1
Giu
2017

Se Trump recede da COP21: non è l’apocalisse temuta, ma politicamente per l’Europa è un’occasione

Si attende ormai entro poche ore la decisione finale di Trump sulla COP21. Il presidente USA potrebbe decidere il ritiro unilaterale degli Stati Uniti dall’intesa sul contenimento delle emissioni firmata da 195 paesi a Parigi, nel dicembre di 2 anni fa. Non è una sorpresa, anzi è il bis di ciò che Bush figlio fece rispetto al protocollo di Kyoto sottoscritto nel 1997 da Clinton. Trump in campagna elettorale ha più volte definito la COP21 come “una piattaforma guidata da Paesi ostili agli interessi dell’industria americana”. E già al G7 dell’energia coordinato dall’Italia, lo scorso 10 aprile, gli USA avevano impedito ogni riferimento nel documento finale al mantenimento degli obiettivi COP21. L’amministrazione USA è divisa. Mentre gli ideologi trumpiani, come Steve Bannon che sta tornano in auge, son sempre stati favorevoli al ritiro, il segretario di Stato Rex Tillerson (un petroliere, tra l’altro) e Ivanka Trump hanno tentato di frenare il neopresidente, per le ovvie conseguenze internazionali. Ma al contempo ha destinato scalpore che il generale James Mattis, segretario alla Difesa, qualche settimana fa alla Commissione Forze Armate del Senato non abbia esitato a definire gli obiettivi di COP21 “una potenziale seria minaccia agli interessi americani, per le conseguenze che essi esercitano in vaste e strategiche aree del mondo in cui operiamo, e che vanno assunte come una sfida seria da valutare complessivamente per la nostra strategia”, chiaramente riferendosi a Medio Oriente e Africa subsahariana. Come Mattis e anzi ancor più duramente contro COP21 la pensa il neo capo dell’EPA, l’agenzia federale americana sull’ambiente, cioè l’ex attorney general dell’Oklahoma Scott Pruitt che da magistrato ne impugnò sistematicamente le decisioni sotto la presidenza Obama

La partita è dunque politica. Trump ha bisogno di distogliere l’agenda americana dagli sviluppi del Russiagate. Di apparire coerente agli impegni elettorali. Di smontare la cornice di grandi accordi multilaterali di cui anche COP21 fa parte, come quelli sul commercio. Di abbattere un simbolo delle politiche di Obama, visto che COP21 nacque e fu un successo grazie all’impegno speso da Obama dopo il fallimento della Conferenza di Copenaghen del 2009. E di esercitare un ruolo diretto anche sugli obiettivi ambientali che seguirà la Cina, visto che i due Paesi sono i maggiori inquinatori al mondo. Una cosa è certa: l’intera struttura delle commissioni speciali che prevedevano l’operato congiunto dei ministeri e delle agenzie federali americane per attuare la COP21, creati da Obama, dall’elezione di Trump è stata subito del tutto congelata.

Premessa personale, per quello che vale. Nel seguito mi limiterò a un’analisi da osservatore. Metterò cioè deliberatamente da parte le mie convinzioni, poiché sono un “ambientalista scettico”, per usare l’arcinota definizione che di sé diede nel 2001 in un famoso libro Bjørn Lomborg, secondo il quale moltissime delle assunzioni sul contributo umano agli andamenti climatici sono forzate e scientificamente non comprovate. E in più dall’altra parte penso che l’accelerazione europea abbia comportato, per gli oneri di sistema a carico dei consumatori degli incentivi da rinnovabili, un aumento troppo considerevole del prezzo del kilowattora residenziale che ci spiazza nei confronti internazionali; che le imprese americane hanno comunque accelerato molto sul fronte del contenimento delle emissioni, anche se Kyoto era stato disconosciuto e anche perché la competenza del più delle politiche ambientali in USA è statale e non federale; e che infine dall’altra parte gli obiettivi di Parigi per Cina e India sono larghissimamente volontari e non vincolanti: tutti fattori che ci dovrebbero indurre a un giudizio più equilibrato dell’eventuale marcia indietro americana (per una sintesi a mio umilissimo giudizio efficace, vedi qui).

Ma se la partita è politica, si può considerare il ritiro americano anche da un altro punto di vista. Cioè come una grande occasione per l’Europa, se seguendo l’impulso di Macron su questi temi decidesse essa di diventare il grande interlocutore di Cina e India. Nessuno può oggi prevedere come reagirebbero i due giganti asiatici al ritiro americano, visti i piani e costi enormi di contenimento delle emissioni e di decarbonificazione in teoria loro richiesti, ma che comunque moduleranno unilateralmente

Dipende anche da come avverrà il recesso statunitense. Secondo le norme COP21, ci si può ritirare solo dopo 3 anni a partire dal novembre 2016: in quel caso l’Europa avrebbe tutto il tempo per definire (sul tema ha anch’essa i suoi problemini, soprattutto con i membri est-europei) e varare un’iniziativa vera, da offrire a Cina e India per continuare insieme anche oltre l’orizzonte del 2030 stabilito nel 2015. Se al contrario Trump agisce per le vie brevi, facendo bocciare COP21 dal Senato che non l’ha mai ratificato, allora per l’Europa sarebbe necessario uno scatto di reni immediato. Sarebbe però un’ottima cosa: perché trascinerebbe con sé grandi accordi di cooperazione tecnologica e commerciale, energetica e anche di sicurezza comune.

Al di là della grande occasione internazionale, per l’Europa e per l’Italia si può ragionevolmente dire che allo stato attuale il ritiro americano non dovrebbe invece cambiare nulla. Gli obiettivi europei infatti sono stati solidamente incardinati in una direttiva che ci vincola alla riduzione entro il 2030 almeno del 40% delle emissioni di gas a effetto serra rispetto ai livelli del 1990, a una quota almeno del 27% di energia rinnovabile, a un miglioramento almeno del 27% dell’efficienza energetica.

E a questi obiettivi è coerente la Strategia Energetica Nazionale che il governo ha in via di elaborazione, e che il ministro Carlo Calenda ha illustrato in Senato lo scorso 10 maggio dopo un’ampia consultazione con istituti di ricerca e associazioni di categoria, e che dovrebbe essere pubblicata entro fine giugno. Nella scansione degli obiettivi intanto conseguiti, siamo abbastanza avanti. Procediamo dal 2014 con un ritmo annuo di risparmi energetici ottenuti da politiche attive intorno all’1,4%, rispetto all’obiettivo dell’1,5%. Abbiamo realizzato una diminuzione delle emissioni del 17% di gas serra per i settori non energivori rispetto ai livelli del 2005, più  dell 13% che dovevamo conseguire al 2020, e con un buon passo verso il 33% che è obiettivo per il 2030. Siamo già oggi a una penetrazione pari al 17% di energie rinnovabili sui consumi energetici lordi, rispetto al 17% da conseguire in teoria al 2020, e al 27% che è obiettivo 2030.

Dall’altra parte abbiamo però tre montagne da scalare. L’efficienza termica, energetica e ambientale del nostro vetusto patrimonio immobiliare residenziale richiede incentivi più cospicui e strutturali di quelli attuali, per proprietari e venditori. E’ oggi troppo lento il tasso di sostituzione degli autoveicoli circolanti di classe da Euro0 a Euro3, che sono ben il 45% dei 37 milioni complessivi oggi in Italia. Infine, uno scenario di totale uscita da 8GW attuali di capacità di produzione elettrica a carbone al 2030 implicherebbe 23-24 miliardi di investimenti, rispetto ai 17-19 miliardi se ci limitassimo ad eliminarne 2GW. Non voglio fare l’antiambientalista, ma le tre voci implicano costi nell’ordine di 4-5 punti di PIL, che come contribuente mi preoccupano non poco sia pour in un orizzonte di 12 anni.

L’attuale scenario delude i movimenti ambientalisti anche italiani, che verrebbero passare da un impegno  a contenere l’aumento della temperatura entro i 2 gradi ad uno più vincolante, di 1 grado e mezzo. Il che significherebbe innalzare dal 40% al 50-55% la riduzione di gas serra al 2030, rispetto ai livelli del 1990, con investimenti e incentivi nell’ordine di ulteriori decine di miliardi in più. E’ un’idea non troppo utile negli effetti complessivi e molto onerosa se adottata unilateralmente. Ma è al contempo invece una piattaforma interessante, se l’Europa assumesse la decisione di rilanciarla a Cina e India per un grande negoziato comune, basato su strumenti di cooperazione e sostegno, per fare della sostenibilità ambientale in quei giganti mondiali una grande sfida comune tra Europa e Asia.

Sarebbe la maniera più intelligente per rispondere a un’America che non crede affatto all’esistenza di un’Europa capace di farsi protagonista internazionale. ma sarebbe una scommessa interessante dal punto di vista geopolitico, se non vogliamo rassegnarci al ruolo di vasi di coccio tra vasi di ferro.

 

 

You may also like

Punto e a capo n. 50
Punto e a capo n. 24
Il green deal europeo non è politica ambientale ma (dannosa) politica economica (soprattutto in agricoltura)
Aiuti di stato Alitalia, meglio tardi che mai?

Leave a Reply