17
Lug
2009

Low return on assets versus high yields push: come se ne esce?

Goldman Sachs e Jp Morgan escono con le loro trimestrali come le vere vincenti del credito americano post aiuti di Stato, e l’analisi dei loro risultati conferma che – grazie al fatto di essere state più prudenti nell’andare “corte” da metà 2007 a settembre 2008 sulle colossali nozionali di securities sintetiche che negli anni precedenti avevano loro fruttato utili stellari affettandole, reimpacchettandole e rivendendole in tutto il mondo – oggi possono meglio delle concorrenti assumersi di nuovo elevati rischi nel trading properties, massimizzando aiuti del Tesoro e oceanica liquidità.  M’interessa assai poco seguire i toni alla Grillo di Paul Krugman, nel commentare tale fenomeno. Serve di più una fredda analisi sistemica. Da dove nasce, la relazione asimmetrica tra basso return on assets e spinta verso high yields? Quali responsabilità implica per il regolatore? Se bisogna uscirne e cioè occorre attenuarla- e dico “se” –  come e che deve farlo al meglio? Le domande centrali sono queste, se vogliamo pensare a un’intermediazione finanziaria meno proclive a instabilità sistemica (il che non dovrebbe esimere noi europei dall’occuparci delle 30 banche continentali tra grandi e grandissime che attendono di essere ristrutturate dopo i salvataggi, come ha detto oggi Neelie Kroes per mascherare la sostanziale impotenza in materia della Commissione europea; né continuare a far finta di nulla di fronte all’accumulo tossico che resta nelle banche del Paese leader, la Germania, a fronte dell’aggravarsi della crisi bancaria nell’area baltica, vedi oggi i disastrosi risultati annunciati da Swedbank). Sono domande che ci riportano alla responsabilità del regolatore monetario, e a quella dei criteri di supervisione.  La risposta non “unisce” affatto: anzi, per chi la pensa come noi, divide e anche profondamente, dal mainstream che riecheggia oggi nei fori internazionali.

Esiste, innanzitutto, la correlazione tra Low ROA e High Yields? Esiste. Deloitte ha appena rilasciato un interessantissimo e ponderoso studio dedicato esattamente al tema, allo Shift Index.  Accorpando e rendendo omogenei dati raccolti da una molteplicità di fondi diverse per i 15 maggiori settori di attività economica degli Usa, lo studio elabora tre indici complessivi dai quali si desume che dal 1965 ai livelli pre crisi il ROA era complessivamente caduto addirittura  del 75%, malgrado una produttività crescente e, negli ultimi 15 anni, sostanzialmente da record per gli Stati Uniti.  Tutto ciò mentre l’economia americana diventava molto più competitiva e concorrenziale, vedi questa chart che dà immediatamente l’idea di come l’indice Herfindahl-Hirschman – che misura la concentrazione sul mercato – sia diminuito addirittura di più del 50%. Questa altra chart mostra invece come nei 4 decenni alle nostre spalle si sia elevato del 60% l’indice che misura  l’intensità di cambiamento del ROA per le imprese. Tradotto in termini terra terra, significa due cose: sforzi più erculei per le imprese per evitare di perdere posizioni ed essere scalzate, e maggior volatilità collegata a stress finanziari.

Il tema della competitività americana è comunque centrale per il recupero della capacità di consumo Usa in tempi ragionevolmente brevi: attualmente stiamo assistendo a una compressione dei consumi pari all’11-12% del reddito disponibile in un anno, col passaggio da consumi finanziati a debito per tre punti in più del reddito disponibile a una propensione al risparmio che in pochi mesi ha raggiunto l’8%, e se questo andamento è positivo perché indica un rapido riallineamento della sostenibilità del debito privato, in queste proporzioni significa che per gli Usa tornare ad assorbire beni prodotti in tutto il resto del mondo per un bel pezzo resterà un’utopia, con conseguenze sul commercio mondiale che per noi italiani sono disastrose. Se comunque leggete il report della Deloitte, vedrete che la lettura delle due chart porta alla conclusione, largamente ottimistica e che per un decennio è andata per la maggiore, che la compressione del 75% del ROA concomitante al più che raddoppio della concorrenza interna ha significato  che il minor ritorno sul capitale fisso si è tradotto in una massiccia doppia traslazione, a vantaggio di prezzi più bassi per i consumatori e di remunerazioni più elevate, cioè per l’input rappresentato dalla “classe creativa” che sviluppa i drive di crescita.

Solo che se ci si limita a questo si coglie una versione a tinte rosa della realtà: gli arricchimenti dei giovani creatori delle dot.com, Google e via proseguendo, erano e sono comunque una porzione assai minoritaria, del più del monte utili riversato in bonuses, fees e varie forme di retribuzioni di compartecipazione totalizzati dai manager e quadri del solo settore dell’intermediazione finanziaria, giunto a rappresentare oltre il 40% del totale del monte utili delle società quotate Usa, mentre l’apporto alla generazione di valore aggiunto nazionale era di poco superiore al 10% (fenomeno che potentemente si rimette in moto in Goldman, che col ritmo del primo semestre avrà accumulato a fine 2009 oltre 22 bn $ – ! – da destinare a retribuzioni premiali). Di fronte a questo esito, la tentazione del krugmaniano-keynesiano è di gridare contro l’eterno greed dei banchieri, e invocare draconiani criteri centralizzati al fine di contenere i parametri delle compensazioni straordinarie. Con tutto il rispetto, sono balle. anche se popolari. Il problema degli schemi retributivi è unicamente che essi siano chiari e dichiarati ai soci di minoranza, per evitare problemi di agenzia cioè collusioni tra chi esercita il controllo e manager:  per il resto, ogni intermediario dovrebbe essere libero di organizzarsi come crede.

Il punto vero è invece quello rappresentato dal fattore più potente, che ha esacerbato negli anni alle nostre spalle la correlazione inversa tra ROAs in diminuzione e yields perseguti sempre più alti. La politica monetaria lasca, cioè un tasso d’interesse più basso a breve rispetto a quello che dovrebbe essere, seguendo norme prudenziali pre dichiarate al mercato come la legge di Taylor, è il più potente fattore di  abbassamento del ROA, e al contempo, accompagnandosi a ingente liquidità monetaria a basso costo, potentemente induce gli intermediari finanziari venditori, come tutti i loro clienti acquirenti di financial assets per tenere alta la remunerazione del capitale altrimenti bassa, ad assumersi rischi crescenti.

E’ un tema trattato per esempio in un bel paper appena pubblicato, di Alberto Giovannini, Stefan Gerlach e Cédric Tille. E tuttavia anche le conclusioni dei tre economisti NON sono da condividere, per chi la pensa come noi. Venendo al punto della relazione tra bassi ROAs e ricerca crescente di high yields, escludono esplicitamente che la causa vada ricercata nel fattore politica monetaria, e invocano invece una iper regolazioen di “ogni” tipo d’intermediario finanziario a cominciare dagli hedge funds, perché a prescindere dai depositi dei risparmiatori il criterio da assumere come centrrale è che la macrostabilità può essere attentata da qualunque tipo di intermediario, basta che sia troppo grosso. E dunque tutti vanno riregolati , tra ratios patrimoniali, schemi di compensazione ai manger.

Politiche monetarie più rigorose e meno discrezionali da una parte, ratios patrimoniali anticiclici e più severi per le banche commerciali nei tempi di vacche grasse, indicazioni ex ante ri-gi-dis-si-me chi avrà diritto ai fondi FED e FDIC per evitare fallimenti e su tutti gli altri che invece vedranno l’equity azzerato se sbagliano a prender rischi: in buona sostanza, il buon miltonfriedmaniano si accontenterebbe di questo.  Niente a che vedere con la letteratura iper regolatoria che si accumula di giorno in giorno sulle scrivanie dei politici. Vedremo che cosa ne penserà la commissione d’indagine bipartisan sulla Grande Crisi appena nominata dal Congresso, con poteri di subpoena a analoghi a quella che investigò sul disastro dell’intelligence del’11 settembre 2001. La politica americana si aspetta qualcosa di analogo alla grande indagine senatoriale guidata da Ferdinand Pecora sulla crisi del 29,  indagine i cui lavori portarono poi alla creazione della SEC, della FDIC e al Glass-Steagall Act. Ma c’è molto da temere, col ciarpame intellettuale diffuso a piene mani da chi dice che quel che è avvenuto è colpa del mercato e dell’avidità che gli è congeniale.

You may also like

Punto e a capo n. 50
Domanda e offerta per banchieri centrali
Il dollaro si svaluta, l’oro brilla e bitcoin sembra meno virtuale del mercato azionario
Un nuovo ruolo per la CdP? Modelli di mercato o “catoblepismo” di ritorno – di Stefano Simonelli

2 Responses

  1. giorgio arfaras

    Intanto complimenti per l’articolo. Aggiungerei solo questo.

    E’ vero che i krugman-keynesiani propongono come unica soluzione un intervento dall’alto che normalizzi le iper retribuzioni? L’idea, detto altrimenti, sarebbe che, tolta la tentazione, si elimina il peccato. Laddove la tentazione è il guadagnare come nababbi ed gli effetti collaterali del peccato sono le crisi finanziarie – figlie del troppo rischio generato e distribuito – che possono azzoppare l’economia “reale”.

    Si e no, la loro proposta di fondo è quella di creare un sistema bancario doppio, uno noioso, ed uno vivace. Quello noioso si occupa di credito ordinario, quello vivace di investimenti. Quest’ultimo è libero di guadagnare e perdere quanto vuole, è non è mai salvato dai poteri pubblici. Il primo, essendo noioso, ossia privo di rischi, non dovrebbe mai perdere colpi e quindi non dovrebbe mai smettere di erogare credito.

    Il progetto sembra sensato ed è dirigista. Dirigista? Si, perchè parte dall’idea che il mercato non sia in grado di autoregolarsi e dunque che vada diviso in partenza per evitare i danni potenziali.

    Secondo questa scuola di pensiero, il mercato finanziario non è – come dovrebbe -l’ombra dell’economia reale. L’ombra che riflette i “fondamentali”. Il malandrino agisce in proprio, raramente riflettendo i fondamentali, e qualche volta producendo gravi danni.

  2. LC

    Limitandosi al settore finanziario americano, in particolare al settore immobiliare, che poi è la causa scatenante di tutto questo marasma mondiale, c’è anche da dire che il crollo dei rendimenti per le banche sui mutui “prime” è figlio dell’attività delle due ex-GSE Fannie&Freddie che, beneficiando di una implicita garanzia pubblica, hanno potuto praticare tassi tali da rendere il mercato assolutamente non attraente per le normali banche private, spingendole verso il settore “subprime”.
    Non ho dati sufficientemente dettagliati sotto mano, ma credo che su questo ci sarebbe molto da dire e scrivere.
    Eccessi monetari sommati alle distorsioni dell’intervento pubblico diretto (o quasi) sono due concause da non sottovalutare, anche se dubito sentiremo particolari mea culpa su questo. Meglio prendersela col mercato, è molto più facile.

Leave a Reply