1
Mag
2015

La Corte sulle pensioni dimentica l’equità intergenerazionale

E’ una sentenza che pone molti problemi, quella adottata in materia previdenziale dalla Corte Costituzionale. Non solo problemi per i conti pubblici, reperire 4,8 miliardi di euro. Ma, soprattutto, problemi di equità, anche se apparentemente la decisione è proprio a favore della giustizia sociale. La Corte ha bocciato lo stop alla perequazione del costo della vita che nel 2012 e 2013, per effetto della riforma Fornero, toccò a circa 6 milioni di assegni previdenziali che erano superiori a poco più di 1500 euro mensili lordi, cioè pari ad almeno tre volte il trattamento minimo INPS. La misura fu adottata per ottenere effetti di cassa a breve, pari a 4,8 miliardi nei due anni, in attesa che la riforma strutturale dell’innalzamento dell’età previdenziale, facendo coincidere i requisiti dei trattamenti di vecchiaia e di anzianità, conferisse maggior stabilità negli anni al sistema previdenziale italiano. Ma la Corte la stabilito che l’interesse dei pensionati, in particolar modo i titolari di trattamenti previdenziali modesti, è teso alla conservazione del potere di acquisto delle somme percepite, da cui deriva in modo conseguenziale il diritto a una “prestazione previdenziale adeguata. Tale diritto, costituzionalmente fondato, risulta irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio”.

E’ ovvio che il governo debba ora dimenticarsi il “tesoretto” che aveva promesso in vista delle elezioni regionali, perché con 5 miliardi di buco aggiuntivo non è proprio il caso di pensare a spenderne 1,6 coperti in deficit. Anche se, a ben vedere, un’alternativa ci sarebbe. Ma prima di esaminarla, soffermiamoci sui presupposti della sentenza. Perché le decisioni della Corte costituzionale hanno avuto un enorme impatto storico, sull’evoluzione del sistema previdenziale italiano. Ogni studente di diritto costituzionale impara che, negli anni ‘60 e ’70, la Corte produsse una lunga serie di sentenze cosiddette “additive”, in cui si estendevano benignamente verso l’alto i trattamenti previdenziali a categorie che avevano ereditato dalla storia trattamenti diversi. All’epoca, in un’Italia che cresceva tra il 2 e il 3% annuo, a bassa disoccupazione e bassa tassazione, la Corte non si poneva il problema di creare le basi per la crescita della spesa previdenziale sul PIL, quando quelle condizioni fossero mutate. Come sono mutate, eccome, nei decenni a seguire.

Poi, a partire dagli anni ’80 e ’90, subentrò una diversa consapevolezza. Con sentenze come la  180 del 1982 e la 220 del 1988, la Corte difese la discrezionalità del legislatore nel mutare le prestazioni sociali tenendo conto della disponibilità delle risorse finanziarie. Né mancarono sentenze(come la 349 del 1985, la 822 del 1998, la 416 del 1999) nelle quali, a differenza della decisione presa oggi, la Corte difese anche trattamenti peggiorativi decisi dal legislatore con effetto retroattivo. La Corte escluse un diritto costituzionalmente garantito alla cristallizzazione normativa, negando cioè proprio quei cosiddetti “diritti acquisiti” che vengono sempre impugnati da coloro che immaginano che il trattamento di un tempo debba sempre restare eguale, anche se non ci sono risorse per finanziarlo.

Certo, la Corte si è sempre riservata il diritto di bocciare comunque interventi del legislatore che fossero irrazionali o ingiustificati. La Corte ha così respinto come irrazionale, con la sentenza 116 del 2013, un’altra misura che era stata assunta nel terribile biennio 2011-2012 in cui l’Italia era sul ciglio del baratro, cioè il contributo di solidarietà sulle pensioni pari al 5% per gli importi da 90.000 a 150.000 euro lordi annui, del 10% per la parte eccedente i 150.000 euro e del 15% per la parte eccedente i 200.000 euro. Il prelievo aveva carattere tributario secondo la Corte, e come tale però introduceva aliquote sperequate rispetto a chi aveva le stesse soglie di reddito, ma non da pensione. Oggi invece la Corte respinge lo stop biennale al recupero dell’inflazione sopra i 1500 euro, sostenendo che quella misura fosse ingiustificata, cioè non correlata per esteso nella riforma Fornero all’indicazione di specifiche necessità di cassa non altrimenti perseguibili.

Veniamo ai problemi giuridici che la sentenza solleva. Sta davvero alla Corte costituzionale, stabilire quale sia la soglia della “prestazione previdenziale adeguata”? Se così fosse, in base a quali criteri di calcolo e di comparazione col resto dei redditi medi italiani è fissata quella soglia, visto che si interveniva su una media superiore e non inferiore al reddito medio di quell’anno? E perché a questo punto adottare una decisione simile sullo stop a tempo alla perequazione degli assegni previdenziali, quando da anni e ancor oggi tutti i dipendenti pubblici subiscono il blocco degli scatti contrattuali? E soprattutto: è possibile alla Corte adottare decisioni simili, senza assumere un giusto criterio di equità?

Direte voi: è tutto il contrario, è proprio in nome dell’equità che la Corte interviene. E invece no, se pensate a come funziona in concreto il nostro attuale sistema previdenziale. Pur passando gradualmente nel tempo da retributivo a contributivo, cioè un sistema in cui l’assegno è parametrato non agli ultimi anni di retribuzione conseguita ma ai contributi versati, moltiplicati per coefficienti che comprendono l’andamento del Pil e l’attesa di vita, il nostro resta comunque come prima un sistema a ripartizione. Cioè le pensioni in essere vengono pagate da chi lavora oggi. Vengono pagate da chi non solo non avrà pensioni retributive, in molti casi multiple di 5 o 6 e persino 8 volte rispetto ai contributi versati, ma in molti casi non avrà neanche i requisiti minimi delle minori pensioni contributive, vista l’età molto più avanzata in cui si riesce oggi a ottenere un lavoro, e la assai più frequente discontinuità dei versamenti contributivi, tra periodi di disoccupazione e occupazione a tempo.

Una vera equità, nell’assumere decisioni in materia previdenziale, dovrebbe essere quella che guarda alla reale ripartizione degli oneri: cioè l’equità intergenerazionale. E la domanda vera diventa: è giusto addossare a chi oggi ha assai meno di un tempo, l’onore di pagare i 5 miliardi aggiuntivi per il recupero di due anni di inflazione deciso allora? L’equilibrio intertemporale dovrebbe essere il criterio di ogni intervento che ha effetti di lungo periodo, fiscali e contributivi, sulla finanza pubblica. Basta assumere decisioni solo nell’interesse di chi è vissuto in un’Italia più felice. Ora occorre pensare a chi non lavora e non avrà pensione in un’Italia disastrata dalla crisi, e al fatto che se non pagheranno loro i contributi per finanziare le pensioni in essere, si aggraverà ulteriormente l’esborso che dalla fiscalità generale serve ogni anno per tenere in piedi i conti dell’INPS, e che nel 2014 è stato di quasi 90 miliardi di euro. Ci ha pensato, la Corte a tutto questo? O è un diritto cieco alle sue conseguenze, quello che incarna la giustizia sociale nel nostro paese? Date voi la risposta, a noi tocca però porre seriamente la domanda.

Quanto all’alternativa seria per trovare rimedio ai 5 miliardi di buco, c’è eccome. Invece di porre mano al rimborso, il governo sfrutti l’occasione per un ricalcolo contributivo ragionato di tutte le pensioni retributive eccessivamente generose. Sarebbe un modo ancor più concreto per pensare ai diritti dei giovani, sulle cui spalle ammassiamo sempre maggiori oneri.

28
Apr
2015

Scuola, il rischio concreto della riforma abortita

Non c’è da stupirsi, della levata di scudi dell’intero mondo della scuola contro la riforma all’esame del parlamento. I sindacati sanno quel che gli studi elettorali confermano, cioè che il bacino elettorale del milione di dipendenti del sistema formativo pubblico è sempre stato a prevalenza di sinistra e del Pd. Dunque, sotto elezioni regionali, ecco lo sciopero unitario generale della scuola, il prossimo 5 maggio. O il governo e il Pd cedono in parlamento prima di allora su punti essenziali della riforma, oppure ci sarà uno scotto da pagare alle urne. L’eventualità più probabile è che quel poco di buono che era rimasto in una riforma tre volte riscritta sparisca, e il tutto si risolva in un’ancor più estesa sanatoria di precari.

Aggiungiamo però che il governo doveva aspettarselo. Aveva acceso molte speranze, appena entrato in carica. Aveva adottato una consultazione pubblica senza canale preferenziale con i sindacati, però su un testo poi sconfessato. Riformulatolo, aveva annunciato decreti legge. Per poi ripiegare due mesi fa su un disegno di legge ancora variato, ma promettendo un decreto legge assumi-precari visto che l’esame parlamentare altrimenti non sarebbe coerente con i tempi necessari a formare le classi per settembre, con i 100mila nuovi assunti. Il sindacato ha osservato indispettito questo zigzagare, e sa anche che il ministro Giannini si è trovata lei per prima più volte spiazzata. Non è un caso che oggi, a protesta esplosa e a incidente avvenuto alla Festa dell’Unità, siano per primi esponenti del Pd ad accusarla di essere stata poco sensibile al confronto sindacale. Se la Giannini sperava di procurarsi uno scudo entrando nel Pd, direi che ha proprio fatto male i conti.

Il rischio ora diventa quello di vedere travolte anche alcune delle pur attenuate novità che la riforma ancora conteneva. E’ ovvio che i sindacati chiedano la messa in ruolo di tutti i precari, e la decadenza del neo registro regionale in cui finirebbero quelli di seconda fascia, non stabilizzati. E che diventerà più difficile salvaguardare guardando al solo merito, per esempio tutelando chi aveva seguito e superato il percorso abilitante per prove del TFA. Ma il segnale meno incoraggiante è il forte attacco in corso sulla questione dell’autonomia, del dirigente scolastico, della valutazione. Cioè appunto sul residuo di novità più significative rimaste nel testo della riforma.

E’ la valutazione del merito, la questione di fondo. Già il governo ha dovuto fare, nelle diverse bozze, molte marce indietro. Le dichiarazioni iniziali prevedevano che solo il 30% massimo degli aumenti retributivi ai docenti sarebbe stato determinato dall’anzianità, e il 70% dal merito. Premiando in tre fasce di diversa progressione l’80% dei docenti ed escludendone il 20%. A valutare il merito, secondo un certo peso tra crediti didattici, formativi e professionali, sarebbe stato un nucleo di valutazione per ogni istituto, presieduto dal dirigente scolastico. Se gli insegnanti per due volte di fila non fossero riusciti a rientrare almeno nella terza fascia, avrebbero rischiato un’ispezione. Se la mancata promozione persistesse, poteva arrivare fino a quella che in gergo scolastico si chiama dispensa, cioè la sospensione dal servizio per incapacità, fino al licenziamento per inidoneità.

Nel testo finale quella rivoluzione è già scomparsa. Gli scatti retributivi di anzianità restano, per gli insegnanti. Ma il governo ha scovato per il 2016 anche 200 milioni di premi al merito per i docenti, attribuiti secondo le valutazioni su ogni insegnante che in ogni istituto farà innanzitutto il dirigente scolastico e i suoi collaboratori. E in più il governo ha anche aggiunto una carta-insegnante di 500 euro l’anno, per sostenere i consumi culturali che ogni docente deve sostenere per l’aggiornamento, dai libri al teatro.

Ora i sindacati hanno messo nel mirino il ruolo del dirigente, e già il Pd ha accettato che non avrà un ruolo prevalente né nel giudicare il merito dei docenti, né nella scelta dell’integrazione all’organico pescando dall’albo regionale dei docenti a disposizione, né nella vita economica, organizzativa e lavorativa della scuola che doveva configurare la nuova ed estesa autonomia di ogni istituto. Tutto dovrà avvenire nel concerto assoluto del corpo docente di ogni istituto, no ad ogni attribuzione al dirigenti di poteri sovraordinati. E, smontati gli scatti di merito ripristinando quelli di anzianità, e lasciato al merito la sola funzione di un premio aggiuntivo, si tratta ora di attribuirlo a tutti estendendone i criteri il più possibile a progetti comuni a cui partecipino tutti gli insegnanti di ogni istituto.

Se finirà così, e oggi appare molto probabile, sarà un’altra vittoria della storica indisponibilità a farsi selettivamente giudicare del pubblico impiego secondo criteri di impegno e produttività. Se la valutazione di merito è seria, deve avvenire secondo criteri noti ex ante, che contemplino le performance ottenute nelle classi, le verifiche sull’insegnamento frontale, i giudizi di studenti e famiglie. Deve prevedere fasce di crediti e punteggio diverse. E deve essere parte integrante della retribuzione. Si potevano seguire alcuni dei modelli praticati con successo da molti altri paesi. Ma, per questo risultato, occorreva essere espliciti e chiari, scegliendone uno. Il sindacato avrebbe resistito, ma non avrebbe potuto dire di non esser stato coinvolto. Anche perché il governo sapeva benissimo che questa vicenda si inserisce nel quadro di contratti del pubblico impiego fermi da anni. A maggior ragione il governo doveva procedere nella chiarezza, se dalla scuola intendeva estendere a tappeto in tutta la PA una logica premiale del merito, e una cultura e prassi seria della valutazione delle performance individuai. Cominciando nella scuola oggi, ma in tutto il mondo pubblico subito dopo.

Vedremo l’esito finale. La tendenza a non farsi misurare e valutare individualmente è il vero problema della pubblica amministrazione italiana. Il solo accennarvi suscita ondate di protesta dei docenti come degli impiegati pubblici, molti dei quali per altro si sottopongono anche a sforzi innegabili. Per piegare resistenze tanto forti un governo riformatore deve saperlo, che l’ostacolo al farsi valutare si supererà solo quando i primi a essere ancor più inflessibilmente giudicati saranno proprio i dirigenti: chi più ha responsabilità, per primo dovrebbe sapere che se non raggiunge gli obiettivi assegnati può andare anche a casa, senza scaricabarile su chi è sottoposto alle sue direttive. Non è una scuola o una pubblica amministrazione gerarchica, quella che mette il merito al centro di tutto. Sono una scuola e una PA efficienti, quelle che consentono a chi s’impegna di guadagnare anche molto di più, e di diventare dirigente a 35 anni invece che a 60. Temiamo che resterà un sogno.

27
Apr
2015

Su Whirlpool in ITA qualcuno avvisò che numeri non tornavano..

Un numero per rappresentare la crisi crisi italiana del “bianco”, il settore degli elettrodomestici casalinghi fiore all’occhiello dell’Italia del boom: nell’ultimo decennio il numero di pezzi venduto nel nostro Paese è sceso da oltre 30 a poco più di 11 milioni di pezzi l’anno. Continuiamo a esser forti nei forni e piani di cottura ad elevata qualità dei materiali. Ma i decenni gloriosi del gruppo Ignis di Giovanni Borghi, di Zanussi, Indesit e Merloni sono alle spalle. Resiste solo la Candy che nel 1946 fu fondata da Peppino Fumagalli appena scomparso, che creò la prima lavabiancheria elettrica italiana. Per il resto, tutti i gruppi hanno dovuto arrendersi al consolidamento del settore in atto su scala globale. E il fulmine a ciel sereno di Whirlpool, dopo aver perfezionato l’acquisizione di Merloni-Indesit solo l’anno scorso, cioè i 1300 esuberi di cui 800 nel sito campano di Carinaro, è l’ultimo atto di questa storia. Una storia per metà fatta delle tradizionali manchevolezze di pur anzitempo prestigiose famiglie imprenditoriali. Per l’altra metà, di una forte miopia italiana nel valutare OGGETTIVAMENTE gli effetti quando si perde potere di mercato.

Fino alla fine degli anni Ottanta, i re del “bianco italiano” ressero meglio di altri concorrenti europei all’evoluzione e alle difficoltà dei mercati. L’Italia garantiva decine di milioni di pezzi venduti, perché le famiglie erano alla prima ondata di elettrodomestici di massa. Il costo del lavoro italiano era più contenuto rispetto ai concorrenti stranieri, le reti distributive erano efficienti e praticavano politiche commerciali aggressive nell’export esportazione. L’Ariston dei Merloni, la Candy dei Fumagalli e l’Ocean dei Nocivelli erano protagonisti europei, quando la stagflazione e il necessario balzo in avanti di cospicui investimenti in nuove tecnologie da incorporare negli elettrodomestici iniziò a modificare il settore. Poco alla volta, le prime bandiere bianche: Ignis passò all’olandese Philips, la Zanussi alla svedese Electrolux. La Merloni, al contrario, cresceva: all’inizio degli anni ’90 era tra i primi cinque produttori continentali. Dieci anni fa era il secondo produttore europeo, con 16 stabilimenti tra Italia, Polonia, Uk, Russia e Turchia, e 24 sedi commerciali.

Il 2008 ha cambiato tutto. Merloni cerò di decentrare il più possibile in Polonia, con minori costi di lavoro, energetici e fiscali. Ma i capitali necessari per crescere nell’innovazione (oggi gli elettrodomestici sono componenti della domotica casalinga, diventano programmabili a distanza attraverso mobile device e smartphone..), e per fusioni e acquisizioni necessarie a economie di scala planetarie e non solo europee, visto che oggi gli elettrodomestici sono comprati a centinaia di milioni di pezzi in Asia e non più nei vecchi paesi avanzati, quei capitali alla famiglia Merloni mancavano. E’ nata così l’acquisizione per 768 milioni di euro della Merloni-Indesit da parte degli americani di Whirlpool, impegnati in una battaglia globale rispetto a Electrolux. Solo pochi mesi erano passati dall’acquisizione italiana che gli svedesi di Electrolux hanno risposto con gli interessi, rilevando per 3,3 miliardi di dollari gli elettrodomestici di General Electric: in questo modo gli svedesi raggiungono un fatturato superiore ai 22,5 miliardi di Whirlpool, e la superano nello stesso mercato Usa, con un quarto delle vendite. Per avere una proporzione che spiega la resa italiana, Indesit-Merloni non raggiungeva i 3 miliardi di fatturato: impossibile pensare di avere un ruolo mondiale.

Ma in  Italia nessuno è sembrato rendersi conto della nuova realtà disegnata dalla risposta di Electrolux a Whirlpool. Primo grave errore: perché è esattamente la botta portata su scala globale da Electrolux a Whirlpool, successiva all’acquisizione americana di Merloni-Indesit, a spiegare l’annuncio a sorpresa degli esuberi in Italia. Solo l’anno scorso, infatti, gli americani si erano impegnati a non toccare la base produttiva e occupazionale italiana, fino al 2018. Ma questo valeva prima di essere scavalcati dagli svedesi. Ora il discorso è cambiato, e occorre rifare i conti. E qui veniamo all’illusione della politica, dei sindacati e delle classi dirigenti italiane, quando non si considerano bene gli effetti della perdita di potere di mercato, e del conseguente passaggio proprietario di gruppi italiani in mani straniere. Che non è affatto un male in sé, visto che è meglio difendere base produttiva prescindendo dalle bandierine nazionali proprietarie. A patto di saper fare i conti, sull’economicità e sostenibilità della base produttiva che si intende difendere.

L’anno scorso si disse ottimisticamente che Whirlpool e Merloni erano complementari. Grazie allo shopping italiano, gli americani entravano nel mercato russo dove erano forti gli italiani con un miliardo di ricavi, e rafforzavano inoltre la presenza nel Regno Unito, divenendovi leader. Le basi produttive europee erano equilibrate: Whirlpool con tre stabilimenti tra Francia, Polonia e Slovacchia, Indesit con quattro tra Russia, Polonia, Inghilterra e Turchia. Ma sull’Italia fin dall’inizio un osservatore con un minimo di discernimento avrebbe dovuto capire che le cose non potyevano funzionare come si affermava ottimisticamente nell’intesa allora sottoscritta. Sia Whirlpool sia Indesit avevano da anni in corso chiusure nel nostro Paese. Whirlpool oltre al centro di ricerca e stile ha tre stabilimenti a Varese, Siena e Napoli, quelli di Indesit sono a Fabriano e Caserta, più il centro ricerche marchigiano, e il polo logistico e di ricerca piemontese di None. Con tutto il rispetto, chi qui scrive avanzò qualche dubbio sin dall’inizio, in una trasmissione a radio24, che davvero si potesse credere all’impegno americano di non toccare nulla in Italia sino al 2019.

Ed eccoci al redde rationem. A questo punto il governo – che è di fatto turlupinato, visto che gli impegni furono assunti a un tavolo pubblico – deve affrontare con energia la Whirlpool per capire come i 500 milioni di investimenti promessi si coniughino con gli esuberi e le chiusure annunciate. La vertenza sarà dura, perché Whirlpool deve oggettivamente recuperare margini, rispetto a quando perfezionò l’accordo italiano. Ma bisogna provarci a tutti i costi. Si afferma ora giustamente che il Sud non può subire un altro colpo di queste proporzioni. Ma c’è una lezione che biene prima, e che non riguarda solo la politica: chi non ha i capitali per crescere, è difficile che possa avere l’ultima parola.

23
Apr
2015

Divorzio breve? Benissimo, ma ora rivediamo le pensioni di reversibilità ai coniugi superstiti

E’ una riforma epocale, quella del divorzio varata ieri dal parlamento. Dopo decenni di dibattito vano, l’Italia si avvicina alla media europea, e fissa in soli sei mesi la separazione in caso di separazione consensuale tra coniugi. E in 12 mesi, a partire dal giorno di comparsa davanti al giudice, la separazione nel caso giudiziale, quando cioè vi sia un conflitto aperto sulle condizioni relative al patrimonio, reddito  o alla prole. Esistono paesi come la Francia dove, nel caso di divorzio consensuale, non è prevista alcuna separazione. Idem nel regno Unito, se il giudice valuta che vi siano conflittualità tali da creare rischi nel periodo di separazione. In Svezia, per divorziare basta recarsi in Comune e dichiarare finito il matrimonio. E in Danimarca si può procedere tramite firma elettronica, senza dover neanche reincontrare il proprio partner.

La scelta del parlamento non può che piacere a chi ritiene che la legge debba rispettare la libera volontà dei cittadini, e non coartarla quando l’opinione è mutata rispetto a un vincolo coniugale. Ma, detto questo, cerchiamo anche di capire quali conseguenze discenderanno, da una scelta che fotografa la minor importanza della solidità familiare, determinatasi in realtà da lungo tempo nella secolarizzazione del costume e delle credenze nel nostro Paese.

Come prima cosa, l’esperienza di tutti i paesi che hanno prima di noi fatto analoghe scelte, vedi la Spagna sotto Zapatero nel 2005, ha portato non solo a un aumento dei divorzi. Quel che più conta è che, differenziando come da noi la consensuale da quella conflittuale, ha portato a un innalzamento delle separazioni conflittuali davanti al giudice, dal 35% precedente la riforma a oltre il 40%. Qui sorge un primo problema. La realtà dei tempi della giustizia italiana vieta di credere che i 12 mesi di separazione previsti da oggi per la separazione conflittuale saranno davvero rispettati. Non è così. Il procedimento dura in media oggi 36 mesi, e anche oltre 4 anni per chi arriva alla Cassazione. Senza sezioni specializzate in diritto di famiglia, i tempi resteranno quelli, riforma o non riforma. Davanti ai sei soli mesi di separazione previsti dalla consensuale, potrebbe essere forte – a differenza che in Spagna – l’incentivo a scegliere il percorso breve: ma a danno del coniuge “debole” nella coppia, a quel punto meno tutelato dal giudice per la determinazione dell’assegno di mantenimento o per l’affidamento della prole. Non è affatto detto, come un tempo, che il coniuge “debole” sia per definizione la donna: sono oltre 800mila ormai i padri separati in enorme difficoltà economica per versare l’assegno determinato dal giudice, e senza affidamento della prole anche in enorme difficoltà nel rapporto coi propri figli.

Secondo problema: se la famiglia è istituzione più debole per l’ordinamento, allora vanno modificati i criteri che ne traducevano la centralità e stabilità precedente in concreti diritti patrimoniali e reddituali. Per quanto riguarda l’entità dell’assegno divorzile, di fatto sta già avvenendo non per legge ma nella giurisprudenza. Fatta 100 la media rispetto al reddito precedente dei primi anni di giurisprudenza nel determinare l’assegno, siamo ormai scesi verso quota 50, 40 e talvolta anche 30 . Ma certo, con un matrimonio più facilmente solubile, anche la pretesa temporale all’assegno di mantenimento si dovrebbe affievolire.

Terzo problema: di sicuro invece dovrebbero essere modificate le nome sulle pensioni di reversibilità ai superstiti, che nel 2013 sono state incassate da 4 milioni 813mila soggetti per l’ammontare di 40 miliardi. (vedi tabella a pag. 52 del Rapporto sul sistema previdenziale presentato la settimana scorsa, il pdf integrale si scarica qui) A oggi, al trattamento di reversibilità è ammesso il congiunto di un familiare scomparso che abbia maturato 15 anni di contributi o anche solo cinque anni, almeno tre dei quali, però, nel quinquennio precedente la data della morte. E anche se lo scomparso era titolare di un assegno di invalidità. E, in percentuali diverse, la pensione di reversibilità è ammessa per il coniuge, in sua mancanza a figli e nipoti, e via via, a determinate condizioni, anche ai genitori in vita del defunto. Per il coniuge, il trattamento va oggi anche al superstite separato, se riceveva l’assegno alimentare. E a quello divorziato, se riscuoteva l’assegno divorzile e non si è risposato. Se si era risposato il defunto, la reversibilità si divide tra secondo coniuge dello scomparso e precedente coniuge non risposato. E se vi risposate dopo aver incassato la reversibilità, allora perderete il diritto ma in cambio di un assegno finale una tantum pari a due anni di trattamento.

In un paese dove l’INPS sta in piedi grazie a 90 miliardi di trasferimenti a carico della fiscalità generale, dovrebbero essere riviste tutte queste regole relative alla reversibilità pensionistica tra coniugi, o almeno le percentuali degli assegni se non i diritti a incassarli (che andrebbero riregolati secondo clausole temporali e di reddito nel frattempo raggiunto, e di età a cui l’assegno si incassa rispetto all’aspettativa di vita per limitare l’ormai famoso fenomeno delle badanti che sposano gli 80enni..). Non si può credere di definire la famiglia meno vincolante nel suo legame per legge, ma al contempo farne discendere diritti patrimoniali uguali a quando non era possibile divorziare in pochi mesi. Se chi si sposa lo fa sapendo di contrarre un vincolo più labile, pure i diritti conseguenti devono diventarlo. Anche se, scommetto, saranno in pochi a pensarla così.

 

23
Apr
2015

Il fisco discrezionale: abuso di diritto, funzionari illegittimi, e Stato che non paga

In un paese civile e ordinato, il fisco dovrebbe essere una materia chiara nelle sue norme e rigorosa nella reciprocità dei rapporti: lo Stato rigoroso verso chi non ottempera al dovere fiscale, ma anche pronto a sottoporsi alla stessa regola quando è lui, a finire in torto verso i contribuenti. Invece, da decenni aggiungiamo stortura a stortura. Il dovere fiscale è fatto di norme sempre più complicate e fumose. E lo Stato, in nome della lotta all’evasione e in difficoltà nei conti pubblici, sempre più pretende dal contribuente comportamenti ai quali è il primo a sottrarsi. La conseguenza? Lo Stato rigoroso a senso unico perde credibilità e legittimità, e senza di queste non vincerà la lotta all’evasione

Alcuni esempi concreti, che danno evidenza al nostro assunto. Martedì è ripreso il tortuoso cammino dell’applicazione della delega fiscale, dopo l’incidente in cui il governo è incorso alla vigilia di Natale con un testo – rimasto senza padre, scomparso nel silenzio – in cui affiorava un’incredibile norma di depenalizzazione della frode fiscale. Dei tre decreti delegati approvati martedì in Consiglio dei ministri e che ora andranno all’esame parlamentare, uno molto atteso riguarda il cosiddetto “abuso di diritto”. Tra le tante stranezze indigeribili del nostro paese, vi era quella di un reato penale tributario, l’elusione fiscale da abuso di diritto, mai scritta da alcun legislatore in alcun codice, ma entrata nel nostro ordinamento attraverso estensive definizioni giurisprudenziali, cioè con sentenze dei giudici, fino a pronunzie di Cassazione che ne avevano definito la fattispecie. Era divenuto reato penale la scelta da parte di un’impresa, nel pieno rispetto delle leggi fiscali esistenti – ripetiamolo: nel pieno rispetto delle leggi esistenti, senza violarne alcuna – di allocazioni di asset o di attività da cui conseguisse un vantaggio fiscale. Poiché la norma ha creato infinite interpretazioni diverse, affidate alla discrezionalità del giudice, e vasto contenzioso, la legge delega chedeva di fare finalmente chiarezza.

La chiarezza è consistita nel fatto che il reato non sarà più penale ma amministrativo, ma per il resto esso resta praticamente com’era stato in precedenza definito dalla Corte di Cassazione. Certo, si scrive che sarà l’Agenzia delle Entrate a doverlo provare (altra stortura, nel nostro ordinamento ha finito per prevalere l’idea che spetti al contribuente l’onere della prova..), e si ammette benignamente la possibilità che l’impresa possa preventivamente interpellare l’Agenzia prima di compiere la sua scelta (altro segno che non ci siamo: chiedere preventivamente permesso prima di fare una cosa è la miglior riprova che le norme da sole non consentono di capirlo). Ma resta il fatto che, se nel pieno rispetto delle norme vigenti un’impresa dovesse compiere scelte o assumere condotte tali da realizzare un prevalente vantaggio fiscale rispetto a quello economico o organizzativo, ecco che allora Guardia di Finanza e Agenzia delle Entrate avranno comunque la facoltà di contestarlo in nome del fatto che il risparmio fiscale sia illegittimo. L’imprenditore non può perseguire un vantaggio fiscale consentito dalle norme, se non ci sono evidenze che il vantaggio prevalente conseguito in conto economico e patrimoniale venga da altro: come se il fisco fosse una componente residuale, del risultato finale annuale.

Aspettarsi da un simile “chiarimento” meno incertezza e contenzioso è del tutto singolare, per non dire lunare. Agenti del fisco e commissioni tributarie resteranno loro i veri e unici depositari di che cosa configuri il vantaggio fiscale legittimo rispetto a quello illegittimo. Da una norma così, le imprese ricavano la non trascurabile certezza di evitare il penale, non quella di sapere con sicurezza che scelte poter compiere tali da evitare contestazioni tributarie. E in ogni caso il precedente contenzioso resterà in piedi penale compreso, secondo la pessima abitudine del fisco di non riconoscere che, quando una nuova norma è in favore di presunti precedenti rei, l’accusa decade automaticamente.

Si dirà che nei decreti delegati vi sono comunque novità positive, dal decadere dei doppi termini di accertamento da 4 a 8 anni che l’Agenzia delle Entrate aveva ottenuto per sé in presenza di segnalazioni all’Autorità giudiziaria, alla fatturazione elettronica che gradualmente supera spesometro e scontrini. Verissimo: ma quanto a chiarire in che cosa consista la presunta elusione nella scelta di opzioni fiscalmente più vantaggiose offerte dalla stessa legislazione italiana ed europea, il decreto ha fallito la delega che gli era affidata. Ed è lo Stato a riservarsi discrezionalmente l’ultima parola.

A che cosa corrisponde questa opacità dello Stato verso il contribuente, quando il torto conclmato è dello Stato e non del cittadino? Vediamone alcuni esempi concreti. Il primo è la sentenza della terza sezione del TAR del Lazio il 15 febbraio scorso, sul caso della signora Ivana Antonietta Di Mambro. Riconosciuta la fondatezza della sua richiesta, e cioè il pieno riconoscimento di un indennizzo dovutogli dal ministero della Salute compreso il periodo dal 2009 a oggi, il TAR ha negato che siano dovuti alla signora anche gli interessi di mora intercorsi sul mancato pagamento. La giustificazione? Testuale: “vista la condizione in cui versa la Pubblica amministrazione debitrice, debitamente documentate, nonché la notoria situazione di congiuntura che ha imposto severi tagli alla spesa pubblica, particolarmente nel settore sanitario afflitto da disavanzi di notevoli dimensioni”. Chiunque dovrebbe insorgere, leggendo un simile dispositivo. Il contribuente, quand’anche ammesso a rateazione dallo Stato per mancanza di liquidi, paga profumati interessi di mora e non si può sottrarre. Lo Stato si scrive una sentenza per non pagarli al contribuente, al quale ha intanto anche alzato le tasse. Una cosa da monarchie assolute, in pieno dispregio dell’elementare reciprocità di legalità che deve caratterizzare i rapporti tra Stato e cittadino. Eppure nessuno ha fatto un plissé, di fronte a una simile decisione del TAR.

Altri esempi, dal pacco quotidiano di segnalazioni da parte di lettori e ascoltatori. La Colorex di Lugo di Vicenza mi manda copia dell’atto per il quale, avendo richiesto accesso al regime di compensazione dei crediti IVA maturati nella sua attività di export, l’Agenzia delle Entrate chiede all’azienda una fidejussione a propria garanzia – dovessero risultare impropri i crediti – di 80mila euro. Inutile dirvi che oltre a essere proporzionata all’importo del credito, la richiesta di fidejussione comprende eccome anche gli interessi sul periodo relativo, al 2%. Ha senso per voi, che lo Stato chieda soldi in garanzia a coloro che maturano crediti fiscali nei suoi confronti? Datevi una risposta. E ancora. Da un’Agenzia viaggi in provincia di Modena, il cui titolare ha rateizzato 1400 euro di contravvenzioni e bolli non pagati, la fotocopia di una cartella esattoriale relativa a 12 centesimi di errore e sottostima nei pagamenti a saldo effettuati. Per la cui estinzione il contribuente dovrà versare la bellezza di 117 euro.

Infine, piovono sentenze come quella della commissione provinciale tributaria di Milano, che danno ragione ai contribuenti che impugnano come illegittimi gli atti di accertamento ed esecutivi sottoscritti dagli 800 dirigenti sanzionati come illegittimi dalla Corte Costrituzionale. Esattamente l’opposto della tesi sostenyuta dalla direttrice di AgEntrate Orlandi,  per la quale è “vergognoso” anche solo pensar a impugnative di atti firmati da quei dirigenti, “perché i cittadini perderanno i loro soldi”. Un tono e un argomento incommentabile, da satrapìe dell’antico impero persiano.

Ha senso un fisco così? La risposta è una sola. No, non ce l’ha. Finché continua a darsi ragione da solo, chiedendo a noi di comportarsi come lui per primo non si comporta, il fisco deve riformare se stesso prima di riformare il paese.

21
Apr
2015

Commissioni interbancarie: quel che si vede e quel che non si vede

Nessuna sorpresa sul fonte delle commissioni interbancarie sulle carte di pagamento: com’era atteso, il Consiglio UE ha approvato il regolamento introdotto nel 2013 dalla Commissione e licenziato il mese scorso dal Parlamento, imponendo un limite dell0 0,3% dell’importo della transazione per le carte di credito e dello 0,2% dell’importo della transazione per le carte di debito e le cosiddette carte universali.

In particolare, la misura interessa gli schemi di carte di pagamento più diffusi, quelli a quattro parti, in cui la transazione tra debitore e creditore è regolata attraverso la mediazione delle rispettive banche: senza l’intervento della banca del debitore, che emette la carta di pagamento, non sarebbe possibile autorizzare il trasferimento di denaro. Sennonché, mentre il creditore (tipicamente un esercente) riconosce alla propria banca delle provvigioni a fronte della possibilità di ricevere pagamenti elettronici, di norma l’istituto emittente non scarica sul debitore (tipicamente un consumatore) il costo del credito: per garantire il buon funzionamento del sistema, allora, sarà la banca del creditore a remunerare la banca del debitore, retrocedendole parte della propria commissione.

Le intenzioni del legislatore comunitario sono commendevoli, ma sostenute da un’analisi lacunosa. Le commissioni interbancarie costituiscono una quota considerevole delle commissioni di pagamento, che a propria volta si riflettono sui prezzi al dettaglio; limitare le prime dovrebbe, dunque, aiutare a contenere gli ultimi. Perché ciò avvenga, però, è necessario che gli esercenti trasferiscano ai consumatori il risparmio ottenuto: un’eventualità che il provvedimento dà per scontata, con un’ingenuità inaccettabile diciotto secoli dopo Diocleziano. Inoltre, il regolamento non tiene in considerazione l’effetto dei mancati ricavi sulle strategie commerciali delle banche emittenti.

Misure simili sono state sperimentate in diversi paesi: Spagna, Australia e Stati Uniti, tra questi. I risultati sono stati uniformemente negativi: i ridotti introiti degli istituti emittenti sono stati prevalentemente intercettati della grande distribuzione, mentre i consumatori hanno visto aumentare le proprie spese bancarie; negli Stati Uniti, questi cambiamenti, ancorché limitati alle carte di credito, hanno spinto quasi un milione di famiglie a uscire dal sistema bancario – è il fenomeno degli unbanked.

Simili conseguenze si possono prevedere anche per i paesi dell’Unione: per la sola Italia, la società di consulenza Europe Economics stima in 494 milioni di euro i minori ricavi di competenza delle banche, che saranno compensati da un aumento proporzionale dei costi a carico dei correntisti, mentre i minori costi per gli esercenti, preventivabili in 445 milioni di euro, saranno incamerati quasi esclusivamente dalla grande distribuzione. L’effetto combinato di queste tendenze sarà quello di frenare la diffusione dei pagamenti elettronici, con conseguenze dannose per l’efficienza, la sicurezza, la speditezza e la convenienza dei traffici commerciali.

Il legislatore europeo si muove qui sulla scorta di una malintesa teoria della concorrenza nel campo dei pagamenti elettronici: la competizione tra schemi diversi, si dice, incentiverebbe un aumento delle commissioni interbancarie funzionale alla seduzione delle banche emittenti. Si tratta di una visione parziale, che sottovaluta le altre forze che influiscono sulla fissazione delle tariffe, ma soprattutto di una diagnosi incoerente con la soluzione proposta. Se è vero che parliamo di un mercato caratterizzato da un deficit di concorrenza, allora la strada maestra è quella di propiziare l’ingresso di nuovi operatori. Restringerne i margini di manovra va precisamente nella direzione opposta.

21
Apr
2015

Profughi e immigrati: tre orrendi ritardi della politica

Che cosa induce da oltre vent’anni l’Italia a vivere rispetto agli altri paesi avanzati i flussi di immigrazione in perenne affanno e inseguendo le tragedie di migliaia di annegati? No, la risposta non è geografica, ovviamente per il fatto che al centro del Mediterraneo a poche miglia di mare dalla Libia ci siamo noi, e non altri. La risposta è politico-culturale. Abbiamo vissuto l’esplosione del fenomeno migratorio come una patologia di volta in volta da arginare come fosse emotiva questione di ordine pubblico, dalla legge Martelli alla Turco-Napolitano alla Bossi-Fini. Non abbiamo capito che dovevamo far tesoro dalle esperienze altrui, cumulate prima di noi innanzi a fenomeni analoghi per decenni, e in alcuni casi per secoli, nel caso di Paesi che hanno avuto Imperi come il Regno Unito o la Francia.
Il ritardo resta, purtroppo, anche oggi. Ed e’ un ritardo a tre dimensioni.

La prima e’ purtroppo quella consegnataci dagli ultimi svilupppi. Per evitare che primavera ed estate del 2015 siano una strage mediterranea continuata, a fronte di una Libia a-statualizzata e della realtà rappresentata da ISIS e dalle sigle islamiste associate e contrapposte, occorre un complesso dispositivo politico-militare. Da costruire sommando Onu, Ue e una coalizione di Stati africani e musulmani.
Spostare la vigilanza sul traffico di carne umana “per impedire che gli scafi partono dalla Libia”, come ha detto Renzi. E che in realtà equivale a quel che ha detto Salvini, invocando il blocco navale. Significa per l’Italia mostrare di avere un coalition power transmediterraneo e transatlantico. Cio’ che la politica estera e militare italiana non ha nelle sue corde, abituata com’e’ a oscillare tra decisioni prese dagli altri – vedi l’intervento in Libia nel 2011, voluto dai franco-britannici – e querimonie verso la Ue che ci trascura, vedi l’evoluzione da Mare Nostrul all’attuale inadeguata missione Triton. Occcorre un vero “gabinetto di guerra” perché l’italia possa, in un paio di mesi, ottenere la cornice internazionale senza la quale “impedire agli scafisti di partire” dalle coste libiche della Sirte sarà un miraggio. La somma complessa di mezzi aero-navali, droni e satelliti necessari a controllare le coste libiche, e a organizzare aree umanitarie di raccolta in Libia, è ipotizzabile solo se l’Italia convince molti paesi che in gioco è la sicurezza comune. Non è cosa agevole se s’immagina di risparmiare uno strumento militare italiano che a malapena raccoglie lo 0,9% del PIL tutto compreso, levando carabinieri e funzioni accessorie dagli stanziamenti della Difesa. Non nutro illusioni, sulla capacità di dar vita a un complesso strumento internazionale di questo tipo. Vedremo Renzi di che cosa sarà capace, e quale sarà la vera disponibilità a impegnarsi all’ONU del summit straordinario europeo domani. Di sicuro la Francia è molto interessata, presente com’è militarmente in Mali e Niger, al confine meridionale della Libia. Sarebbe già molto mettere insieme in un’intelligence unica quanto sanno i servizi francesi e USA, egiziani e tunisini, e – purtroppo – turchi, i quali ultimi tengono rapporti di pelosa prossimità con i trafficanti di schiavi e petrolio islamisti.

Il secondo e il terzo aspetto riguardano invece l’immigrazione ordinaria: la sua pianificazione e la sua gestione. Mentre la dimensione politico-militare del guaio libico è relativamente recente, su questi due aspetti il ritardo italiano è patologico e inescusabile. Sono passati vent’anni da quando avevamo un numero di immigrati di poco superiore a 500mila unità, mentre oggi sono quasi 5 milioni e mezzo, un milione e trecentomila famiglie di soli immigrati, e un milione di minori. Un milione di romeni, mezzo milione di marocchini, mezzo di albanesi (i più rapidamente integratisi). Mentre la popolazione straniera è cresciuta in media ogni anno del 103,3 per mille, quella italiana si è invece ridotta progressivamente dello 0,7 mille.
Avremmo dovuto capire, azzerando ogni polemica politica, che l’attuale andamento demografico non rende sostenibile il futuro del nostro Paese: nel 2014 siamo giunti al minor numero di nati dall’Unità d’Italia, solo 508 mila, i morti sono stati 80mila in più, le donne italiane hanno un numero medio di figlli pari a 1,3 mentre il tasso di equilibrio demografico dovrebbe essere di 2,1, e tutto questo a lungo andare abbasserà sempre più il numero di persone al lavoro rispetto ai pensionati. Vent’anni sono abbastanza per comprendere  che o rimediamo come abbiamo fatto nel quindicennio alle nostre spalle, con in media 300mila immigrati nuovi ogni anno (scesi a 150 mila nel 2014, per la crisi). Oppure, se non vogliamo immigrati, dobbiamo cambiare radicalmente la politica fiscale e il welfare per sostenere le famiglie e la fecondità delle residenti attuali, per portarla oltre il 2,1 al più presto possibile. E dovremmo piantarla di ripetere “quanto ci costano”, visto che l’8% del PIL italiano viene dagli immigrati, e che nel saldo tra imposte e contributi che pagano e le spese a loro rivolte il saldo è positivo per 4 miliardi (vedi i numeri qui).
Questo arido ma essenziale “conto economico delle convenienze dell’immigrazione” è stato fatto nel tempo da altri paesi avanzati. Negli anni Cinquanta la Germania aveva bisogno di manodopera e spalancò  le porte ai Gastarbeiter, i “lavoratori ospiti” prima italiani, poi turchi, poi africani e asiatici. Per poi, nella crisi occupazionale degli anni Duemila, stringere il freno e passare alla pianificazione delle quote nazionali, scelte per specializzazione del capitale umano (e ancor oggi, non dimentichiamolo, le richieste pendenti di asilo in Germania sono 3 volte superiori alle 67mila italiane…). La stessa cosa è avvenuta nel tempo in Australia e negli USA, e in tanti paesi OCSE che senza tanti patemi “scelgono” le qualifiche, basse e alte o altissime, a cui tenere discrezionalmente e diversamente aperte le quote di regolarizzazione degli immigrati. E’ questo l’esempio a cui dobbiamo guardare, a maggior ragione ora che stenteremo per anni a riassorbire tre milioni e mezzo di disoccupati italiani. Ma per fare tutto questo servono politici capaci di vincere l’impopolarità delle “cifre vere”, capaci di studiare e citare ricerche come questa, sull’effetto positivo che i migranti sortiscono sulle basse qualifiche dei lavoratori “nostrani”.

Il terzo aspetto riguarda le politiche sociali e d’integrazione. Prima ancora che ridiscutere se la cittadinanza italiana si dia ancora per solo ius sanguinis invece che aprendo allo ius soli (personalmente sono favorevole a una forma di ius soli “temperata”), l’Italia dovrebbe uscire dal disastroso modello adottato sin qui. Quello per il quale dietro la prima linea dei Cie oggi CARA e cioè delle sistemazioni d’urgenza temporanee, modificatesi nel tempo tra polemiche feroci, abbandona però integralmente agli Enti Locali la competenza delle politiche d’integrazione, abitative e scolastiche, dell’impiego e della formazione del capitale umano. E’ da questa scelta scaricabarile, che deriva il concentrarsi di guai quando in aree delimitate di territorio l’immigrazione, dal 9% scarso oggi media sul totale della popolazione italiana, diventa tre, quattro e cinque volte maggiore rispetto al totale degli italiani, in un quartiere o in un piccolo centro. Molto spesso in aree in cui il reddito degli italiani è a propria volta molto basso e alto è il disagio sociale, e dove ogni intervento pro-immigrati a quel punto alimenta come benzina sul fuoco intolleranze e populismi di ogni tipo. Come avvenne l’anno scorso a Tor Sapienza a Roma, come accade in molte città e province italiane.

Prima che sia troppo tardi, la politica deve decidere di attribuire competenze (e risorse) agli unici che possono affrontare organicamente il problema dell’integrazione di milioni di stranieri: non lo Stato centrale, ma gli Enti Locali. In Germania, le competenze sugli immigrati non fanno capo allo Stato federale, ma ai Laender. E sono le grandi città metropolitane, che nei decenni sin dagli anni Cinquanta hanno elaborato modelli diversi di housing sociale e integrazione scolastica per gli, immigrati.
Sono le 10 nuove Città Metropolitane italiane più Roma capitale – non le Regioni, per carità – e cioè il nuovo macroreticolo amministrativo italiano in cui si addensano popolazione e problemi sociali, a dover avere competenze e risorse per gestire un fenomeno che non può essere affrontato con centri temporanei, magari per di più fonte di appetiti e affari illeciti come abbiamo appreso dalle indagini delle Procure. Ma le nascenti Città Metropolitane nascono invece attualmente senza risorse.

E’ giusto credere che l’Italia debba modificare gli accordi di Dublino sul dovere di asilo del primo paese che registra gli immigrati. Ma cio’ non toglie che il malessere italiano che si legge nei sondaggi sull’immigrazione nasce dal credere di mettere la polvere sotto il tappeto chiudendo per un po’ migliaia di immigrati in spogli palazzoni di degradate periferie. Non è una soluzione. E’ la miccia su una bomba. E alla politica dovrebbe spettare disinnescarla, invece di soffiarci sopra per meschini tornaconti elettorali.

 

21
Apr
2015

Dossier Confedilizia: tasse, tasse, tasse

C’era una volta, fino a poco tempo fa, l’Italia delle tasse molto alte sul reddito, sia quello da lavoro autonomo che da lavoro dipendente, e delle tasse un po’ meno alte sui patrimoni, sia finanziari che immobiliari. Quell’Italia non c’è più.

O meglio, come ha recentemente mostrato Uberto Cardellini, il paese dal folle carico fiscale sui redditi c’è ancora. È venuta a mancare l’altra Italia, quella dalle imposte sui patrimoni leggermente al di sotto della media, così che oggi abbiamo un carico fiscale insostenibile su tutti i fronti. L’inasprimento della tassazione sui patrimoni finanziari, ovvero sui risparmi investiti in strumenti mobiliari, è già stato raccontato, anche su questo blog. Un dossier di Confedilizia ci mostra invece il brusco aumento di imposte verificatosi in questi anni anche sui patrimoni immobiliari.

Stando a questo dossier, nel triennio 2011-2014, si è passati dai 9,2 miliardi dell’ICI ai ben 25 miliardi della doppia imposta IMU-TASI. E il passaggio non è stato per niente graduale: già nel 2012 l’ICI veniva sostituita dall’IMU con un gettito pari a 23,8 miliardi. Mentre nel 2011 pagavamo imposte sugli immobili pari a circa lo 0,6% di PIL, ora siamo vicini al 1,7%, contro una media europea di circa l’1%.

Alcuni esempi, inseriti nello studio, mostrano come l’aumento percentuale di tassazione locale sia arrivato al 291% per gli immobili locati a canone calmierato e a 157% per quelli con contratto libero. Nel caso concreto di un appartamento a Roma notiamo che, comprendendo tutte le imposte (ovvero: IRPEF, addizionali regionale e comunale, IMU, TASI, imposte di registro e di bollo), si arriva a un prelievo fiscale di quasi l’80% del canone di locazione. Certamente si tratta di un caso estremo, ancorché reale, ma è pur sempre utile a far capire la situazione.

Lo shock che c’è stato dal lato delle imposte sul risparmio, sia quello investito in strumenti mobiliari che in beni immobili, è impressionante. Ed è tanto più grave, se si pensa che lo shock non è dipeso tanto da un ripensamento del sistema tributario volto a spostare la tassazione dal lavoro ai patrimoni, quanto da una sorta di irrefrenabile tendenza da parte dei governi a racimolare risorse ovunque ne siano rimaste. Un punto di PIL all’anno tolto alle famiglie italiane in un battito di ciglia. Sarebbe bello se i governi fossero così rapidi, risoluti ed efficienti anche dal lato della spesa pubblica. Invece sembrano perfettamente in grado di imporre la revisione della spesa ai cittadini, ma non a loro stessi.

“Un soldo risparmiato è un soldo guadagnato… Per noi”, diceva lo sceriffo di Nottingham, intento a esigere il soldo-regalo di compleanno di un povero coniglietto, in una scena del Robin Hood di Walt Disney. In Italia non siamo ancora arrivati al rapporto uno a uno, ma come mostra il caso del canone di locazione prelevato all’80%, siamo sulla buona strada, e comunque già ben oltre la soglia della ragionevolezza.

Fa dunque riflettere la raccomandazione con la quale lo sceriffo si congeda sbeffeggiando la povera famigliola: “continuate a risparmiare”.

 

@paolobelardinel