11
Dic
2017

Il bonus mamma: “una buona cosa di pessimo gusto”

I “bonus”, misura economica ormai standard per i governi di questi ultimi anni, hanno il sapore delle “buone cose di pessimo gusto”, come recita una celebre poesia di Guido Gozzano.

Il bonus, per definizione, è un premio elargito ed ispirato da buoni propositi, ma che né soddisfa, né risulta essere particolarmente utile o efficace a contrastare un determinato problema. Al tempo stesso, è una misura politica di pessimo gusto poiché mira in primis a creare consenso politico. Infatti, l’idea che lo stato debba fare un “regalo” a coloro che mettono al mondo dei figli è davvero di pessimo gusto: questo non è altro che il “bonus mamma” di 800 euro stanziato a tutte quelle donne che hanno partorito nel corso dell’anno 2017. Erogato senza alcun limite o pochissimi requisito di sorta, il “bonus mamma” è stato dato a tutte quelle donne all’inizio dell’ottavo mese di gravidanza. Nel caso di parto plurimo il bonus è stato riconosciuto per ogni figlio (ad esempio, il parto di due gemelli ha consentito alle mamme in questione di ricevere 1.600 euro).

Se da un lato, si tratta di soldi che fanno ovviamente piacere a chi li riceve; dall’altro la misura in se non incide in alcun modo sull’obiettivo finale: risollevare il tasso di fertilità. Nonostante questo importante problema il Parlamento sta pensando di confermare questo bonus anche per il 2018. Non contento di questa inefficace misura economica, Matteo Renzi ha recentemente rilanciato una nuova proposta: l’estensione degli 80 euro alle famiglie con figli a carico.

Il problema demografico, ovvero la mancanza di nascite, è un dato di fatto assolutamente drammatico per il nostro paese. Purtroppo, a livello politico, l’interesse a parlare di questa tematica in modo serio è scarso. Da un lato, infatti, una certa politica, vittima della stortura ideologica per la quale i temi figli e famiglia sono roba da propaganda mussoliniana, finge di non vedere o capire. Dall’altro, ci sono coloro che pensano che il sostegno alla natalità possa essere uno strumento anti-immigrazione. Infine ci sono i sindacati, tutti protesi a tutelare lo “status quo” delle fette più anziane della popolazione, che insistono a rimandare l’irrimandabile, ossia l’indicizzazione dell’età pensionabile all’aumento dell’aspettativa di vita.

Il problema demografico è, invece, gravissimo. Ce lo ricorda anche l’ONU: gli italiani sono un gruppo in via di estinzione. Il rapporto tra nascite e decessi nel nostro paese è negativo dal 1990 e da ormai vent’anni la nostra è una popolazione letteralmente ferma. Secondo alcuni economisti non è detto che l’attuale suicidio demografico dell’Italia sarà accompagnato da un conseguente disastro economico. Secondo questi studiosi è possibile rimanere ricchi purché si investa in tecnologia, scienza, istruzione e politiche per la produttività. Questa teoria però si scontra con la realtà. In Italia, oggi, si sta facendo troppo poco per rilanciare gli investimenti ed il nostro sistema educativo. Di conseguenza è facile immaginare come all’interno di una società sempre più anziana l’attuale sistema di welfare possa diventare sempre meno sostenibile. Nessun sistema pensionistico e sanitario è in grado di sopportare trend simili. Ma chi sarebbe disposto a sacrificarsi per le generazioni future?

I figli costano, fare figli non è conveniente e facendoli si diventa relativamente più poveri. Questo vale soprattutto per le classi medie. Tutto il sistema di sostegno alle famiglie con figli andrebbe dunque rivisto poiché quello attuale risulta essere squilibrato, spesso iniquo e certamente mal finanziato. Ad oggi, tra assegni familiari, detrazioni e bonus vari, esistono ben 11 misure nazionali di sostegno alle famiglie. Nonostante ciò alcune categorie familiari particolarmente svantaggiate ricevono aiuti pressoché nulli. Ed è proprio per questo motivo che un sostegno vero non può che tradursi, fondamentalmente, con una ridefinizione dei principi che reggono il nostro sistema di welfare familiare, ristabilendo un diverso rapporto tra cittadino e stato che ci permetta di avere a disposizione più denaro da investire in spese per i nostri figli all’interno di un mercato dei servizi veramente libero e competitivo. All’interno di un sistema più equilibrato le famiglie italiane rinuncerebbero molto volentieri a tutte quelle sporadiche “paghette” dal sapore di patetico spot elettorale.

Un modo concreto e possibile per rimodulare a fondo il sistema attuale può sicuramente essere quello di ripensare radicalmente il nostro sistema fiscale, e nello specifico il rapporto tra fisco e famiglia.  In questo senso, un buon suggerimento viene fornito nella proposta “Venticinque % per tutti” nell’omonimo volume a cura di Nicola Rossi, edito da IBL Libri. In questo volume viene spiegato che se, come oggi, il soggetto passivo del tributo è la singola persona fisica, nell’ambito dei nuclei famigliari si creano situazioni potenzialmente molto distorsive. A parità di reddito complessivo famigliare, l’attuale sistema fiscale (IRPEF ad aliquote progressive incentrato sugli individui) penalizza le famiglie, specialmente le cosiddette famiglie mono-reddito. Con una tassazione ad aliquota unica del 25% tutte queste distorsioni verrebbero meno. Inoltre, non si favorirebbero in modo maggiore le famiglie con redditi più elevati (dove entrambi i coniugi lavorano), né si disincentiverebbe al lavoro il secondo coniuge a basso reddito. La dimensione e le caratteristiche della famiglia utilizzata come unità impositiva potrebbero entrare in gioco nella modulazione dell’esenzione alla base, graduando il minimo vitale esente da imposta, in funzione delle necessità del nucleo, della sua numerosità, della presenza di “soggetti deboli” e di altre condizioni socio-demografiche.

L’Italia ha ancora la possibilità di ristabilire nuove regole con i suoi cittadini, anche allo scopo di ringiovanire la sua popolazione. Se, invece, i futuri governi continueranno nel solco degli ultimi, è facile immaginare come il nostro paese sia destinato a diventare una vera a propria casa di riposo. Con una classe politica incapace di comprendere il preoccupante ed eclatante dato dell’invecchiamento della popolazione, tutte quelle “buone cose di pessimo gusto” come l’attuale “bonus mamma” rischiano di minare completamente il nostro futuro e di ipotecare il nostro presente.

6
Dic
2017

La politica contro il glifosato: perchè non oscurare anche il sole?

Lunedì 27 novembre i 28 Stati membri dell’Unione Europea hanno deciso, attraverso un voto a maggioranza qualificata, di rinnovare la licenza del glifosato fino al 2022. Questa decisione pone così fine ad una lunga diatriba politica iniziata due anni fa e garantisce maggiori certezze all’intero settore agricolo europeo.

Nell’ambito di un protocollo di licenza UE, l’autorizzazione del glifosato sarebbe già dovuta avvenire entro il 30 giugno 2016, ma proprio a causa della mancanza di un accordo al momento del voto del Consiglio, la Commissione aveva optato per una proroga di 18 mesi. Nonostante i numerosi tentativi di mediazione, durante il più recente voto del 9 novembre 2017 i 28 Stati membri non avevano ancora trovato un compromesso. Quel giorno, 14 paesi si espressero a favore del rinnovo, 9 si schierarono contro (tra questi anche Belgio, Francia ed Italia), mentre 5 (tra cui anche la Germania, in quel momento alle prese con un potenziale accordo tra CDU, FDP e Verdi) decisero di astenersi.

La vicenda si è però finalmente risolta settimana scorsa grazie alla decisione di Berlino di appoggiare il rinnovo. Con ben 18 voti favorevoli, 8 contrari e 1 solo astenuto (il Portogallo), gli Stati membri hanno rinnovato l’utilizzo del glifosato. Subito dopo il voto Emmanuel Macron ha immediatamente confermato che il suo esecutivo prenderà tutte le misure necessarie affinché il glifosato (un diserbante non selettivo, ovvero una molecola che elimina indistintamente tutte le erbe infettanti) venga vietato dalla Francia nel giro di tre anni, non appena sarà disponibile un’alternativa. Il governo italiano e quello belga hanno subito appoggiato le istanze francesi spiegando che il voto va contro la tutela dei cittadini europei e dell’ambiente.

Come risulta però essere evidente, la volontà di eliminare l’utilizzo del glifosato a livello comunitario è esclusivamente politica. Fino ad oggi, infatti, l’utilizzo del glifosato è sempre stato ritenuto relativamente innocuo. Non è un caso, dunque, che la maggior parte degli studi più recenti ed importanti sulla molecola in questione spieghino come quest’ultima non sia cancerogena per l’uomo. Ad esempio, nel novembre 2015, l’EFSA (l’Autorità europea per la sicurezza alimentare) ha pubblicato una nuova valutazione del glifosato in cui si afferma che “è improbabile che il glifosato sia geno-tossico (in altre parole, che danneggi il DNA) o che rappresenti un rischio di cancro per l’essere umano”. Allo stesso tempo, nel maggio del 2016 e nel marzo del 2017 sia la FAO che l’ECHA (l’Agenzia europea per le sostanze chimiche) hanno comunicato che non esistono problemi di cancerogenicità della sostanza. Le agenzie sanitarie nazionali di Canada, Australia, Giappone e Nuova Zelanda hanno ribadito lo stesso concetto, mentre secondo l’NPIC (il National Pesticide Information Center) degli Stati Uniti, questa molecola, quando ingerita, passa per la maggior parte attraverso il corpo in modo rapido, venendo subito espulsa.

L’unico studio che ha inserito il glifosato tra le sostante “probabilmente tossiche” è quello pubblicato nel 2015 dalla IARC, l’agenzia internazionale per la ricerca sul cancro. A questo proposito è pero necessaria un’importante precisazione: al gruppo delle sostanze “probabilmente cancerogene” (il gruppo 2A in base alla classificazione dello IARC) in cui si trova il glifosato appartiene anche la carne rossa, alcuni composti chimici utilizzati dai parrucchieri, o le sostanze che si sprigionano dalla frittura ad alte temperature. Secondo questa classificazione, il glifosato sarebbe, ad esempio, meno cancerogeno dell’esposizione al sole. Infine, come viene ricordato dalla IARC stessa, l’appartenenza a ciascun gruppo non è una misura del rischio concreto nella vita di tutti i giorni.

Nonostante la posizione praticamente univoca di tutti i maggiori studi scientifici, la questione glifosato è invece politicamente tossica. I governi di Belgio, Francia ed Italia, da superpotenze agricole dell’Unione quali sono, mirano ad ottenere notevoli vantaggi economici dalla norma. Bruxelles, Parigi e Roma vorrebbero infatti introdurre sul mercato un prodotto “europeo” che possa essere utilizzato al posto dell’attuale “Roundup”, erbicida brevettato e commercializzato dalla Monsanto.

Ad oggi, l’idea che molti politici europei stanno pensando di perseguire sarebbe quella di promuovere un erbicida più “naturale” come Beloukha, un prodotto a base di acido pelargonico di origine vegetale per il controllo non selettivo della vegetazione commercializzato da Jade, un’azienda francese controllata da Belchim, un consorziato agro-chimico belga. Dal 2015, in Italia, Beloukha viene distribuito in esclusiva da Novamont, azienda che due anni fa ha raggiunto un accordo con Consorzi Agrari d’Italia, società a cui fanno riferimento tutti i membri di Coldiretti. Inutile, a questo proposito, ricordare come Coldiretti da tempo si batta purtroppo per i propri interessi lobbystici anziché per tutelare gli agricoltori italiani. Da questo punto di vista la recente vicenda Fidenato-OGM e la continua battaglia contro l’accordo di libero scambio con il Canada non lasciano alcun dubbio: meglio proteggere gli interessi di poche aziende “amiche” piuttosto che tutelare veramente i nostri produttori e raccontare la verità ai cittadini.

Se nel corso dei prossimi anni Beloukha sarà effettivamente in grado di sostituire Roundup in quanto prodotto di qualità superiore con prezzo competitivo, i primi ad accorgersene saranno certamente gli agricoltori europei e non ci sarà bisogno di alcun intervento legislativo. Al contrario, se il consenso scientifico continuerà ad esprimersi in modo esaustivo in materia e Beloukha non riuscirà ad imporsi sul mercato perché prodotto di qualità inferiore o perché prodotto troppo costoso rispetto alla concorrenza, è giusto che Roundup continui ad essere – anche in un futuro – la prima scelta per i nostri coltivatori.

Tutto questo ci porta ad una drammatica conclusione, ormai triste leitmotiv della politica odierna: in un ambito in cui il dibattito politico dovrebbe basarsi principalmente su studi, ricerche e test scientifici, la voglia di eliminare l’utilizzo del glifosato attraverso il ricorso al semplice “principio di precauzione” rischia di avere effetti negativi di lungo termine sull’avanzamento tecnologico del settore agricolo europeo, sull’efficienza operativa di milioni di aziende agricole e sull’export di numerosi paesi emergenti, come Argentina o Brasile. Una decisione del genere rischia inoltre di generare una doppia ed inefficiente legislazione, come già avvenuto nel caso degli organismi geneticamente modificati. Insomma, contrariamente a quanto viene spesso riportato da coloro che intendono difendere la nostra salute ed il nostro ambiente, un risultato del genere tutelerebbe solamente specifici interessi industriali.

1
Dic
2017

L’etica non è (solo) benevolenza! – di Giuseppe Antonio Giunta

Il rapporto tra economia ed etica è un argomento molto in voga negli ambienti economici. Il motivo appare chiaro: oltre ad avere una sterminata storiografia, esso risulta ancor’oggi uno dei fondamenti della stessa scienza economica.
Detto questo, la riflessione sembra però molto confusa. A mio avviso sono presenti due errori alquanto banali che ci inducono a credere che economia ed etica siano due settori rigidamente scissi e contrapposti. Il primo è la reductio della dimensione etica alla benevolenza. Il secondo sorge quando l’etica altruistica viene considerata l’unico collante sociale. Read More

30
Nov
2017

La lotta alla concorrenza fiscale di Margrethe Vestager

Due giorni fa, martedì 28 novembre, è ufficialmente iniziato il nuovo anno accademico dell’Università Bocconi. Oltre agli interventi di Mario Monti e del Rettore Gianmario Verona, la cerimonia d’apertura si è contraddistinta per il discorso programmatico di Margrethe Vestager, attuale Commissario europeo per la concorrenza. Come previsto, il discorso di Vestager ha assunto connotati estremamente politici: l’occasione è infatti servita per ribadire, ancora una volta, le linee guida della politica fiscale avviata da Bruxelles nel corso di questi ultimi anni.

Nello specifico, nel corso del suo intervento “bocconiano”, il Commissario Vestager ha fatto riferimento, in modo più o meno diretto, alle tre iniziative legislative principali promosse dalla Commissione negli ultimi 12 mesi: 1) la direttiva su una base imponibile consolidata comune per le società (Common Consolidate Corporate Tax Base, meglio conosciuta con l’acronimo di CCCTB); 2) la direttiva sui meccanismi di risoluzione delle controversie in materia di doppia imposizione a livello UE; e 3) la direttiva sulla riduzione delle imposte (Anti-Tax Avoidance) che considera i disallineamenti con paesi terzi.

Per quanto concerne la prima delle tre direttive sopra citate è giusto sottolineare che già un paio di anni fa era stata affossata dagli Stati membri. Presentata per la prima volta nel 2011, la nuova proposta, per una base imponibile consolidata comune per le società, è suddivisa in due direttive diverse, una che copre la base imponibile comune per le società (CCTB) e l’altra che copre la stessa CCCTB. Così facendo, la Commissione spera di attirare un maggiore consenso tra gli Stati membri. Tuttavia, i governi di Danimarca, Irlanda, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi e Svezia hanno già presentato obiezioni formali affermando che, così come la proposta del 2011, anche questa “doppia” iniziativa non rispetta il principio di sussidiarietà.

La CCCTB non è la riforma fiscale di cui l’Unione Europea avrebbe bisogno. Innanzitutto, se approvata entro la fine del mandato Juncker, una misura fiscale simile aggiungerà un ulteriore livello di regolamentazione ai già complicati ed intrusivi quadri internazionali, stabiliti per contrastare l’elusione fiscale. Come ricordano, ad esempio, sia il sindacato olandese dell’industria e dei datori di lavoro, sia il Parlamento britannico, i 15 punti programmatici, sviluppati nel contesto del progetto BEPS (Base Erosion & Profit Shifting) promosso dai paesi OCSE e dai paesi del G20, hanno già come obiettivo quello di introdurre un pacchetto di misure fiscali che monitori le pratiche di elusione dell’imposta sulle multinazionali, a livello globale. L’aggiunta di ulteriori e discutibili regole fiscali, all’interno di un quadro internazionale particolarmente articolato, metterà in una posizione di svantaggio tutti i paesi membri, soprattutto in termini di competitività rispetto al resto del mondo.

In secondo luogo, l’introduzione di una proposta simile richiederebbe la fusione di tutti i vari sistemi giuridici nazionali dell’UE, comporterebbe la creazione di un nuovo codice fiscale a livello Comunitario per le multinazionali, non risolverebbe i problemi di “transfer (mis)pricing” e metterebbe a rischio la sovranità fiscale degli Stati membri. Viste tutte queste problematiche di fondamentale importanza, la CCCTB appare solo una pessima proposta che finirà per punire i paesi europei maggiormente aperti al commercio internazionale e premiare i governi poco virtuosi.

Sebbene la proposta della Commissione non incida direttamente sull’aliquota delle imposte sulle imprese di un determinato paese, tutti gli Stati membri perderanno la propria libertà rispetto al modo in cui la base imponibile viene definita. Secondo uno studio condotto da Ernst & Young nel 2011 l’introduzione della CCCTB porterebbe ad enormi cambiamenti di riscossione: su 27 paesi europei (Croazia esclusa) gli unici tre Stati membri che otterrebbero dei veri benefici in termini di occupazione, investimenti diretti dall’estero e produzione sarebbero il Belgio, la Francia e la Spagna. Al contrario, tutti gli altri paesi non otterrebbero alcun vantaggio economico. Con l’adozione della CCCTB si arriverebbe dunque al paradosso di vedere un numero consistente di Stati membri aumentare o introdurre nuove tasse che permettano ai vari governi di recuperare le perdite accumulate.

Infine, per quanto riguarda le imprese, è altamente probabile che la riduzione dei costi amministrativi derivanti da una CCCTB venga subito compensata da un incremento dei costi aziendali interni. Una CCCTB obbligatoria rischia di cambiare il comportamento aziendale, incluso il luogo fisico dove aprire un’azienda. Inoltre una direttiva come quella proposta rischia di scoraggiare la crescita di grandi “campioni” europei. Rendendo le nuove regole obbligatorie per tutti i gruppi con entrate consolidate superiori a €750 milioni, molte imprese europee avranno un incentivo a non superare questa soglia limite. Ad esempio, una volta raggiunto questo livello di entrate, le imprese in questione perderanno l’opportunità di accedere a varie agevolazioni fiscali, come i cosiddetti “patents and innovation boxes”. Di conseguenza, risulta essere abbastanza facile ipotizzare che i costi di transizione al nuovo sistema fiscale europeo saranno molto elevati.

Alla luce di tutte queste nostre considerazioni, la domanda sorge spontanea: chissà se il Commissario per la concorrenza, Margrethe Vestager, abbia intuito i pericoli derivanti dall’introduzione di una base imponibile consolidata comune per le società? La nostra speranza è che quantomeno i docenti ed i molti studenti presenti alla cerimonia li abbiano percepiti.

 

 

 

 

 

27
Nov
2017

L’ennesimo attacco alla concorrenza leale di Flixbus

Con la discussione sulla legge di Bilancio per il 2018 si riapre la guerriglia normativa a Flixbus? La piattaforma tedesca era già stata oggetto di una surreale vicenda alcuni mesi fa, con norme anti-concorrenziali prima approvate e poi soppresse. Ora gli stessi emendamenti si riaffacciano al Senato; ed è probabile che li vedremo spuntare anche alla Camera.

In particolare, le proposte emendative hanno una chiarissima finalità: quella di garantire la sostenibilità occupazionale e limitare il più possibile il ricorso alla messa in mobilità dei lavoratori del settore, con riferimento proprio al “caso” Flixbus.

Secondo quanto emerge dalla stampa locale e nazionale, Flixbus è stata identificata come causa principale della crisi di alcune aziende di trasporti e del licenziamento di alcuni lavoratori. In altre parole, la concorrenza di Flixbus, azienda che opera su una piattaforma di mobilità internazionale, collaborando con compagnie di autobus regionali provenienti da tutta Europa, è stata additata come motivo primario della crisi del settore dei trasporti su ruota in Italia. Questa operazione sembra avere un obiettivo ben preciso: scaricare sull’azienda tedesca (nata a Monaco di Baviera nel 2011) la responsabilità della messa in mobilità dei lavoratori di altre aziende del relativo settore.

Ma come si può sostenere che le difficoltà di alcune aziende siano colpa unicamente della concorrenza di Flixbus? A fronte del successo di un’azienda, c’è spesso la cattiva gestione ed incapacità di innovarsi di un’altra: Flixbus, che è entrata nel mercato italiano nell’estate del 2015, ha semplicemente proposto il suo prodotto, a promosso prezzi più bassi, ha portato avanti numerose efficaci promozioni, ed è riuscita ad attirare molti consumatori. Questi ultimi hanno scelto i servizi offerti da Flixbus per il tramite delle aziende partner, anziché quelli dei concorrenti, per una ragione banale: li hanno giudicati migliori e hanno riscontrato prezzi inferiori. Contrastare Flixbus con vincoli o divieti, anziché sul terreno della competizione, significa privare i consumatori dell’opzione che hanno mostrato di preferire. A ben guardare, dunque, non si tratta di una guerra contro la piattaforma tedesca, ma contro i consumatori italiani.

Seppur con motivazioni parzialmente differenti rispetto a quelle passate, i recenti attacchi verso Flixbus sembrano riproporre un copione già visto.

Con il Decreto Milleproroghe pubblicato lo scorso febbraio, fu inserito un emendamento proprio contro i bus low cost. La norma in questione poneva un diktat a Flixbus: trasformarsi in un operatore economico (con mezzi propri – bus e personale), o chiudere i battenti.

La discussione che ne scaturì fu surreale. Il provvedimento di allora, voluto fortemente dall’ANAV (Azienda Nazionale Autotrasporto Viaggiatori), si basava su due punti: Flixbus veniva accusato di fare dumping e di essere una piattaforma tecnologica anziché un operatore del settore.

Anche l’Antitrust intervenne, confermando che Flixbus non aveva effettuato alcun dumping, né, tanto meno, i suoi servizi risultavano essere anti-competitivi. L’AGCM, in una segnalazione inviata a Parlamento e Governo, spiegava addirittura che un intervento normativo anti-Flixbus sarebbe stato in grado di determinare effetti fortemente anticoncorrenziali nel settore dei trasporti di passeggeri su strada con danni diretti e tangibili per i consumatori. La norma venne successivamente cancellata, per poi essere reintrodotta in un altro provvedimento e di nuovo cancellata.

La speranza è che questi emendamenti vengano rigettati sia dal Senato sia dalla Camera. I consumatori, la concorrenza e l’innovazione vengono prima di qualsiasi contentino pre-elettorale.

 

Un ringraziamento speciale a Giuseppe Giunta, stagista IBL, per aver contribuito al post.

22
Nov
2017

Il diritto alla casa non può passare per la negazione della proprietà

In una fresca giornata di primavera di quattro anni fa, trecentocinquanta persone occupavano illegalmente un intero edificio in via Caravaggio, a Roma. Era l’inizio di un vero e proprio incubo: la denuncia, sporta dai proprietari dell’immobile immediatamente dopo l’occupazione, cadeva nel vuoto. Tutti erano stati messi al corrente: la procura, la polizia, il questore, il prefetto e il sindaco di Roma. Eppure, nessuno tentò di sgomberare l’edificio. Nei giorni successivi gli occupanti manomisero le centrali termoelettriche, la rete idrica e quella antincendio, oltre a svolgere abusivamente alcuni lavori di ristrutturazione. I proprietari, a quel punto, presentarono una richiesta di sequestro preventivo alla procura, ma non bastò nemmeno questo. Il sequestro fu disposto, ma mai attuato.

Di storie come questa se ne potrebbe raccontare tante. Solo a Roma sono centinaia gli immobili occupati, uno addirittura da tredici anni, senza contare le violazioni che non riguardano interi edifici ma singole unità immobiliari. E del resto non è un mistero che le occupazioni abusive, nell’ordinamento italiano, costituiscano reato solo in teoria. Negli ultimi anni si è assistito a un graduale affievolimento della tutela della proprietà nei loro confronti: sempre più spesso infatti le occupazioni abusive sono valutate dai decisori pubblici e dai tribunali, nei loro effetti e problemi connessi, contemperando esigenze e interessi diversi: dal principio alla legalità all’ordine pubblico, dalla dignità personale al diritto all’abitazione; in questo bilanciamento, tuttavia, il diritto di proprietà non rientra quasi mai, se non indirettamente.

Alla base di questo sconsiderato disprezzo per il diritto di proprietà c’è la convinzione che tenere in considerazione altri diritti nel bilanciamento con quello di proprietà conduca verso una società più umana e ‘giusta’. Ma si tratta di un’illusione: in questo modo si procede a passo spedito, piuttosto, verso una società in cui non vi è certezza del diritto e in cui, quindi, ogni assunzione di responsabilità e ogni investimento divengono esercizi di speranza verso la benevolenza di uno Stato arbitrario, che decide di riconoscere o negare i diritti di proprietà con un semplice gesto del pollice.

Di storie come quella dell’immobile di via Caravaggio, dicevamo, ce n’è tante. Ma è la sentenza con cui il Tribunale di Roma ha chiuso, almeno temporaneamente, la vicenda, a costituire un precedente importante. I giudici, infatti, hanno riconosciuto che lo Stato ha l’obbligo giuridico di impedire l’occupazione di un edificio o quantomeno di adottare, in un lasso di tempo ragionevole, le misure necessarie per porvi fine. Non aver agito per oltre quattro anni, nel caso in questione, ha pertanto compresso illegittimamente i diritti fondamentali del proprietario. E la responsabilità di tutto questo – conclude la sentenza – è del Ministero dell’Interno, da cui dipendono le forze di polizia incaricate dell’esecuzione del sequestro quattro anni fa. Con conseguenze molto concrete: il Tribunale ha infatti condannato il Ministero a pagare al proprietario quasi 300mila euro al mese, da quando fu disposto il sequestro preventivo fino a quando l’immobile sarà finalmente liberato.

È una sentenza significativa, questa, non solo per il precedente che crea, ma soprattutto perché mette a nudo con grande chiarezza l’ipocrisia di uno Stato che – non riuscendo a garantire un diritto sociale – lo pone in contrasto con altri diritti, in questo caso quello di proprietà. E che, così facendo, dimostra tre volte la propria inefficacia: nel non riuscire a garantire il diritto all’abitazione agli occupanti, nel non riuscire a garantire il diritto di proprietà ai proprietari, e nell’essere pertanto costretto a rimborsare questi ultimi con i soldi dei contribuenti. Un monito, speriamo, per comprendere finalmente che il riconoscimento del diritto all’abitazione non può passare per la negazione del diritto di proprietà.

Twitter: @glmannheimer

21
Nov
2017

Tassare le sigarette elettroniche per tutelare la salute o il gettito?

La Corte Costituzionale ha il non facile compito di esaminare il corretto uso della discrezionalità legislativa, verificando se questa è per caso stata esercitata in contrasto con i parametri costituzionali, in modo discriminatorio, incoerente e così via.
Ma il “giudice delle leggi” dovrebbe almeno evitare di argomentare esso stesso in modo manifestamente irragionevole, con impiego di motivazioni contraddittorie, come accaduto con la recente sentenza n. 240 del 2017, con cui è stata salvata la norma che estende alla vendita delle sigarette elettroniche – sostanze liquide aromatiche senza nicotina – lo stesso  regime delle accise sulla produzione e vendita dei tabacchi lavorati.
In una recentissima occasione, peraltro, i giudici costituzionali (relatore, anche allora, Giuliano Amato) avevano deciso diversamente, affermando l’illegittimità della norma che sottoponeva a imposta di consumo la commercializzazione di prodotti non contenenti nicotina e idonei a sostituire il consumo dei tabacchi lavorati.
La sentenza n. 83 del 2015 ha infatti ravvisato la «intrinseca irrazionalità della disposizione che assoggetta ad un’aliquota unica e indifferenziata una serie eterogenea di sostanze, non contenenti nicotina, e di beni, aventi uso promiscuo», tenuto conto che «mentre il regime fiscale dell’accisa con riferimento ai mercato dei tabacchi trova la sua giustificazione nel disfavore nei confronti di un bene riconosciuto come gravemente nocivo per la salute e del quale si cerca di scoraggiare il consumo, tale presupposto non è ravvisabile in relazione al commercio di prodotti contenenti “altre sostanze” diverse dalla nicotina, idonee a sostituire il consumo del tabacco, nonché dei dispositivi e delle parti di ricambio che ne consentono il consumo».
Per la Corte l’imposta sui tabacchi si giustifica dunque come tributo extrafiscale, introdotto per  scoraggiare il consumo di sostanze nocive per la salute: l’obiettivo del legislatore è raggiunto se l’ammontare dell’accisa è tale da scoraggiare le persone all’acquisto e al consumo di tabacchi. Un tributo di questo tipo non si prefigge l’obiettivo di massimizzare il gettito, anzi paradossalmente raggiunge il suo massimo risultato quando le entrate, insieme al consumo del tabacco, si azzerano.
Il legislatore, dopo la dichiarazione di incostituzionalità, non si è però arreso, e ha reintrodotto l’accisa sui tabacchi lavorati (nella misura ridotta del 50 per cento) anche sulle sostanze liquide da inalazione senza nicotina, le cosiddette sigarette elettroniche, con una norma che ha sollevato analoghi dubbi di legittimità costituzionale (data l’irragionevole equiparazione al tabacco di prodotti privi di nicotina, in contrasto con la ricordata ratio dell’imposta e il suo obiettivo di scoraggiare il consumo di prodotti nocivi). Ma stavolta la Corte ha deciso diversamente, sulla base di argomenti, svelati nell’ultima parte della sentenza, che lasciano interdetti.
Per la Corte «l’imposta di consumo in questione – la cui finalità primaria è data dal recupero di un’entrata erariale (l’accisa sui tabacchi lavorati) erosa dal mercato delle sigarette elettroniche – non contrasta con il principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., anche nella parte in cui assoggetta i liquidi privi di nicotina alla medesima aliquota impositiva dei liquidi nicotinici. Essa, infatti, colpisce beni del tutto voluttuari, immessi in consumo dai fabbricanti e dai produttori, che per ciò stesso dimostrano una capacità contributiva adeguata, così come i consumatori finali sui quali viene traslata l’imposta. D’altronde, al legislatore spetta un’ampia discrezionalità in relazione alle varie finalità alle quali s’ispira l’attività di imposizione fiscale, essendogli consentito, sia pure con il limite della non arbitrarietà, di determinare i singoli fatti espressivi della capacità contributiva che, quale idoneità del soggetto all’obbligazione di imposta, può essere desunta da qualsiasi indice rivelatore di ricchezza. Nondimeno, la finalità secondaria di tutela della salute propria dell’imposta di consumo, che già di per sé giustifica l’imposizione sui prodotti nicotinici, legittima anche l’eventuale effetto di disincentivo, in nome del principio di precauzione, nei confronti di prodotti che potrebbero costituire un tramite verso il tabacco».
Insomma, la Corte da un lato considera l’accisa sui tabacchi un tributo pigouviano, non finalizzato a reperire entrate ma volto a eliminare le conseguenze dannose del fumo derivante dalla combustione del tabacco e dalla nicotina, ma dall’altro mette a fondamento della propria ratio decidendi l’esigenza di contrastare l’erosione del gettito prodotta dalle sigarette elettroniche, senza rendersi conto (?) che attribuire all’imposta sulle sostanze liquide non nicotiniche la “finalità primaria” di recupero di un’entrata erariale contrasta in modo insanabile con l’affermata natura extrafiscale dell’accisa sui tabacchi, il cui obiettivo non è il gettito ma la tutela della salute.
Che senso ha tassare dei comportamenti alternativi al consumo di tabacco, se è questo che si vuole scoraggiare?
Per giustificare l’imposta sulle sigarette elettroniche alla luce del principio di capacità contributiva la Corte è poi costretta a evocare le vecchie imposte suntuarie, sulle spese di lusso, ritenendo tali – in modo grottesco – le sigarette elettroniche (in un contesto in cui, diversamente da quello pre-moderno in cui trovavano applicazione le imposte suntuarie, tutti i consumi scontano l’Iva e a monte hanno scontato l’imposta sul reddito).
Infine, dopo aver inspiegabilmente degradato a “finalità secondaria” dell’accisa la tutela della salute (ma la sentenza 83/2015 non aveva affermato che l’accisa “trova la sua giustificazione nel disfavore nei confronti di un bene riconosciuto come gravemente nocivo per la salute e del quale si cerca di scoraggiare il consumo”?), la Corte prova a puntellare il ragionamento richiamando il principio di precauzione, che giustificherebbe un’imposizione su prodotti che potrebbero costituire un tramite verso il tabacco.
Le evidenze empiriche sembrano però suggerire che le sigarette elettroniche senza nicotina costituiscono un’alternativa non nociva (o di gran lunga meno nociva) al consumo di tabacco, non già un viatico per passare prima o poi al fumo tradizionale. Quello della Corte è un modo di argomentare che ricorda quello secondo cui le droghe leggere costituiscono l’anticamera delle droghe pesanti, ma sembra in realtà solo strumentale all’obiettivo di tutelare le entrate dello Stato.
La spiacevole impressione che la sentenza trasmette è che per i giudici costituzionali la tutela della salute sia meno importante della salvaguardia del gettito, che esso sì non deve – è il caso di dirlo – “andare in fumo”.