10
Feb
2010

Neppure il pelo

Il lupo governativo non perde né il pelo, né il vizio. Dopo le innumerevoli sortite contro l’Autorità per l’energia (fallite). Dopo il pasticcio sul finanziamento delle autorità di regolazione (riuscito). Dopo il blitz sulla Consob (fallito). Dopo i tentativi di lottizzazione dell’Agenzia di sicurezza nucleare (vedremo). Ora l’emendamento ad personas riguarda la Commissione sul diritto agli scioperi.

Un emendamento al decreto milleproroghe, approvato lunedì dalla Commissione Affari costituzionali del Senato, allunga la vita di tre anni agli otto membri più il presidente della Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, peraltro insediatisi meno di un anno fa (con codazzo polemico per l’assenza di esperti di questione lavoristiche). Non sto a riptere cose già dette: l’autonomia dei regolatori è condizione essenziale perché possano operare bene e con efficacia. L’autonomia non è solo un beneficio (cioé: avere le mani libere) ma può anche rappresentare un costo (per esempio: l’impossibilità di essere riconfermati, i vari vincoli e incompatibilità, eccetera). Dall’equilibrio delle due cose dipende, in ultima analisi, l’efficacia degli organismi di controllo e regolazione.

Ora, intendiamoci: la Commissione sugli scioperi ha un ruolo limitato, per quanto importante. Qualunque intervento a gamba tesa su di essa non ha la stessa portata che avrebbe su autorità più corpose, come Aeeg, Agcom, Agcm e Consob (che, per inciso, hanno tutte un numero inferiore di commissari: si vede che vigilare sugli scioperi è più impegnativo che tutelare la concorrenza, sorvegliare la borsa, o regolare mercati come quello energetico e delle telecomunicazioni). Però la logica è la stessa e, soprattutto, qualunque intervento, in qualunque punto del sistema, si ripercuote sotto forma di “messaggio” al sistema intero. Allungare il mandato dei commissari attualmente insediati (ovviamente sarebbe stato diverso se la riforma fosse entrata in vigore dal prossimo collegio) è un modo per garantirsi la gratitudine degli attuali occupanti di quelle poltrone. Magari la loro indipendenza di giudizio non ne viene minata, perché sono tutte persone degnissime e rispettabilissime: però, quanto meno, viene minata la percezione di tale indipendenza, e se non è zuppa – mi permetto di dire – è pan bagnato.

Il tema di fondo, come nei casi precedenti, e in quelli che presumibilmente vedremo nel futuro (con una certa noia, che si tratta sempre della stessa questione), è l’assenza di una vera cultura della regolazione indipendente. Non si tratta di farne un feticcio: personalmente trovo più interessante riflettere sui meccanismi della cattura dei regolatori, e sul reale funzionamento delle rispettive autorità, piuttosto che su una ipotetica e assoluta indipendenza che non potrà mai esistere. Una indipendenza parziale, va detto, è comunque preferibile all’assoggettamento ai desiderata governativi e politici, perché quanto più le funzioni si fanno critiche, tanto più è importante che le decisioni siano credibili, tecnicamente qualificate, e stabili. Quando, dunque, le incursioni si fanno troppo numerose, troppo spregiudicate e troppo chirurgiche – tutto quello a cui abbiamo assistito è stato tutto questo – allora bisogna tornare ai principi primi e, di fronte a un evidente peggioramento, difendere lo status quo. Not my cup of tea, ma s’ha da fare.

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