18
Giu
2009

Non è il protezionismo che ci salverà dalla crisi economica

Riceviamo da Lorenzo Guggiari e volentieri pubblichiamo:

In questo periodo in cui i governi stanno approfittando della crisi globale per tornare a politiche protezioniste e neo-keynesiane una boccata d’ossigeno arriva dal Brasile. Per quanto possa sembrare strano la resistenza ad un provvedimento di chiaro stampo dirigista è arrivato proprio da quel ceto produttivo che nel resto del mondo continua a chiedere protezionismo e assistenzialismo.
Nonostante i fatti risalgano alla fine di gennaio vale la pena illustrare quanto è accaduto. Il governo brasiliano – preoccupato dal deficit della bilancia commerciale dopo otto anni di attivo – ha deciso di ampliare la licenza preventiva di importazione, estendendola a 17 settori che rappresentano circa il 60%-70% delle importazioni. Praticamente si tratta di una barriera informale alle importazioni dove viene valutata ogni singola richiesta prima di permettere l’entrata della merce nel paese. Da sempre Il Brasile applica questa licenza per alcuni prodotti ritenuti pericolosi o soggetti a misure di difesa contro il dumping commerciale e che rappresentano circa il 10% delle importazioni totali. Per il restante 90% gli importatori ottengono l’autorizzazione automaticamente attraverso internet.
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18
Giu
2009

Scuola, una piccola buona notizia?

Intervistata oggi dal Corriere, il ministro Gelmini commenta forse con toni eccessivamente trionfalistici (la scuola fa schifo, abbiamo ragione a volerla cambiare) una sonora stroncatura della scuola italiana da parte dell’Ocse, oggetto di discussione in un incontro col Ministro organizzato dalla associazione Treellle. Però annuncia anche una piccola novità. Il ritorno del buono-scuola nelle proposte sull’istruzione del centrodestra. Dice Gelmini:

«Stiamo pensando anche ad al­tre riforme che non c’entrano con l’Ocse. Come il sostegno economi­co per le scuole paritarie».
Vuole dire le scuole private? Co­sa vuole fare?
«
Io le chiamo paritarie, o anche non statali. E, Costituzione alla ma­no, voglio che tutti abbiano il dirit­to di scegliere se andare alla scuola pubblica o alla scuola paritaria. Quindi, siccome le scuole paritarie costano, sto pensando ad una rifor­ma che dia la possibilità di accede­re ad un bonus a chi vuole frequen­tarle. Un po’ come già succede in Lombardia».
Ma questi sono costi aggiunti­vi?
«La libertà di scelta è un diritto costituzionale. E sono tante le rifor­me che si possono fare risparmian­do soldi e facendo funzionare la scuola. I dati Ocse, ad esempio quelli che riguardano la Finlandia, lo dimostrano».
Cosa dimostrano?
«Che non è vero che bisogna puntare sulla quantità, bensì sulla qualità. Intendo: quantità di soldi, di ore di insegnamento. Non è questo che qualifica la scuola, necessariamen­te. Veramente basta sfoglia­re il rapporto per capirlo. E sono felice che finalmente il governo e l’Ocse abbiano un’identità di vedute su questo punto, sono certa che faciliterà il dibattito».

Il buono-scuola è stato uno dei cavalli di battaglia di Forza Italia, e per inciso lo è ancora di Valentina Aprea, che in FI è andato pian piano a monopolizzare il dibattito sui temi dell’istruzione. Negli anni Novanta, sul voucher si sperimentò un allineamento centrodestra-Chiesa cattolica molto più virtuoso di quello di oggi, auspice il cardinal Ruini. Per il voucher, si giunse a mobilitazione di piazza, e Nando Adornato, all’epoca del Liberal settimanale, s’inventò addirittura un movimento per la scuola libera. Come si evince dai pochi protagonisti sin qui richiamati, e senza offesa per nessuno di loro, non fu una battaglia fortunatissima. Anche perché le scuole private, al momento della scelta fra pochi quattrini, maledetti subito e sottobanco, e la lotta trasparente per il voucher di marca friedmaniana, costosa in termini politici, presero i quattrini. Primum vivere, il “buono” è stato rimandato al ritorno di Berlusconi a Palazzo Chigi, e poi come sempre chi s’è visto s’è visto. La stessa intervista di Gelmini non è il massimo della chiarezza: pensa a un voucher per tutti, o a una misura solo per le fasce più deboli (come in Lombardia)? E perché parlare di sostegno alle scuole paritarie, e non subito di buono e libertà di scelta? E, ancora,  perché non pensare ad un sistema equivalente ma forse più semplice del voucher, cioè a un credito d’imposta per chi sceglie il privato? Vivremo e vedremo. Il ministro Gelmini sembra avere più coraggio della media dei suoi colleghi. Magari la libertà d’educazione si è finalmente trovata un cavallo buono.

17
Giu
2009

Obama e la Fed

La “grande riforma” della finanza americana presentata da Obama è arrivata, e ci sarà tutto il tempo di discuterne, letto attentamente il documento della “Financial Regulatory Reform” e presi atto di tutti i commenti che da domani, com’è inevitabile, intaseranno i giornali e i blog del pianeta.  Un primo punto solo apparentemente marginale è quello sollevato da un amico analista finanziario, Cole Kendall, nella sua newsletter (il sito è Understanding the Market, l’ultima newsletter non è ancora on line). Per Kendall, la riforma di Obama accende una “Federal Reserve time bomb”. Oberando la FED di nuove responsabilità regolatorie, ne metterebbe a rischio l’indipendenza:

Recent congressional hearings examining the nature of the communications between Chairman Bernanke and the head of Bank of America (over the Merrill Lynch purchase) has highlighted the perils of increased regulatory authority. Chm. Bernanke (or his successor) would be a regular visitor to Congress to explain not only his monetary policy but also his regulatory decision making. While Chm. Bernanke might be capable of surviving such hearings on a regular basis, not every future Fed chairman will be able to survive in such conditions and eventually Congress will decide to reorganize the Fed.

Anche per noi che siamo cresciuti alla scuola per cui l’indipendenza delle autorità indipendenti di ogni risma è essenzialmente una “formula politica”, la questione in realtà è importante. Perché se una autorità è improbabile che sia “assolutamente indipendente”, può certo diventare “ancora più dipendente” dalla politica. E perché la concentrazione di nuove competenze può non solo rendere ancora più arbitraria la regolazione, ma anche caricare sulle spalle dei regolatori troppe promesse, difficili da mantenere. Limitiamoci ancora a considerazioni di ordine generale – domani entreremo nel dettaglio, seguendo la guida esperta del nostro direttore. Sul sito di Astrid, trovate un bellissimo intervento del Commissario Consob Luca Enriques, dello scorso anno. Riporto le conclusioni, che ogni ri-regolatore dovrebbe leggersi e rileggersi come preghierina della sera:

A mio avviso, è importante che coloro che saranno chiamati alla revisione delle regole tengano ben presenti i rischi cui si va incontro in questi casi. Vorrei segnalare cinque errori da evitare. Sono altrettante ovvietà, ma di questi tempi non guasta ripeterle.
1. Anzitutto, non si deve scordare che le leggi generano costi e non solo benefici, distorcono i comportamenti e tendono ad avere conseguenze inaspettate; e che la tentazione di eluderle è insopprimibile. E la migliore dimostrazione di ciò è proprio nella crisi finanziaria in corso, frutto delle cattive regole e delle cattive politiche non meno che dell’assenza di regole e dei fallimenti del mercato(…) A fronte di queste insidie, bisogna guardarsi dalla fretta nell’accettare soluzioni che sembrano di buon senso, magari perché semplici e facili da spiegare, ma che poi possono rivelarsi dannose e controproducenti. Da questo punto di vista, la lezione del Sarbanes Oxley Act è sufficientemente istruttiva. E soprattutto, è da evitare la trappola tautologica per cui se il fenomeno X non è regolato, allora è necessario regolarlo.
2. Nel rivedere le regole esistenti, è bene guardarsi anche dalla tentazione di concludere che certi meccanismi di controllo, magari da noi non ancora pienamente accettati, non servano perché non sono stati in grado di prevenire la crisi. (…)
3. Analogamente, sarebbe un errore pensare che certi strumenti siano da sopprimere perché hanno concorso a creare i presupposti della crisi. E’ chiaro che le stock option hanno spostato le preferenze degli amministratori di banche verso l’assunzione di rischi eccessivi. Ma vietare o disincentivare le stock option per questa ragione sarebbe come vietare i cellulari perché possono agevolare le attività dei terroristi e dei criminali.
4. Nuovi poteri ed eventualmente anche una nuova governance per le autorità di vigilanza non saranno sufficienti a prevenire la prossima crisi. Ciò non vuol dire che le autorità di vigilanza non debbano essere rafforzate e meglio disciplinate. Significa invece guardarsi dall’errore di ingenerare aspettative troppo elevate nella politica e nell’opinione pubblica sui risultati che le autorità di vigilanza possono effettivamente conseguire.
5. Da ultimo, ri-regolare non significa solo aggiungere regole a quelle che già ci sono e modificarne alcune. Vuol dire anche togliere di mezzo le regole rivelatesi, magari anche a seguito della crisi, inefficaci o inefficienti.

17
Giu
2009

Fanno le buche e neppure le riempiono

Tutte le volte che qualcuno parla delle opere pubbliche come panacea contro la crisi – questa o qualunque altra crisi futura – fategli leggere questa inchiesta di Enrico Mannucci per Magazine. Nulla di stupefacente, per carità, ma a volte fa bene ed è utile leggere nero su bianco, e guardare fotografato a colori e stampato su carta patinata, dove portano e a cosa servono gli investimenti pubblici. La risposta più vera e più banale è: gli investimenti pubblici servono a, e ottengono l’unico effetto di, foraggiare le consorterie che di volta in volta sono gli interlocutori primari del potente di turno. Altro che moltiplicatore keynesiano: qui il moltiplicatore non può che essere negativo, perché questo genere di opere, costituzionalmente destinate a fallire, non possono avere alcun ruolo di volano di sviluppo, non sbottigliano alcuna congestione, non aprono alcuna strada a merci in attesa di sfogo. Queste opere sono semplicemente e unicamente il risultato dell’operazione aritmetica per cui A sottrae risorse dalle tasche di B per investirle in C, un investimento che necessariamente è improduttivo perché altrimenti non avrebbe bisogno di essere indotto in questa maniera. Per uscire dalla crisi, e per depotenziare crisi future, non bisogna inoculare al paese lo stesso virus che lo ammorba da troppi decenni: bisogna rimuovere i vincoli, restituire libertà economica e disintermediare i rapporti economici.

16
Giu
2009

Iran: recessione batte democrazia

Da giorni, tutti i media impazzano con analisi giustamente sempre più spaccacapelli della lotta tra fazioni interne alla teocrazia iraniana. Non capisco perché sia invece totalmente sottovalutata la spinta puramente economica. E’ l’amaro morso della recessione in un paese piegato da scelte politiche sbagliate, a spingere la gente in piazza: temo assai più di ogni sogno di democrazia all’occidentale. Le cifre ufficiali della banca centrale dell’Iran attestano oggi una disoccupazione oltre il 17% e un’inflazione oltre il 25%: esse sono sicuramente false, approssimate per difetto solo Dio – Allah, pardon – di quanto. Quanto al peso che le diminuite royalties petrolifere, nonché l’arretratezza dell’intero apparato energetico nazionale esercitano, sulla crisi del paese e sulle sue pulsioni atomico-muscolari nell’area, trovate qui  un’analisi accurata.

16
Giu
2009

Lord Carter e la banda larga UK

Trovate qui l’equivalente britannico del rapporto Caio, la relazione predisposta da Lord Carter per l’estensione della banda larga nel Regno Unito. Gordon Brown ha tanti difetti, ma non sottovaluta come da noi in Italia l’effetto che un piano “vero” per la banda larga può esercitare sulla produttività del paese. Qui il suo editoriale sul Times di oggi, in cui dichiara che la banda larga è vitale come l’acqua e il gas. Da noi, il debito di TI e l’intreccio Mediaset-iptv, tra carriers e fornitori di contenuti, spaccia per piano di banda larga portare 2Mega a chi ancora non ce l’ha: con la banda larga c’entra come Giannino con Napoleone. Ma anche i britannici, in tempi di Gordon Brown, hanno i loro difetti. L’idea di finanziare il piano con una tassa speciale all’utenza, di 6 pounds per ogni linea telefonica fissa, è assolutamente sbagliata, almeno a mio giudizio e sono curioso di conoscere il vostro. La linea fissa dell’ex incumbent è da decenni pienamente ammortizzata, e non sono i suoi utenti a dover pagare aggiuntivamente per la banda larga: pagheranno già il giusto quanto sottoscriveranno i piani delle concrete offerte che sceglieranno per usarla. Al contrario, proprio perché la linea fissa è ammortizzata, l’accelerazione dello shift verso la fibra va finanziato non con tasse ma con politiche tariffarie adeguate. Cioè con tariffe adottate dal regolatore che, per esempio, sulla terminazione fisso-mobile non siano fatte ad uso e consumo dell’indebitato incumbent come da noi. E non escludendo Fastweb dall’asta delle residue frequenze UMTS un tempo aggiudicate da Ipse, come capita appunto da noi, per non turbare i gestori mobili già esistenti quando proprio quelle utenze potrebbero ottimizzare in alcuni punti l’offerta di servizio di chi ha la rete in fibra più estesa d’Europa.

16
Giu
2009

Gianfranco Fini nostro fratello?

Personalmente, ho sempre avuto grandi perplessità sulla reale consistenza di Gianfranco Fini come uomo politico. Considerato uomo di rottura con il passato recente del centro-destra per l’enfasi sui temi etici che pone da un po’ di tempo in qua nei suoi interventi, alla ricerca di uno spazio  autonomo, non ho mai capito se la sua fosse tattica o strategie. E, ad ogni buon conto, Fini non si era per nulla allontanato dallo statalismo che è purtroppo moneta corrente nel centro-destra, economia sociale di mercato e quelle robe lì. Fino ad oggi. Perché con il suo intervento introduttivo alla relazione annuale dell’Antitrust, Fini dice cose che sono lontane anni luce dal pensiero comune sulla crisi.

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16
Giu
2009

Boeri morde Marcegaglia e Sacconi

Da quando scrive su Repubblica, a Tito Boeri sono cresciuti i canini. L’economista della Bocconi era un commentatore molto più posato su La Stampa. Su Repubblica, i suoi toni sono ben sintonizzati sulla linea del giornale.
Secondo chi scrive, in parte è un bene, perché che Boeri e lavoce.info siano considerati “organicamente” parte della sinistra italiana, e come tali riconosciuti dal suo più importante  quotidiano, è di per sé un importante segnale di modernizzazione — della sinistra, s’intende. È pur vero che è più facile che sia Repubblica ad affilare le spade della logica economica contro il governo, se a Palazzo Chigi sta Berlusconi, com’era più probabile lo facesse il Giornale, quando c’era Prodi. All’opposizione, si pensa meglio.
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