1
Giu
2012

Lo Stato è la volontà generale? Jean-Jacques Rousseau a tre secoli dalla nascita – di Gerardo Coco

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Gerardo Coco
.

Nel mese di giugno di trecento anni fa, a Ginevra, nasceva Jean-Jacques Rousseau (28 giugno 1712 – 2 luglio 1778). È una ricorrenza importante perché questo grande narratore e filosofo sociale ha, più di ogni altro, influenzato la politica e la cultura moderna. Leggendo le sue opere politiche si capirà perché i punti di svolta decisivi della Storia sono spesso portati da tempeste improvvise. Quella che Rousseau scatenò fu annunciata da un grido: “L’uomo è nato libero ma dovunque è in catene”. È così infatti che si apre il primo capitolo del Contratto Sociale, la sua opera politica più importante. Fu la parola d’ordine del secolo successivo. Marx la trasformò in appello all’azione a dimostrazione di come le frasi roventi agiscono sulle menti più dei ragionamenti e diventino strumenti di potenza in mano a capi politici che se ne servono per influenzare le masse.

Rousseau non ha ispirato solo i dittatori moderni. Tutta la letteratura, la pedagogia, la filosofia e la morale del secolo cominciato con la sua morte si arresero in massa a questo pensatore. Qualcuno disse: nulla inventò, ma tutto mise a fuoco.

Rousseau ha affascinato pensatori di opposte tendenze: da Goethe a Tolstoj, da Kant a Hegel. Commosse Leopardi e perfino il presidente americano Jefferson, che nello stendere la Dichiarazione di Indipendenza subì, oltre all’influenza di Locke e Montesquieu, anche – almeno in parte – quella di Rousseau.

Creò delle mode. La sua autobiografia, le Confessioni, indubbiamente un capolavoro, dette inizio all’ondata letteraria di memorie e di fantasticherie. La nuova Eloisa, romanzo epistolare di notevole introspezione psicologica aprì la strada al movimento romantico. Esaltò gli istinti e i sentimenti repressi. Dopo la pubblicazione de L’Emilio, il romanzo pedagogico che ispirò un sistema educativo basato sulle sue idee, le madri francesi diedero il seno ai poppanti persino quando erano al teatro d’opera. In Italia influenzò Maria Montessori e in Germania il sistema dei Kindergarten, che si diffusero in tutta Europa. Con lui il femminismo mosse i suoi primi passi, ma pure i movimenti ecologisti furono influenzati dal suo misticismo naturalista. Fu individualista e collettivista al tempo stesso, ispirando anarchici e socialisti. A chi gli rimproverò tutte le contraddizioni del suo pensiero rispose da elegante sofista: “Tutte le mie idee sono coerenti, ma non posso esporle contemporaneamente” (Il Contratto Sociale).

Rousseau ebbe una vita tormentata e avventurosa. Segni particolari: sensibile fino alla nevrosi e temperamento infiammabile. La madre morì mettendolo alla luce e il padre, un orologiaio e ministro calvinista, lo abbandonò in giovane età. Lasciò la Svizzera e vagabondò tra l’Italia e la Francia. Frequentò il salotto di un’avventuriera, la famosa madame de Warens, di cui divenne amante e che lo convertì al cattolicesimo. Lasciata l’amante, si stabilì definitivamente a Parigi come copista. Cominciò a frequentare i salotti, ma non riuscì mai a integrarsi nella società parigina dominata dai filosofi della Ragione, con cui finì per scontrarsi.

Timido e a disagio alla presenza di uomini colti, era felice solo quando poteva stare in mezzo alla natura, il suo rifugio di sempre. La natura diventò un principio mistico che sostituì il Dio della Bibbia. Dio non era una divinità remota ma la natura stessa, una natura buona e se questa era buona, lo era anche l’uomo. Jean-Jacques arrivò a una conclusione: la società era una malattia, progresso e cultura non avevano contribuito al miglioramento degli uomini. Il risultato la contrapposizione tra la condizione dell’uomo allo stato di natura e quella dell’uomo incivilito.



Il fondatore del socialismo

Queste prime riflessioni furono sviluppate nell’argomento di un concorso bandito a Digione: Se il progresso delle arti e delle scienze aveva reso gli uomini migliori e più felici (1749) a cui il giovane Jean-Jacques partecipò. Lo svolgimento del tema, che anticipa tutta la sua filosofia sociale, costituiva un rovesciamento della visione illuminista.

“Gli uomini nascono buoni e la società li rende cattivi”, scrive. Giudizio rivoluzionario che per Jean-Jacques implicava un mutamento delle istituzioni sociali attraverso cui l’umanità potesse riacquistare la sua primitiva bontà, così da eliminare l’egoismo. Inventò dunque un essere impersonale a cui dare la colpa di tutto: la Società. Diventò famoso da un giorno all’altro. Quattro anni dopo partecipò a un nuovo concorso bandito dall’Accademia di Digione e il cui argomento era: l’Origine della disuguaglianza fra gli uomini. Rousseau lo vinse scrivendo un discours imperniato sul tema della degenerazione dell’umanità subita nella transizione dallo stato naturale a quello civile. La degenerazione era dovuta all’invenzione della metallurgia e dell’agricoltura, che segnavano la nascita della divisione del lavoro. Celebre è il passo in cui accenna alla nascita della proprietà privata:

“Il primo il quale, avendo chiuso un terreno, osò dire, esso è mio, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, quante miserie, quanti orrori avrebbe risparmiato al genere umano colui che togliendo i pali e colmando i fossi avesse detto ai suoi simili: guardatevi bene da dar retta a questo impostore, voi siete perduti se dimenticate per un momento che i frutti sono di tutti e la terra è di nessuno”.

Rousseau spiegava anche come la proprietà privata, permettendo ai titolari delle terre l’accumulazione di un surplus di derrate e mettendoli in condizione di comprare il lavoro dei nullatenenti (costretti ad accettarne il contratto di sottomissione), fondava la società civile consacrandone le ineguaglianze. Insomma Rousseau anticipava taluni tratti della fenomenologia del Capitale.

Quale era stato il ruolo storico dello Stato in questa evoluzione? Quello di difensore delle classi dominatrici capitalistiche contro i proletari. Sebbene il Discorso sull’ineguaglianza degli uomini sia stata un’opera decisiva nella storia del pensiero socialista, una vera e propria filosofia della storia che muove da un ipotetico stato di natura fino ad auspicare il sovvertimento dell’ordine esistente, esso pose anche le basi dell’anarchismo moderno.

Rousseau non pensò mai ad una dittatura del proletariato che, anzi, detestava. Vagheggiava piuttosto un tipo di società agreste e prospera come quella descritta nella La nuova Eloisa. Cento anni dopo Proudhon gli contestò di aver voluto mettere la borghesia sul trono.
 Nel 1755 Rousseau venne chiamato da Diderot a collaborare alla Enciclopedia per la voce “Economia politica”.

“Senza dubbio – scrive – uno dei maggiori affari del governo sta nel prevenire l’estrema diseguaglianza delle ricchezze; ma non confiscandole ai loro possessori, bensì togliendo a tutti i mezzi idonei ad accumularle; non dunque, ad esempio, costruendo ospizi ai poveri, ma garantendo i cittadini dal pericolo di divenire tali”. Rousseau non propone di sopprimere la proprietà privata, ma ipotizza una serie di misure per regolarla. L’imposta è il principale strumento al servizio della realizzazione dell’eguaglianza: “Chi ha semplicemente il necessario non deve pagare nulla; chi invece gode di un superfluo deve essere tassato fino al limite di tutto ciò che eccede le sue necessità”. In secondo luogo l’imposta non deve essere considerata come un mezzo per rifornire lo stato; al contrario deve “prevenire il continuo aggravarsi delle differenze sociali, alleviando la povertà e colpendo la ricchezza”.

Dall’eguaglianza primitiva dello stato di natura in cui l’uomo è felice nasce la civiltà, a seguito di quell’usurpazione della proprietà che crea la distinzione tra ricchi e poveri. Ma se lo stato di natura non è più restaurabile, gli uomini sono restaurabili in base a questo concetto. Da queste riflessioni nasceva L’Emilio o dell’educazione, il più famoso romanzo pedagogico che sia stato scritto e dove Rousseau  delinea una nuova forma di educazione basata sul concetto dell’autonoma formazione dell’individuo, libero da costrizioni, dalle violenze e dai pregiudizi sociali. Poiché secondo l’autore tutti gli ammaestramenti morali dovevano rinunciare all’appoggio della fede religiosa, prelati e magistrati condannarono il libro come apostasia del cristianesimo. Il parlamento ordinò che fosse bruciato e Rousseau fuggì in Svizzera. Ma anche qui il clero calvinista lo denunciò come eretico. Anche i philosophes la ritennero un’opera che tradiva la loro filosofia. Rousseau riparò in Inghilterra dove fu ospite del filosofo David Hume. Ma litigò anche con lui. Dopo diversi anni ritornò in Francia, dove morì disperato e inviso da tutti: soprattutto da Voltaire, con il quale aveva iniziato una fra le più famose dispute della storia dell’Illuminismo.



Nello Stato non c’è scampo

Con L’Emilio Rousseau aveva tentato di risolvere il problema educativo, con La Nuova Eloisa quello dell’amore e ora, con il Contratto sociale, si proponeva di risolvere quello politico. Nei Discorsi Rousseau aveva accusato i governi di aver distrutto la libertà dello “stato di natura”. Come creare, allora, un’associazione legittima? Egli si propone di “trovare una forma di associazione che difenda e protegga con tutta la forza collettiva la persona e i beni di ogni associato e mediante la quale, ciascuno unendosi a tutti, non obbedisca che a se stesso e resti libero come prima. Questo è il problema fondamentale che il Contratto sociale risolve” (Contratto sociale, libro I) .

Un contratto sociale, scrive, non è un impegno del governato di obbedire al governante (come nel Leviatano di Hobbes), ma un accordo tra gli individui per subordinare i loro diritti e i loro poteri alle esigenze e al giudizio non di un governante o di un gruppo, ma della volontà generale, la quale è dotata di potere sovrano. Così inizia la teoria dello Stato di Rousseau.

Il “patto sociale” può ridursi in questi termini: “ciascuno di noi mette in comune la sua persona e ogni suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale; e noi tutti in corpo consideriamo ogni singolo membro come parte indivisibile del tutto. Subito, al posto di ogni contraente quest’atto di associazione crea un corpo morale e collettivo composto di tanti membri quanti sono i voti dell’assemblea popolare che riceve da quest’atto stesso la sua unità, il suo io comune (le moi social), la sua vita, la sua volontà…Perché il patto sociale non sia formula vana, esso deve racchiudere tacitamente quest’obbligo: che chiunque ricuserà di obbedire alla volontà generale, vi sarà costretto da tutto il corpo collettivo. …Quel che l’uomo perde col contratto sociale è la sua libertà naturale..quel che guadagna è la libertà civile (Libro I).

“Come la natura dà ad ogni uomo un potere assoluto su tutte le sue membra così il patto sociale dà al corpo politico un potere assoluto su tutti i suoi membri e questo stesso potere, guidato da una volontà generale prende il nome di sovranità… Cos’è un atto di sovranità? Non è una convenzione tra superiore e inferiore, ma una convenzione tra il corpo e ciascuno dei suoi membri, convenzione legittima, perché ha per base il contratto sociale.. finché i sudditi sono sottomessi a queste convenzioni, non obbediscono ad alcuno ma soltanto alla loro volontà” (Libro II).

Al concetto di volontà generale Rousseau arriva per via algebrica. La volontà generale non è la volontà della maggioranza. Ma non è neppure quella di tutti. Infatti “spesso vi è molta differenza tra la volontà di tutti e la volontà generale; quest’ultima mira solo all’interesse comune; l’altra all’interesse privato e non è che una somma di interessi particolari: ma togliete da queste stesse volontà il più e il meno che tra loro si annullano e resta per somma delle differenze la volontà generale” (Libro II).

E cos’è la legge? E’ l’espressione della volontà generale. “Col patto sociale si dà esistenza al corpo politico, la legislazione dà il movimento e la volontà. Il legislatore è un uomo straordinario che” deve sentirsi capace di mutare, per così dire la natura umana, di trasformare ogni individuo, in parte di un tutto più grande, da cui riceva in qualche modo la vita e l’essere. Bisogna, in una parola ch’egli tolga all’uomo le forze che gli sono proprie, per dargliene altre di estranee e delle quali non possa far uso senza l’altrui aiuto…” (Libro II).

Infine: “In una legislazione perfetta la volontà particolare deve essere nulla. Se un individuo non è d’accordo con questa volontà quale si esprime nella legge lo stato può costringerlo a sottomettersi (Libro III).

Così Jean-Jacques, che un tempo aveva parlato da anarchico, ora nel Contratto è tutto per la santità della legge e per lo Stato. La volontà generale però non è la democrazia, che Rousseau rifiuta. “Una vera democrazia non è mai esistita e non esisterà mai. È il contrario all’ordine naturale che la maggioranza governi e la minoranza sia governata” (Ibid.). Tuttavia uno degli scopi del contratto sociale è che gli uomini “pur potendo essere diversi per forza ed ingegno, divengano tutti eguali per convenienza e di diritto” (Libro III).

Come l’autore dell’Emilio, l’apostolo romantico del sentimento, l’individualista ribelle e l’esaltatore della libertà degli istinti abbia potuto scrivere un’opera che suggeriva come mettere le catene all’uomo piuttosto che toglierle, rimane un mistero. Forse l’inclinazione al paradosso e alla provocazione lo spinsero a dire ciò che intimamente non sentiva. Forse con l’idea dell’io sociale voleva cercare di umanizzare la teoria dell’obbligazione hobbesiana. Non era alla macchina statale e mostruosa di Hobbes a cui gli uomini si sottomettevano, ma alla loro stessa volontà. Attraverso la volontà generale i cittadini non cedevano la sovranità a nessuno: erano essi stessi a crearla. O forse la sua era la risposta polemica a quei philosophes che esaltavano il dispotismo illuminato di un Federico II e di una Caterina II come strumenti di riforme e progresso civile.



L’eredità politica di Rousseau

La teoria della volontà generale era ingegnosa, ma micidiale. Liquidava il parlamentarismo di Montesquieu, in cui vedeva un potere tirannico mascherato da potere di rappresentanza del popolo. “Il popolo inglese crede di essere libero, ma si sbaglia di grosso; lo è soltanto durante l’elezione dei membri del Parlamento; appena questi sono eletti, esso diventa schiavo. Nei brevi momenti della sua libertà, l’uso che ne fa merita di fargliela perdere” (Il Contratto, Libro III).

In un mondo in cui, come aveva dichiarato l’abate Sieyès, il terzo stato era ormai tutta la nazione, l’idea della volontà generale ebbe un’accoglienza estatica. Tutti cominciarono a predicare la sovranità popolare e la dottrina della volontà generale offrì materiale prezioso per la lotta alla ricchezza e alla proprietà, dando impulso alle agitazioni di massa.

A cogliere le potenzialità della dottrina dell’io sociale fu, nel secolo successivo, il filosofo tedesco Hegel, che se ne avvalse per elaborare la teoria dello stato organico, concepito come un essere vivente dotato di una sua personalità al di sopra dei singoli, ma fornito come questi ultimi di coscienza, ragione, volontà.

L’idea lanciata da Rousseau si è rivelata la più assolutistica mai enunciata nella storia. Da Hegel si sarebbe arrivati a Marx e da questo a Lenin, Hitler e Mao, che furono figli di Marx. Ma tutti discesero da Rousseau. Tutti si servirono delle sue citazioni per i loro fini. Il termine “patto sociale” è entrato a vele spiegate nel linguaggio politico, una finzione per far credere che si possa essere governanti e governati al tempo stesso.

Rousseau fu la voce più rivoluzionaria del secolo XVIII. Robespierre lo ammirò e Voltaire bollò le sue opere come abominevoli. I riformisti ascoltarono Voltaire, ma i rivoluzionari seguirono Rousseau.
 Invecchiando, Jean-Jacques ignorò i principi che aveva sostenuto e, quando gli chiesero di redigere le costituzioni per la Polonia e la Corsica, si guardò bene dall’applicarli. Ma ormai la sua dottrina si era diffusa, scatenando la tempesta. Quando Robespierre spedì migliaia di persone alla ghigliottina lo fece nella convinzione di seguire alla lettera il consiglio di Rousseau.

La prima edizione del Contratto recava nel frontespizio l’immagine di un uomo decapitato come metafora della fine del Leviatano. Ma si trattava di un macabro equivoco. Era invece un monito rivolto alle volontà particolari nel caso si fossero rivoltate contro la volontà generale.

Rousseau morì nel 1778, alla vigilia della Rivoluzione. Se fosse vissuto più a lungo, forse, anche lui avrebbe fatto la fine dell’uomo del frontespizio.

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4 Responses

  1. Carlo Ghiringhelli

    La lettura dell’interessante articolo del prof. Coco impone qualche riflessione critica.
    I) Rousseau è l’ispiratore della così detta rivoluzione copernicana nella pedagogia affermando la centralità dell’educando, ma non ha potuto sviluppare in forma scientifica la questione del metodo, limitandosi a raccomandare una educazione in diretto contatto con la natura -si pensi al Montaigne-. Le ragioni di tale situazione sono spiegate dal Nostro con questa frase:’L’ètude des hommes qui est ancore a commincer’. Infatti troppa astrazione, troppi valori soggettivi, poca scientificità nelle questioni che riguardano l’uomo; in altra sede ho cercato di mostrare come sia accaduto alla luce del ‘caso Galileo’. Bisognerà aspettare il XX secolo per imboccare una nuova strada rappresentata dalla logonica di S.Ceccato.
    II)Se ci dà -come diede in passato- gioia ben venga il pensiero del ‘bon savage’ purchè sappiamo che esso si chiama mito, corrisponde al mito. Come nasce questo meccanismo del pensiero? In chiave operativa sono stati trovati alcuni passaggi.
    Per prima cosa dobbiamo dimenticare tutto il resto, polarizzarci solo sull’oggetto -lo stato di natura, ad esempio- del quale in questo momento abbiamo bisogno.
    Poi viene l’ingenuità propria del mito, di espandere il valore attribuito alla cosa attesa a tutte le altre. Una legge di espansione dei valori: lo stato di natura è così buono, chissà come sarà anche libero, bello, intelligente… Terza mossa, bisogna dimenticare che ogni sogno realizzato solleva di solito altre difficoltà.
    Exempli causa: Rousseau non spiega come si passa dall’uomo pre-sociale, naturalmente buono e libero all’uomo sociale in quanto nella sua opera resta in ombra l’operare mentale attraverso il quale l’uomo si fa sociale.
    III)Il problema di Rousseau è: come è possibile costruire una società in cui gli uomini restino liberi così come sono entrati. La soluzione proposta sta nel contratto sociale fondato su un concetto limite, la volontà generale, che ha un significato essenzialmente metodologico. Saranno i giacobini a intenderlo come l’onnipotenza del legislatore! Infine si noti l’importanza dell’affettività -amor proprio- nella teoria rousseana: per il Nostro essa è la spiritualità creativa, mentre per Hobbese ssa va incanalata dalla ragione che fonda lo stato.
    IV) Hegel critica il modello contrattualistico dello Stato perchè è un insulto all’assoluta autorità e maestà dello stato in quanto non sono gli individui a fondare lo stato, che viene in realtà prima della società, ancorchè in apparenza la società è prima dello stato. Srive Hegel: ‘L’essenza dello stato è l’universale in sè e per sè, la razionalità del volere. Ma come tale è consapevole di sè e si attua, ma è senz’altro soggettività, e come realtà è un indiiduo’.

  2. Carlo Ghiringhelli

    Errata-còrrige.”ancorchè in apparenza la società è prima dello stato’ diventa:’ancorchè in apparenza la società sia prima dello stato.
    Se sbagliare significa non correggersi… Grazie. Carlo Ghiringhelli

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