20
Ago
2009

Private equity. I pregiudizi di Mucchetti

Riceviamo e pubblichiamo da Galeazzo Scarampi, membro del Board of Trustees dell’Istituto Bruno Leoni.

Ma come si fa a ragionare partendo dall’ assunto che qualcuno possa o debba decidere se: “in generale lavorare così fa bene al sistema o contribuisce a metterlo a rischio?”.
Il dibattito sulla creazione di valore rispetto al rischio da parte del private equity e su quali siano i drivers di tale creazione (quanto conti la deducibilità degli interessi, o la leva finanziaria. o l’ aumento di performance relativa al settore, o la differenza fra i prezzi di acquisto e di vendita, o gli incentivi al management) e’ ampio ma evidentemente Massimo Mucchetti, autore sul tema di un recente articolo sul Corriere della sera, non ha avuto tempo di esaminarlo.


Si possono qui citare due riferimenti per tutti, che riassumono bene il dibattito:
a) Michael C. Jensen,, “The Economic Case for Private Equity (and Some Concerns)”, Harvard NOM Working Paper No. 07-02, Swedish Institute for Financial Research Conference on The Economics of the Private Equity Market.
b) Steven N. Kaplan & Per Johan Strömberg, “Leveraged Buyouts and Private Equity”, 2008.
Cito dalle conclusioni di Michael Jensen:

I present in these slides my belief, first argued in my 1989 Harvard Business Review paper entitled The Eclipse of the Public Corporation that Private Equity is best thought of as a new and powerful model of General Management. I also summarize some important characteristics of Private Equity that contribute to value creation, how Private Equity generally implements Strategic Value Accountability (what I have labelled the missing concept in corporate governance) much better than the public corporation, and how Private Equity avoids much of the out-of-integrity gaming and lying that dominates the relations between public firms and capital markets. I close by summarizing some growing problematical trends and practices that threaten the success of this new business model and the future of the Private Equity industry (in particular the threat posed by the proliferation of non-equity based fees charged by Private Equity firms, and the going public of the core management private equity company such as that by Fortress and Blackstone and the raising of permanent public capital to substitute for the non-permanent limited partnership capital such as that by KKR in Europe).

Le conclusioni a cui pare giungere la ampia letteratura disponibile sono molto diverse da quelle a cui pare arrivare Mucchetti, ed in particolare:
·        la distribuzione dei risultati delle operazioni di private equity è molto allargata, ed i fondi nel miglior quartile di performance hanno un rendimento risk adjusted molto superiore alla media, e così quelli nell’ultimo quartile sono molto peggiori della media. Dunque la scelta del gestore è cruciale e non si può fare di ogni erba un fascio.
·        I rendimenti sono fortemente caratterizzati da “vintage” o “annate”: quando la raccolta è abbondante, i rendimenti scendono, e quando la raccolta di capitali è difficile, i rendimenti successivamente salgono. Paradossalmente è molto meno rischioso e probabilmente più redditizio investire in private equity nel 2009 di quanto non lo fosse nel 2007. Eppure nel 2007 era facile raccogliere capitali, ed attualmente è assai arduo….
·        Il ‘danno economico’ risultante dai fallimenti di operazioni di private equity (che è un fatto inevitabile) è piuttosto limitato (Kaplan e Stromberg lo quantificano nel 20% del valore aziendale); ciò proprio per l’ uso della leva finanziaria; nei fallimenti (vedi anche i casi recenti) viene penalizzata l’ equity, mentre le perdite delle banche sono minime, ed i nodi vengono al pettine abbastanza rapidamente. La distruzione di valore effettuata negli anni da public companies è molto superiore: le perdite subite nell’ ultimo decennio dagli azionisti di General Motors o degli ex monopolisti Telco Europei sono pari a tutta l’equity investita in buyouts negli stessi anni… Come è ben noto, la distruzione di valore verificatasi nel settore bancario ed assicurativo negli Stati Uniti non è per nulla riconducibile al private equity, bensì alle cartolarizzazioni immobiliari e del credito al consumo, nonché all’ uso delle “credit derivatives”, a cui il private equity è essenzialmente estraneo.
Perché allora tanta preoccupazione verso i buyouts? La chiave, ritengo, va cercata nella tesi di Jensen, secondo cui i buyouts sono un modello di governance alternativo alla public company, che è afflitta da un grave problema di agenzia. L’ ecosistema della borsa vede malvolentieri sottrarsi capitali e potere….
In effetti le migliori operazioni di buyout nascono spesso acquistando divisioni di public companies che sono gestite in modo sub-ottimale. In Italia non vi è stata solo Prysmian, ma anche Fiat Lubrificanti. In realtà nel nostro paese, come è noto, le grandi public companies non sono molte: in altri paesi, dove queste sono prevalenti si trovano molte operazioni di successo di questo tipo: si pensi a Detroit Diesel (da GM), Hertz (da Ford), Dometic (da Electrolux), MTU/Tognum (da Daimler), Memorex o Seagate, per citare alcuni casi fra i molti.
Certamente investire in private equity non è per tutti, e come mostrano Kaplan e Stromberg, solo alcuni investitori istituzionali hanno avuto dei risultati stabilmente positivi nel medio periodo (vedi ad esempio Yale Endowment), mentre i piccoli investitori privati hanno raccolto le briciole o le perdite. Antonio Foglia e’ fra quanti autorevolmente ritengono che il PE non crei valore per gli investitori privati.
Purtroppo la componente di invidia (relativa alle fees) e’ sempre presente. Almeno per i fondi italiani (SGR) l’ appunto in merito alla fiscalità è fuori bersaglio: le commissioni di performance incassate dalle SGR Italiane sono soggette a normale aliquota di imposta.

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