9
Gen
2017

Il caso Apple-Irlanda tra politica e diritto

Con il deposito dei ricorsi contro la decisione della Direzione Generale per la Concorrenza sugli aiuti (fiscali) di stato, il triangolo Commissione-Apple-Irlanda è entrato nel vivo. Nonostante le evidenti incongruenze in essa contenute, solo poche voci isolate avevano manifestato perplessità – al momento dell’annuncio – sulla ricostruzione promossa dal commissario Vestager. Da un lato, l’accoglienza largamente entusiastica riservata al provvedimento rivelava la temperatura ideologica del dibattito europeo sul diritto tributario internazionale; dall’altro, però, l’entusiasmo prevalente si poteva spiegare con la scarsità delle informazioni disponibili sulle pratiche al centro del caso, scarsità che rafforzava ipso facto la credibilità degli addebiti. Le argomentazioni presentate dai ricorrenti – e in special modo dal governo di Dublino – permettono di cominciare a superare quest’asimmetria, prospettando un diverso inquadramento degli accordi contestati.

In primo luogo, l’esecutivo irlandese respinge l’opinione che gli accordi intervenuti tra l’amministrazione finanziaria e Apple abbiano conferito all’azienda californiana un vantaggio selettivo, requisito cruciale per l’identificazione di un aiuto di stato. Più nello specifico, i ruling del 1991 e del 2007 si sono limitati a ribadire quanto previsto dalla disciplina ordinaria per le filiali irlandesi di aziende non fiscalmente residenti, che limita la pretesa dello stato ai profitti effettivamente generati nel paese. Inoltre, i ricorrenti sostengono che la Commissione abbia frainteso il ruolo e la struttura di ASI e AOE, le due controllate del gruppo Apple che avrebbero beneficiato – secondo gli uffici di Bruxelles – del preteso regime preferenziale. Non solo appare del tutto fuorviante l’affermazione secondo la quale i due soggetti sarebbero poco più che scatole vuote, una constatazione basata su una lettura formalistica e inaccoglibile del rapporto di lavoro, ma soprattutto appare evidente che le principali funzioni di ASI e AOE fossero esercitate dagli Stati Uniti, dove veniva prodotta anche la proprietà intellettuale che ne costituiva la principale fonte di ricchezza. Il che porta alla principale aporia presente nell’analisi della Commissione: le imposte eventualmente non versate in Irlanda, sarebbero in ogni caso di competenza statunitense, e non certo riferibili agli altri mercati europei in cui Apple opera – si tratta, a ben vedere, di una forma di differimento della tassazione, un punto ottimamente argomentato da Stefano Morri e Stefano Guarino in un recente contributo per il Bollettino Tributario.

A queste lagnanze sostanziali, l’Irlanda affianca una serie di obiezioni formali, peraltro di notevole rilevanza sul piano della tenuta dell’edificio comunitario, dato che invocano temi come la certezza del diritto, la sovranità fiscale, la suddivisione delle competenze tra i paesi membri e l’Unione. Dopo una prima fase in cui al caso Apple-Irlanda è stata data una lettura tutta politica – lettura incoraggiata dalle misure draconiane della Commissione, se è vero che i 13 miliardi contabilizzati rappresentano di gran lunga la maggior somma mai recuperata in una procedura per aiuti di stato – è auspicabile che i nuovi argomenti proposti dai ricorrenti permettano di traslare la partita sul piano del diritto, quel congegno misterioso a cui alcuni nostalgici si ostinano a riconoscere ancora la primazia sui volubili umori della classe dirigente.

@masstrovato

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