Mahlab avevano avuto ordine diretto da al Sisi di abbreviare i tempi per formalizzare i nuovi progetti italiani. Ne era scaturito un impegno a investimenti totali per 5 miliardi di dollari, finalizzati allo sviluppo di 200 milioni di barili di petrolio e circa 37 miliardi di metri cubi di gas. Formalizzato nell’estate 2015 alla presenza del premier Renzi.

Per avere un’idea del rilievo per l’Egitto di questi investimenti, l’Arabia Saudita del re Salman, prima dell’annuncio venerdì di un nuovo piano con al Sisi per un ponte in grado di attaversare il mar Rosso, aveva annunciato investimenti per 8 miliardi di dollari in 5 anni: non molto più dell’Italia. Anzi, meno. Perché durante l’EXPO di Milano, a quelli dell’ENI si erano aggiunti accordi di investimenti e lavori in Egitto per aziende italiane oltre l’ENI per altri 3,5 miliardi di dollari, sempre nel comparto energetico della ristrutturazione di impianti di raffinazione, centrali energetiche e pipeline: impegni sottoscritti da Edison,Technip Italia, Ansaldo Energia. E la missione italiana del MISE che era in corso quando fu interrotta proprio dall’assassinio di Giulio Regeni, preveda la firma di nuovi importanti accordi per il settore delle infrastrutture portuali, stradali e di comunicazione, si parlava di primari contratti per aziende italiane volte alla realizzazione di sei porti a Nord e Sud del nuovo Canale di Suez.

Anche nel settore bancario, il gruppo Intesa Sanpaolo, presente da anni in Egitto, intendeva rafforzare l’interscambio tra i due paesi offrendo servizi di consulenza e linee di credito a condizioni competitive a un gruppo selezionato di 300 aziende egiziane. E non è un mistero che nei momenti difficili di alcune trattative d’affari italo-egiziane una buona parola sia sempre stata messa da

Naguib Sawiris, l’imprenditore egiziano della minoranza copta cristiana che nelle tlc italiane ha investito molto negli anni con la sua Orascom, e che vanta un patrimonio che ne fa il secondo uomo d’affari privato egiziano al di fuori del complesso militar-industriale controllato dal regime attraverso le imprese pubbliche.

Chissà che non sia saggio chiedere a lui di svolgere un’azione di mediazione. Perché una cosa è sicura. La Francia è molto pronta ad approfittare di un congelamento delle relazioni italo-egiziane. Non ha solo fornito al regime di al Sisi le navi d’assalto anfibio classe Mistral promesse alla Russia e poi dirottate sul Cairo dopo le sanzioni a Mosca per il conflitto ucraino. Le aziende energetiche francesi scalpitano per erodere le concessioni attribuite all’ENI. Soprattutto, la Francia ha già fatto una scommessa politica diversa dalla nostra. Le forze speciali francesi sono attive in Libia al confine occidentale del paese, quello con l’Egitto dove per altro si collocano gli impianti petroliferi francesi, perché Parigi condivide l’interesse egiziano a realizzare una zona cuscinetto al suo confine libico, direttamente sotto il controllo di forse di sicurezza egizianie col sostegno francese, contro ogni infilitrazione jihadista e come segno che l’egemonia sunnita in medio oriente non è turca, ma egiziana. Fino ad oggi, l’Italia non aveva sposato questa soluzione, ma perseguiva l’accordo nazionale libico guardando a un nostro ruolo soprattutto sul confine orientale del paese, verso Tunisia e Algeria dove sono gli impianti ENI.

Lo scontro sulla tragica vicenda Regeni può dunque farci molto male sul terreno economico. E può portare alla brutale sostituzione da parte egiziana del ruolo politico sin qui dal Cairo riconosciuto innanzitutto a Roma, in Nordafrica e Medioriente, con una partnership invece francese.  Poiché l’Italia agisce per strappi, alternando il troppo poco e il troppo, l’essenziale è non dimenticarlo.

 

7
Apr
2016

Risanare Bagnoli è un banco di prova nazionale, sbaglia chi tira le pietre

Quel che è avvenuto ieri a Napoli deve fare molto riflettere. Perché ha una portata non solo napoletana, ma nazionale. C’è un governo che si presenta col suo premier a Napoli per la prima riunione in vista del piano di bonifica integrale dei 230 ettari dell’ex area Italsider a Bagnoli. Che ha stanziato per questo 272 milioni di euro. Che apre il 14 aprile la conferenza dei servizi, per consentire l’ascolto di tutti gli Enti Locali e le diverse espressioni del territorio, a cominciare da Comune di Napoli e Regione Campania. Con una data certa entro la quale chiuderne i lavori, un mese, per procedere poi all’avvio delle bonifiche e dei nuovi progetti, messi a punto sinora da Invitalia con il commissario Salvo Nastasi.

Eppure, di fronte a questo, la reazione del sindaco de Magistris e della sua giunta è, come preannunciato, di chiusura totale. Nessuna partecipazione alla cabina di regia. Due assessori anzi hanno preferito partecipare alle manifestazioni di piazza, sfociate poi in scontri con 11 agenti feriti. Il progetto del governo viene considerato dalla giunta un arbitrio illegale. Malgrado il giudice amministrativo abbia pienamente rigettato l’impugnativa presentata dal Comune contro l’articolo dello sblocca-Italia che ha avviato il progetto di bonifica. Per carità, si può dissentire su tutto. Ma l’amministrazione napoletana che respinge financo il confronto, e preferisce manifestazioni che diventano scontri di piazza, non manifesta un legittimo dissenso politico. Rischia invece di alimentare, come istituzione municipale, un’atmosfera che sembra evocare una vera e propria guerra civile.

Ci sono tre punti almeno su cui riflettere. E’ un esproprio nazionale delle competenze napoletane? C’è un’alternativa percorribile e migliore? E questa scelta, riguarda davvero solo Napoli, oppure ha un carattere nazionale?

La risposta alla prima domanda discende dalla storia. Lo stabilimento Italsider nasce nel 1905. La crisi delle sue diverse produzioni data alla fine degli anni Sessanta. Il piano regolatore di Napoli del 1972 comprende il primo progetto per la deindustrializzazione dell’area. Che in realtà vedrà la luce solo in una variante al piano regolatore approvata 24 anni dopo, nel 1996, quando gli stabilimenti hanno cessato da anni la produzione. La Bagnoli spa del Comune di Napoli aspetterà il 2006 per lanciare il concorso internazionale per i progetti di un parco urbano, un parco dello sport, il polo tecnologico dell’ambiente, e un’area ricettiva per il progetto di porto-canale. Ma tutto s’ingolfa. La vendita delle aree per la realizzazione dei progetti, mentre gli anni passano, vede gli operatori non credere più alle promesse. Le aste vanno deserte. Le opere intraprese restano interrotte. Nel 2013 Bagnoli Futura è morta, i carabinieri sequestrano le aree e l’ipotesi è il disastro ambientale. A metà 2014 la Bagnoli spa è dichiarata fallita dal Tribunale. I fatti parlano chiaro: dal 1972 al 2016 sono passati la bellezza di 44 anni. E Napoli e la Campania da sole non ce l’hanno fatta. Ergo quello odierno non è un esproprio, ma la via da percorrere per affrontare e guarire nazionalmente un bubbone pluridecennale.

L’alternativa al progetto del governo, con tutto il rispetto per le 60 slides presentate mesi fa dal sindaco de Magistris, non c’è. Non solo perché Napoli non ha le risorse finanziarie da destinare a un progetto di ristrutturazione urbana di simile portata. Ma perché a questo punto il significato da annettere all’intervento è quello di un vero e proprio riscatto non solo per Napoli, ma per l’intero Mezzogiorno e per tutto il Paese. Renzi parla con l’enfasi eccessiva che spesso lo contraddistingue. Ma quando ieri il premier ha detto “ci sono 272 milioni di euro per la ripulitura di Bagnoli, sono i denari che servono a Bagnoli per tornare in mano ai napoletani, a Napoli per essere capitale del Mezzogiorno e all’Italia di essere una nazione degna del futuro”, le sue sono state paroleper una volta a mio giudizio  ben dette.

Tornare da Posillipo a Nisida alla linea di costa del 1905, realizzare il porto turistico e lo stadio della vela, rilanciare la Città della scienza, rimuovere quell’orrendo ecomostro rappresentato dalla grande colmata di cemento, ridurre le cubature edilizie previste anni  ani fa per il residenziale e il commerciale e aumentare quelle destinate a servizi. Fare tutto questo entro il 2019, in vista delle Universiadi che Napoli ospiterà. Con norme rigorose anti corruzione e anticamorra, su cui l’ANAC di Cantone è già impegnata. Che cosa c’è di irrimediabilmente sbagliato in tutto questo, tanto da contrapporvisi come se si trattasse di un’invasione aliena? Come si può davvero respingere un progetto che finalmente si assume la responsabilità di fare della maggiore area metropolitana del Sud un banco di prova non nazionale ma europeo, per uno dei più grandi progetti di risanamento su scala continentale?

Se la scommessa a Napoli sarà vinta, davvero e senza retorica un pezzo fondamentale del rilancio italiano e del Sud sarà stato avviato. Il tempo e il modo per discutere e obiettare c’è. Quello che però non va persa, è l’occasione storica di riparare a 44 anni di fallimenti e declino. Non bisogna farlo sbattendo i tacchi. Si possono e devono avanzare tutte le controproposte del caso: ma nelle sedi istituzionali deputate. Ma bisogna crederci intensamente, per costruire insieme una nuova identità che sostituisca quella amaramente descritta nella canzone di Edoardo Bennato, “Vendo Bagnoli”, che già nel 1989 esprimeva tutta la disillusione dei napoletani ai progetti di risanamento. Ed era il 1989: 27 anni fa, trascorsi invano.

 

4
Apr
2016

Porti: nell’indifferenza generale, la copia esatta del caos-trivelle

Quando l’Italia prova a riformarsi, spesso ricade su se stessa e si scopre irriformabile. Sta capitando non solo sulle trivelle e l’energia. Anche sulla riforma dei porti. Per la stessa ragione: scontro Stato-Regioni, e lotte interne al Pd. Proviamo almeno sui porti a lanciare un appello. Cerchiamo di evitare il caos che sembra profilarsi, di fronte al quale gli operatori mondiali del traffico merci e passeggeri ci prenderebbero per pazzi.

Per ricordare l’importanza dei porti per l’economia italiana bastano poche cifre. Nel 2015 solo attraverso i 12 maggiori scali sono passate 263 milioni di tonnellate di merci, con un aumento del 3,7% sul 2014, e porti come Livorno e Venezia hanno registrato crescite del 15%. Il traffico container ha perso uno 0,5% sul 2014 grazie alla picchiata che continua di Gioa Tauro e del suo modello di tran-shipment con  un meno 16%, ma altri scali sono cresciuti del 32% come Livorno, del 23% Venezia, del 12% Salerno.

Dopo anni di vani tentativi, con il ministro Delrio era finalmente stata varata una riforma dei porti, attraverso un decreto attuativo della riforma PA Madia, approvato a gennaio scorso. Dalle 24 Autorità portuali esistenti di cui 18 attualmente commissariate, si sarebbe passati a un sistema di 15 Autorità di Sistema, accorpando e gestendo complessivamente 54 maggiori scali italiani. Alla guida delle Autorità di Sistema strutture leggere: un presidente, un segretario generale, un comitato di gestione e un collegio dei revisori. Con emolumenti e gettoni di presenza fissati dal ministero delle Infrastrutture. Semplificazioni: uno sportello unico amministrativo, uno sportello unico doganale per ogni sistema portuale invece delle singole emanazioni dell’Agenzia delle Dogane, procedure rapide per la redazione e approvazione dei piani regolatori portuali.

Senonché, l’identificazione governativa delle Autorità di Sistema non è piaciuta alle Regioni, forti intanto della pronuncia della Corte costituzionale che a dicembre già aveva smontato il Piano della logistica nazionale in quanto non concordato con le Regioni, alle quali l’attuale titolo V° della Costituzione attribuisce competenza concorrente insieme allo Stato (in attesa che passi la riforma sottoposta a referendum nel prossimo autunno). Ergo alcuni presidenti di Regione hanno subito chiarito al governo che poteva levarselo dalla testa, di individuare lui i presidenti delle Autorità di sistema accorpando le autorità portuali di vecchio rito. Non in tutte le Regioni  a protesta è stata di pari tenore. Ma tra tutti in Campania De Luca è stato molto netto, poiché l’Autorità di sistema è incardinata su Napoli e assorbirebbe quella di Salerno, che è scalo in crescita e più efficiente. Proteste analoghe da Liguria, Sicilia, Sardegna.

Ed eccoci al punto. La settimana scorsa il tema è stato affrontato in conferenza Stato-Regioni. E il governo si è piegato a un compromesso, visto che la riforma costituzionale è di là da venire.  Ancora una volta, decisiva la posizione della Campania. L’intesa prevede che il decreto legislativo di riforma preveda, su richiesta motivata dei Presidenti delle Regioni al presidente del Consiglio, la proroga fino a tre anni della gestione autonoma delle Autorità Portuali attuali, già costituite ai sensi della legge vigente dal 1994. E’ un compromesso singolare. In parole povere, nei prossimi tre anni ogni Regione potrebbe trovarsi con un sistema portuale a geometria variabile, con tre diverse forme giuridiche di amministrazione dei porti.

Proviamo a spiegarlo. Facendo una ricognizione di ciò che si apprende informalmente dalle diverse Regioni, potrebbe andar così. La Liguria sicuramente chiederà al premier la moratoria. Toti valuterà se tenere Genova sotto commissario, com’è attualmente, se procedere a dotarla della nuova governance di Autorità portuale di sistema, ma di sicuro  difenderà per Savona presidente e comitato portuale attuale, senza accorparla a Genova. In Toscana, il governatore Rossi non dovrebbe aver problemi a costituire l’Autorità di Sistema su Livorno accorpando Piombino, ma potrebbe anche tenere i commissari attuali. Difficile invece immaginare ceda al ligure Toti Carrara, che dovrebbe accorparsi sotto l’Autorità di Sistema a La Spezia. Il Lazio ha meno problemi: l’Autorità di Sistema incentrata su Civitavecchia è quella di fatto più avanzata accorpando – dicono – non solo gli scali laziali, ma anche quelli marchigiani, che preferiscono all’accorpamento adriatico l’opzione laziale di comune corridoio logistico.

Ed eccoci in Campania. Di sicuro De Luca non vuole l’accorpamento immediato di Salerno e del suo presidente Annunziata sotto l’Autorità di Sistema incardinata a Napoli, oggi commissariata (da oltre 4 anni, con perdita di fondi europei utilizzabili e mille ritardi sulle opere). Quindi, chiesta la deroga triennale, come in Liguria De Luca potrebbe scegliere di tenere il commissario a Napoli, oppure di costituire a Napoli un’Autorità di Sistema sulla carta, alla quale però Salerno non sarebbe accorpata restando con l’attuale comitato portuale.

In Calabria, l’accorpamento Gioia Tauro –Messina è problematico, perché di sicuro il governatore siciliano Crocetta chiederà la moratoria, non morendo dalla voglia di accorpare Trapani su Palermo e Catania su Augusta. Idem dicasi per la Sardegna, che porrebbe chiedere la moratoria dotando Cagliari di Autorità di Sistema sulla carta, ma tenendone fuori Olbia per tre anni. Di sicuro la Puglia chiederà la moratoria a propria volta, anch’essa giocando tra vecchie e nuove forme giuridiche tra Taranto, Bari, Brindisi e Manfredonia. Mentre sul resto del versante Adriatico, non dovrebbero chiederla né le Marche incardinate su Ancona, né il Friuli su Trieste, né l’Emilia Romagna su Ravenna.

Come si vede, convivrebbero dunque commissari, nuove Autorità snelle di Sistema ma quasi mai davvero di sistema, e vecchi presidenti e comitati portuali a composizione diversa dai precedenti. I primi possono operare per le opere portuali ma non nei piani urbani retrostanti, le seconde non avrebbero competenze amministrative unificate, le terze di vecchio rito resterebbero invece paradossalmente le uniche pienamente operative (nella segreta speranza che tra tre anni, a nuovo governo, e magari a referendum costituzionale che non approva il nuovo testo sulle competenze strategiche nazionali, tutto si ridiscuta..). L’Agenzia delle Entrate e quella delle Dogane dovrebbero adattare la propria organizzazione alle diverse scelte di ogni Regione. Compagnie internazionali commerciali e terminalisti si troverebbero a fare i conti con tre regimi diversi. E tenete presente che la riforma Delrio è un passo avanti perché ha organi snelli e con poteri più efficaci sulla carta, ma aveva e ha anche  il difetto sostanziale di tagliare la rappresentanza a tutti i privati che operano nei porti, riservando le nuove Autorità a nomine solo politiche (in piena coerenza allo schema seguito sin qui dal governo Renzi, che protesta contro i poteri forti ahah..).

Chiunque, anche non del settore, dopo una simile descrizione capisce che è una frittata indigeribile, la prova che in Italia i veti portano solo a sbattere. Per di più, come su energia e trivelle, sono quasi tutti problemi e veti che nascono in un solo partito: il Pd.

Ed eccoci all’appello finale. Poiché in ogni caso i presidenti di Regione si sono assicurati il diritto pieno che le nuove nomine dei presidenti delle Autorità di Sistema saranno fatte di piena intesa col governo, non hanno più nulla da temere su nomine imposte da palazzo Chigi. Ma allora, per favore, si mettano una mano sulla coscienza. Evitino all’Italia tre anni con porti di natura trinitaria. Tentino un altro confronto col governo per darsi criteri uniformi. Altrimenti ci sarà una sola conseguenza. Forse crederanno di tenere in vita presidenti loro amici ancora per un po’. Ma di sicuro faranno perdere traffico ai porti italiani. Perché gli operatori internazionali ridono a crepapelle, appena spiegate loro la soluzione che sembra profilarsi. Un solo esempio? A New York un’unica Autorità gestisce il porto, e l’aeroporto John Fitzgerald Kennedy: e scusate se è poco.

 

4
Apr
2016

Conflitti d’interesse e pm: sull’energia è caos, altro che i poteri forti di cui parla Renzi

Ministri in conflitto d’interesse. Politica e partiti che antepongono scontri interni e tra loro al merito delle scelte. Indagini della magistratura che intervengono su fatti puntuali destinati inevitabilmente a suscitare però vastissime onde politiche. Su tutto, l’incoercibile pulsione a non saper distinguere ciò che è bene per l’economia nazionale, dall’interesse di questo o di quello. Sono questi, i tre potenti fattori all’opera nella vicenda giudizial-politica trivelle-petroli.  Purtroppo non è una novità. L’Italia procede così da molti anni. L’effetto a cui i tre fattori concorrono è innanzitutto uno. Non lo spostamento di consensi politici che ne deriva, e su cui molti si soffermano. Ma il consolidamento nei decenni di una vera e propria cultura anti industriale.

Occorre naturalmente distinguere, per non essere equivocati. L’ex ministro Guidi ha sbagliato a patrocinare e informare passo passo il suo compagno degli emendamenti sull’avvio dell’impianto estrattivo di Tempa Rossa. Il suo compagno è indagato e ne risponderà, per traffico d’influenze su pubblici ufficiali al fine di procacciarsene impropri vantaggi.  Il conflitto d’interesse si dimostra ancora una volta problema numero uno della vita politica italiana. Ed è ancor più rilevante se a incorrervi è un ministro imprenditore, con l’azienda di famiglia attiva nel settore dell’energia. Fa testo una gran lettera che Quintino Sella scrisse al fratello Venanzio il giorno prima di assumere l’incarico di ministro del Tesoro, lasciando alle sue mani l’impresa di famiglia. Ti chiedo un impegno d’onore, gli disse: finché durerà la mia permanenza al ministero, prometti di non chiedere alcun contratto al governo. Il problema non è di oggi, visto che correva l’anno 1864.

C’è poi un secondo filone d’indagine, sull’improprio trattamento di oli di risulta dall’estrazione di fonti fossili in val d’Agri, e i responsabili di progetto Eni ne risponderanno.  C’è infine un terzo troncone che riguarda addirittura potenziamenti dei terminal energetici del porto siciliano di Augusta collegati alla Legge Navale pluriennale di rifinanziamento della nostra Marina Militare, e qui già ci sarebbe molto da discutere. Avendo seguito per anni il confronto politico-parlamentare sulla questione di come evitare che la Marina si trovasse in ginocchio alla dismissione delle vecchie fregate classe Maestrale, solo dei matti possono credere che un simile piano strategico decennale possa dipendere da qualche piacere ai terminal energetici del porto di Augusta. E c’è infine l’ipotesi di far ricadere tutto sotto il grande ombrello dell’ipotesi di “disastro ambientale” contenuto nel nuovo testo di legge sugli ecoreati, e su questo ci sarebbe da discutere ancor più a fondo. Perché è la stessa leva giudiziale con la quale ci siamo inflitti l’enorme disastro irrisolto da 4 anni dell’atterramento via ripubblicizzazione giudiziale dell’ILVA.

Ciascuno di questi filoni d’inchiesta finisce per alimentare un’atmosfera caliginosa nella quale tutti i sospettati, implicati ed evocati vengono dipinti come spietati malversatori del bene pubblico, attentatori degli interessi economici nazionali e della salute dei cittadini. Multinazionali energetiche come Eni, Total, Shell, sottoposte in Italia a cervellotiche procedure di autorizzazione nazionali e locali con Stato e Autonomie tra loro in lotta e sindaci che presentano liste di persone da assumere altrimenti boccano tutto, sembrano diventare perversi burattinai di politici che si guardano solo l’ombelico: chi preso da un legame personale, chi dal tentativo di cambiare segretario al proprio stesso partito, chi invece proteso solo a spremere al massimo ogni limone possibile, si tratti di assunzioni oppure di consenso in vista di un referendum.

I grandi numeri dicono che l’effetto è un altro. Anche se non sembra interessare praticamente a nessuno. Riaprendo all’esplorazione e all’estrazione di fonti fossili nazionali, come il governo Renzi aveva fatto dopo i veti del centrodestra e di Monti, l’Italia avrebbe attirato un programma già delineato di investimenti – tra nazionali e soprattutto esteri – pari a 16 miliardi di euro. Espandendo la quota domestica di soddisfacimento del nostro fabbisogno oltre il 10% attuale.

L’effetto della caduta della Guidi, delle indagini in corso e del quesito referendario del prossimo 17 aprile – in realtà su un aspetto del tutto secondario, la durata delle concessioni non più coincidente con la vita dei giacimenti oltre le 12 miglia dalla costa – corre ormai il sempre più probabile rischio di far saltare anche i 6 residui miliardi di investimenti (di cui 5 al Sud) che sopravvivevano alla marcia indietro cui il governo è stato costretto nella legge di stabilità 2016 dai quesiti referendari.

E’ un colossale falò di risorse che freneranno la crescita italiana. In nome di più fonti rinnovabili sussidiate dal contribuente e dal cliente finale in bolletta, come già non avessimo dovuto far marcia indietro rispetto ai sussidi tropo generosi disposti per anni, che hanno prodotto essi sì disastri ambientali da eccesso di pale eoliche malgrado non siamo certo nelle condizioni di ventosità del Mare del Nord.

Delle 135 piattaforme marine presenti sul territorio italiano a fine 2015, quelle entro le 12 miglia oggetto del referendum sono 92, di cui attualmente 48 eroganti  e rispondenti a 21 diverse concessioni. Dunque il presunto referendum “contro le trivelle” riguarderà tra queste solo il possibile effetto di farne smettere l’attività – con rilevanti problemi e rischi per il suggellamento – allo scadere della concessione invece che ala fine dei bacini estrattivi. Un effetto calcolabile dunque intorno all’1% del fabbisogno nazionale, rispetto al 10% complessivo di fonti estratte in Italia. Eppure, in caso di quorum raggiunto il 17 aprile e vittoria del fronte abrogativo, le conseguenze sarebbero rivendicate ed estese all’intero complesso delle estrazioni nazionali. Nel tentativo – diciamo le cose come stanno – di far perdere il lavoro a circa 30mila addetti diretti e in filiera, con un danno complessivo diretto stimato da Nomisma per oltre 5 miliardi di euro nel solo Sud del Paese. La comunità degli oltre 6 mila lavoratori del distretto adriatico oil e gas di Ravenna ha perso giustamente la pazienza, e di fronte alla strumentalizzazione referendaria ha intrapreso azioni pubbliche per far capire agli italiani che cosa davvero è a rischio. Si badi bene che quei 6mila sono tutti aggiuntivi rispetto ai dipendenti ENI, che a propria volta verrebbero colpiti all’effetto a cascata di un’impropria strumentalizzazione dell’esito referendario. Ma né della dipendenza energetica italiana, né dei lavoratori della filiera, né degli effetti sul Sud già disastrato sembra importare molto alla polemica referendaria. Naturalmente incentrata su “più rinnovabili sussidiate dallo Stato”.

Ripetiamolo. Se ci sono politici che commettono errori e reati, se ci sono manager industriali che ne approfittano, se nelle acque reflue della Basilicata finiscono prodotti tossici non adeguatamente trattati, se nell’impianto di Tempa Rossa c’è qualcosa da chiarire sulla sua sicurezza, tutto questo in un Paese consapevole della propria disastrosa dipendenza energetica – il 90% del nostro fabbisogno – si affronta e si tratta anche con dimissioni politiche e processi.

Ma gli errori si correggono senza procedere a sequestri e blocchi totali. Se si ha un’idea anche solo elementare di quanto pesi l’energia nella nostra bilancia dei pagamenti esteri, tutto si può fare tranne che prendere a calci in faccia tutti gli operatori mondiali del settore.

Se il Pd, com’è evidente, ha due anime interne contrapposte sulle scelte energetiche, si doveva confrontare al suo interno prima, non regolare i conti per via referendaria e giudiziale. Doveva farlo per primo Renzi che è segretario del partito, invece di straparlare oggi di poteri forti contro un governo – il suo – che di potere reale se n’è preso e ne esercita come mai altri nella storia repubblicana.

E invece no. E’ stata puntualmente avviata una nuova ordalia all’italiana, un’ulteriore gara a chi la spara più grossa. Regole certe di competenza tra Stato e Autonomie, autorizzazioni ambientali meno cervellotiche e non puntualmente smentite dai periti di parte dei procuratori della Repubblica, capacità di perseguire i reati senza farne ostacoli insuperabili alle scelte nazionali, questo dovrebbe essere l’ABC di un Paese avanzato. Insieme a partiti e ministri consapevoli che un conto è far polemica sulle auto in doppia fila, altro è il rigore da tenere quando sono in ballo punti di PIL e il futuro delle prossime generazioni.

Dispiace amaramente dirlo. Un Paese che non sa distinguere sanzioni a ministri e manager che sbagliano da scelte economiche complessive e di fondo gioca senza accorgersene sempre nuove partite di declino, e non di sviluppo.