26
Giu
2009

Idee democratiche

Debora Serracchiani, stella emergente del PD e neoeletta e Strasburgo, dediche una pagina del suo blog alle idee in materia di ambiente e territorio (oltre che di sicurezza e lavoro).
A prima vista, non sembrano particolarmente brillanti né innovative.
A proposito di territorio, Serracchiani scrive: “Sono necessarie le grandi infrastrutture e lo sviluppo delle reti di telecomunicazione per rendere il Nord Est cuore economico e culturale dell’Europa. Serve un sistema portuale efficiente nel Nord Adriatico per farne il crocevia di tutti gli scambi commerciali che partono dal sud del Mediterraneo”. Sostituite a “Nord-Est”, “Nord-ovest”, “Sud”, “Centro” e vedrete che l’idea di Serracchiani è la stessa di migliaia di altri esponenti politici, vecchi e nuovi, di sinistra e di destra, di ogni parte d’Italia e d’Europa. Se i loro auspici divenissero realtà, il nostro Paese ed il nostro Continente sarebbero destinati ad avere innumerevoli “cuori” e quindi nessuno.
Ancor più confuse sembrano essere le idee in materia di ambiente. Ripetuto l’abituale mantra del bravo progressista – “lo sviluppo deve essere sostenibile, non dobbiamo essere costretti a scegliere tra difesa dell’occupazione e delle condizioni ambientali”, “serve lo sviluppo delle energie rinnovabili” –  la ex figiciotta auspica che vengano adottati “provvedimenti più incisivi per la tutela del clima, fondamentale per la salute e la qualità dell’aria”. Forse qualcuno dovrebbe spiegarle che clima e qualità dell’aria sono due problemi diversi e sostanzialmente indipendenti l’uno dall’altro. Che le emissioni di inquinanti atmosferici sono in calo da decenni e la qualità dell’aria nelle nostre città è radicalmente migliorata mentre aumentano le emissioni di gas serra, poco nel mondo sviluppato, molto nei Paesi a forti tassi di crescita. E che la salute, la qualità e l’aspettativa di vita sono più strettamente correlate al reddito che non al clima. Che un kwh prodotto con le energie rinnovabili costa di più dello stesso kwh da fonti fossili e che vi è dunque un trade-off tra crescita della ricchezza e riduzione delle emissioni (sarebbe interessante sapere “quanto” più incisivi dovrebbero essere i provvedimenti). Tutte cose ovvie per chiunque abbia un minimo approfondito il problema. Ma, evidentemente, non è così per la giovane speranza del PD. Ossido di carbonio (CO) e anidride carbonica (CO2) pari sono.

26
Giu
2009

E se fosse la neutralità della rete la killer application?

Alfonso Fuggetta s’interroga sulla killer application per le NGN, quell’applicazione che – come l’SMS ha fatto per la telefonia mobile – dovrebbe determinarne il successo (da leggere anche i commenti).

In diversi hanno sollevato il tema della killer application per le reti di nuova generazione. […] Sono anni che cerchiamo killer application e sono anni che tutte quelle che vengono proposte più o meno falliscono. O meglio, il mio punto è che su Internet ci sono tantissime applicazioni e ciascuno si noi si crea il suo basket di applicazioni e servizi. […] Alla fine la vera killer application è l’accesso in quanto tale, la possibilità che ha l’utente di poter accedere ad un insieme vastissimo di servizi che ciascuno seleziona e sceglie in base ai propri gusti. […] E questo secondo me dice che gli utenti pagheranno per l’accesso. Nessuno pagherà un abbonamento a Internet in quanto e perché viene offerto nel pacchetto uno specifico servizio. O per lo meno, nessuno di questi servizi sarà il main driver che guiderà la crescita degli abbonati/fatturati dei telco operator. Ed è per questo che gli operatori devono ripensare i propri modelli di business: continuare a pensare che conquisteranno e manterranno clienti per qualche specifico servizio non li porta da nessuna parte. Il loro business sarà vendere accesso. E soprattutto, proprio perché gli utenti vorranno decidere da soli che “fare” una volta che “sono su Internet”, l’accesso dovrà essere neutrale e non condizionato dall’operatore.

Mi sembra un punto di vista estremamente persuasivo, ed anch’io ho la sensazione che il mercato – o almeno una larga fetta di esso – non sia disposto a rinunciare ad un accesso neutrale. Questo mi pare, però, un argomento formidabile contro la regolamentazione della net neutrality.

26
Giu
2009

I biocarburanti hanno causato i rincari dei prodotti alimentari? – di Elisabetta Macioce

Riceviamo da Elisabetta Macioce e volentieri pubblichiamo.

I biocarburanti sono la causa dell’aumento dei prezzi alimentari?
Per poter rispondere a questa domanda analizziamo per primi i prezzi dei feedstock negli ultimi anni. Secondo la FAO l’indice dei prezzi alimentari è cresciuto dell’8% nel 2006 rispetto al 2005, del 24% nel 2007 rispetto al 2006, raggiungendo una crescita percentuale massima (+53%) nel primo trimestre 2008 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
Tali aumenti venivano spiegati soprattutto, per il 75%,  con l’aumento della domanda di feedstock e la maggiore allocazione delle colture destinate alla produzione di biocarburanti.
Nel passato gli aumenti dei prezzi erano passeggeri, provocati da una scarsità temporanea. Dopo un raccolto povero gli agricoltori si affrettavano ad approfittare degli alti prezzi di un  prodotto per piantarne di più, così contribuivano ad abbassarne nuovamente il prezzo. Questa volta invece, i prezzi si sono mantenuti alti per tre anni di seguito anche in presenza di un raccolto buono come quello del 2007. Questo perché qualcosa è cambiato anche nei meccanismi del mercato. Il trend rialzista non era limitato ad un settore, ma li ha coinvolti tutti, i futures sulle commodities sono stati sempre in crescita. Possiamo dire che il mercato dei cereali è stato coinvolto dalla speculazione proprio come è accaduto per quello del petrolio, nonostante in questo caso ci sono concause rilevanti. Read More

26
Giu
2009

Il governo sottovaluta, temo

Reduce dalla sedicesima assemblea provinciale di imprenditori in poco più di due mesi,  era a Lecco dopo Lucca, Ancona, Brescia, Mantova, Piacenza, Padova, Rimini, Fermo, Milano, Alessandria e continuando, temo di avere proprio un’impressione dominante. Il governo sottovaluta la legnata in corso di incassamento da parte delle imprese, le manifatturiere esportatrici indebitate perché più avevano creduto nell’export, e soprattutto quelle che hanno capofiliere germaniche in testa, alle quali offrono semilavorati e componentistica. Dovunque, nella fascia pedemtonana del Nord come in quella adriatica fino all’Abruzzo, il pianto è greco, i dati sconfortanti, le prospettive peggio che atre.

Vedremo le misure nuove annunciate dal governo tra poche ore, col decreto che introduce la Tremonti- ter – oggi le mie orecchie l’hanno sentita fare a pezzi tra diluvi di applausi polemici a Lecco, dove pure la maggioranza nettissima è per PdL-Lega, al grido “ma chi farà utili da reinvestire, quest’anno?” –  il bonus a chi non licenzia, e via continuando. Ma mi sembra sempre più che il problema del baratro che si apre sotto i piedi di migliaia di imprese manifatturiere esportatrici non si possa colmare solo con palliativi prenditempo. E’ l’ora di una strategia di interventi strutturali, per un quadro pluriennale di riduzione del gap che grava sulla terribile triade costo del lavoro- energia- tasse. Reggere a venti o trenta punti di svantaggio competitivo su questi tre input, quando i concorrenti europei si avvantaggiano purtroppo di interventi statuali assai più generosi o di condizioni standard più favorevoli all’impresa, significa condannarsi ad anni di crescita flat e a una vera e propria morìa di aziende.

Non è solo la previdenza da rimodulare, in un quadro pluriennale, per liberare risorse dalla spesa pubblica superiore al 50% del Pil. Occorre un trade off tra maggior reddito disponibile ai lavoratori e più produttività alle imprese – non basta la decontribuzione poco più che simbolica del salario di produttività varata l’anno scorso – e nei 4 anni che ci separano dal federalismo fiscale attuato, annunciare sin d’ora che sparirà del tutto l’Irap e che la spesa sanitaria sarà ricondotta per tutti allo standard lombardo-veneto. Il che significa aggredire bubboni come quello campano, siciliano e calabro, che nulla hanno a che vedere con lo standard di servizio offerto ma solo con l’assistenzialismo di chi assume migliaia di dipendenti pubblici senza altro scopo che clientelismo.   La dimensione della spesa pubblica da abbattere è nell’ordine di 50 miliardi di euro. Una cifra analoga a quella che Passera vuole spendere in più ogni anno. Io sono per spenderla in meno, se vogliamo con meno tasse che le imprese vivano. Altrimenti, per carità, l’Italia non fallirà. Anni di declino resi meno evidenti dal troppo elevato stock patrimoniale di ricchezza delle famiglie: quello che Tremonti e Marco Fortis lodano come uno dei maggiori motivi di forza dell’Italia, e che io considero invece una classica e massiccia allocazione improduttiva di risorse finanziarie sottratte alla crescita.

25
Giu
2009

Una tranquilla giornata, in un Paese “liberalizzato a meta’”

Ieri mattina mi sono trovato ad avere bisogno, fortunamente: per la prima volta nella vita, di un farmaco serio. Ricetta alla mano, ho cominciato a cercarlo nelle farmacie del centro di Milano. Uno degli argomenti piu’ tosti contro la piena liberalizzazione del settore, ma anche contro la concorrenza delle parafarmacie, si fonda sull’idea che le farmacie sarebbero un “presidio del servizio sanitario nazionale”. La limitazione dell’offerta, e i privilegi di cui godono i farmacisti, sarebbero dunque legati al loro svolgere un servizio pubblico.
Ma la farmacia e’ un’attivita’ che deve stare sul mercato, e obbedisce a talune, comprensibilissime, necessita’: avere sugli scaffali abbondanza di prodotti che si vendono (anche se si tratta di shampoo e profumi!), limitare il magazzino per quanto riguarda prodotti che si vendono meno, e per giunta possono scadere. Cosi’, ho girato per undici diverse farmacie, piu’ le due delle stazioni (Garibaldi e Centrale), a detta degli altri farmacisti le piu’ fornite, senza trovare la medicina che mi serviva.
Avrei potuto ordinarla, e mi sarebbe stata consegnata il giorno dopo. Il farmacista si sarebbe guadagnato il suo venticinque e rotti per cento del prezzo al dettaglio tendendo in casa il mio antidolorifico un paio d’ore. Non ho potuto fare l’ordine, perche’ dovevo “scendere” a Roma (dove, per inciso, il farmaco l’ho poi trovato, alla fornitissima farmacia del senato: si vede che i politici sono buoni consumatori!).
Gia’, scendere a Roma. Ho preso un Eurostar alta velocita’. Di norma, e’ molto comodo: piu’ comodo dell’aereo, per chi fa centro-centro. Se non fosse che lunedi’ mattina c’e’ stato un incidente a Firenze, e da allora continuano i rallentamenti sulla linea. Arrivato in stazione centrale, scopro che il mio treno era stato cancellato. Il biglietto si puo’ ricevere via mail o sms: informazioni (dettagli?) di trascurabile importanza come questo, evidentemente no. Riesco a saltare sul treno prima. Che accumula mezz’ora di ritardo: le tre ore e mezza previste, diventano quattro.
Arrivato a Roma, cerco un taxi. Alla stazione Termini, c’e’ una coda che non finisce piu’, nonostante le norme veltroniane che dovrebbero coartare i tassisti a stare stabilmente, e in forze, innanzi alla stazione (“piuttosto che liberalizzare, meglio costringere”). In compenso, l’offerta “parallela” e’ abbondante, ma a prezzi  francamente proibitivi. Faccio un po’ di moto, e vado in albergo a piedi.
Entrato in hotel, prendo la chiave e vado in camera. Dieci minuti dopo, sorpresina: non c’e’ elettricita’ e la fornitura continua ad essere a singhiozzo, dalle due alle sette di sera. La batteria del mio laptop e’ a secco e di aria condizionata ci sarebbe bisogno. Sento discorsi concitati fra il personale dell’albergo e il servizio clienti della municipalizzata romana che dovrebbe illuminarlo.
Perche’ continuiamo, con sprezzo del ridicolo, a rompere l’anima a chi ha la bonta’ di ascoltarci, sulle liberalizzazioni? La risposta e’ molto semplice. Perche’ ce n’e’ bisogno.

24
Giu
2009

Nuovo processo civile: problemi risolti?

Disquisire della riforma del processo civile in questa sede è difficile, tanto più, poi, se si tratta di dare giudizi nell’ambito di una materia già di per sé intricata e complessa. Mi limito perciò ad una breve panoramica e a qualche valutazione sui contenuti della riforma, che lungi dal costituire un isolato ed eccezionale intervento del legislatore (la certezza del diritto non è di questo mondo, né tantomeno di questo paese…), è solo l’ultimo anello di una catena che poco plausibilmente, date le attitudini italiche, può considerarsi davvero esaurita. Partiamo dall’obiettivo assai condivisibile che si è prefisso il Ministro Alfano: dimezzare i tempi abnormi dei processi italiani. Un contenzioso in sede civile si protrae in media per più di sette anni. Di qui una vasta (e meritoria) serie di misure volte a contrarne ope legis la durata. I termini previsti per l’impugnazione sono stati tagliati, così come quelli sulla sospensione del procedimento e sul suo rinvio a seguito di una pronuncia di Cassazione. Nella stessa direzione, volta a tamponare l’emorragia dilatoria che affligge i nostri procedimenti, va anche l’introduzione del calendario delle udienze disposta in tema di istanze istruttorie. Forse, oltre al filtro in Cassazione, qualche taglio più deciso allo strumento dell’appello sarebbe stato auspicabile, in particolar modo laddove non si palesa davvero come elemento imprescindibile di garanzia (mi riferisco alle sentenze del giudice di pace). La spinta alla conciliazione, impressa dalla condanna al pagamento delle spese processuali per chi, una volta avvalsosi di questa facoltà, decida poi di proseguire l’iter giudiziale, conseguendo con la sentenza un risultato meno soddisfacente, rientra nella medesima ottica di decongestionare e abbreviare la via ordinaria per ottenere giustizia. In tale filone di iniziative, si inserisce anche l’allargamento (fino a 5000  e a 20.000 euro) della competenza per valore e materia dei giudici di pace, categoria in realtà già oberata di lavoro e frustrata da bassi compensi. Ecco perché forse, anziché ricorrere ai magistrati onorari, sarebbe stato il caso di incentivare quegli innovativi schemi di ADR (Alternative Dispute Resolution), così come delineati in questo bel paper scritto per l’Istituto Bruno Leoni da Andrea Bozzi. Per rimediare c’è sempre tempo, a partire dal nuovo testo di legge che il governo approverà sulla conciliazione. Ahimè, temo che anche su questo tema si accavalleranno i pensieri di stucchevoli benpensanti, preoccupati –vado a memoria- da uno “Stato che abdica alle sue funzioni” e che “liberalizza beni pubblici”. Il fatto è che chi crede di poter cambiare dalle stanze di Montecitorio la struttura ingessata e dannatamente formalistica del procedimento civile è, per usare un eufemismo, niente più che un illuso. I primi a dover collaborare nell’opera di flessibilizzazione del rito sono i giudici medesimi e questo perché, come è noto, sono loro che nella prassi fanno e disfanno il diritto, anche se nel velo di ipocrisia dei sistemi di civil law ciò non è ai più percepibile. Purtroppo, se è vero che la Cassazione si è arrovellata per anni nel tentativo di “capire” se la procura  all’avvocato fatta  su foglio separato e unita all’atto per il tramite di spilli e/o listelle di scotch fosse da considerarsi “in calce o a margine” e quindi valida; ebbene se è vero ciò (ed è vero!),  bè allora la nostra giustizia rimane irrimediabilmente ancorata ad un astratto e vuoto formalismo. Con o senza riforme del Ministro Alfano.

24
Giu
2009

Distribuzione gas, vince lo status quo – di Picchio e Sileo

Riceviamo da Gionata Picchio e Antonio Sileo e volentieri pubblichiamo.

La distribuzione del gas naturale è un settore da 4,7 miliardi di euro l’anno di fatturato e 14.400 addetti avviato verso una liberalizzazione che, a dieci anni dal Dlgs 164/2000 (il noto Decreto Letta), stenta ancora a decollare. A rallentarla, un complicato intrico normativo – l’ennesimo correttivo è oggi alla Camera, stretto tra emendamenti incrociati – oltre a una certa resistenza dei soggetti coinvolti.
Ma prima di ogni altra cosa, a frenare il processo è un irrisolto conflitto tra Centro e Periferia, di cui rischiano di pagare il conto i cittadini-consumatori.

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23
Giu
2009

Too big to fail, legnate a Londra e Usa

Il dibattito tra regolatori bancari e finanziari sta decollando nel mondo anglosassone, mentre langue da noi. Un tema domina tutti, quello che in Italia sinora è stato solo sfiorato una volta da Massimo Mucchetti sul Corriere. Come comportarsi d’ora in avanti con le banche “troppo grosse per fallire”? A Londra, il governatore della Bank of England Mervyn King ha espresso un’opinione drastica: se una banca è tropo grossa per fallire, allora è troppo grande per operare. Tradotto: bisogna mettere vincoli alla crescita degli istituti, scoraggiando l’assunzione di dimensioni eccessive, tali da innalzare il rischio d’istituto a rischio sistemico. Oggi il capo della Financial Services Authority, Lord Turner, ha respinto come dirigista e vincolista la tesi della BoE, adottando lo schema-Mucchetti di requisiti di capitale prudenziale crescenti all’aumento degli attivi, e soprattutto del propriety trading, l’attività dalla cui esplosione si ingeneravano il più dei profitti piazzando prodotti sintetici con responsabilità patrimoniale estranea al recinto dell’emittente come del trader bancario stesso. Una sorta di “tassa sulla crescita”, l’ha definita Lord Turner. Negli Stati Uniti, il confronto non è meno vibrante. Nell’Europa continentale, silenzio assoluto.

Larry Summers, l’ispiratore capo del nuovo schema regolatorio obamiano di cui già ci siamo occupati, ha detto esplicitamente che “non se ne parla neanche, di spostare all’indietro le lancette dell’orologio”. Nessun limite alla crescita dunque, né esplicito né in termini di disincentivo con ratios patrimoniali più stringenti. Allineato e coperto Frederic Mishkin, ex governor della Fed sino al 2008, secondo il quale “chi pensa a far rientrare il genio nella lampada non sa neanche di che cosa sta parlando”.  Paul Volcker, colui che mise briglie all’inflazione e stoppò il deficit spending alzando i tassi senza troppo dar retta agli strilli dei politici, è invece a favore di disincentivi all’ecesso di trading, in grado di snaturare la banca commerciale. “Se questo significasse spingere a  minori profitti e più basso rendimento dell’equity ci sto”, ha detto, “perché la banca commerciale ha una sua natura e un suo equilibrio, guai a dimenticarsene, come abbiamo visto”. E Sheila Bair, alla testa di quella Federal Deposit Insurance Corporation che molti volevano abrogare per passarne i poteri alla Fed, ha brutalmente detto che il problema d’ora in poi è rendere chiaro di fatto agli azionisti bancari che ci rimetteranno sempre e comunque, quand’anche lo Stato dovesse reintervenire per evitare crisi sistemiche da eccesso di rischio malcalcolato da grandi banche.

Il New York Times si interroga oggi se non sia il caso di riscoprire uno dei più grandi giuristi d’impresa della storia americana, Louis Brandeis che nel  1914, con il suo “Other People’s Money — and How the Bankers Use It”, fece compiere il passo decisivo alla creazione della Fed. Resta il fatto che Brandeis parlava del rischio delle banche troppo grosse, accomunandolo a quello delle grandi imprese ferroviarie e siderurgiche, in termini di cartelli tropo potenti per la concorrenza sul mercato interno e rispetto alle capacità regolatorie di una politica sempre più debole.  Tutt’altra cosa è la misura del Value at Risk come criterio dimensionale per una banca, come per qualunque altro intermediario finanziario: qui non si parla di antitrust, ma di rapporto tra trading, lending e capitale. Torno a dire che il silenzio, nell’Europa continentale che pure ha visto salvataggi di Stato di grandissime banche transfrontaliere, non potrebbe essere più agghiacciante, al confronto.

23
Giu
2009

Cina e commercio, Obama come Tremonti

Oggi l’Amministrazione americana ha presentato una argomentata protesta ufficiale contro la Cina in sede Wto, scavalcando in durezza l’Unione europea che sulla stessa materia aveva sinora tenuto un profilo formalmente più basso. Qui la nota ufficiale del governo Usa, e l’elenco delle restrizioni in termini di quote all’import export dichiarate dal governo cinese, in spregio al Trattato e agli impegni espliciti assunti nel firmarlo. Si tratta, dome vedrete, soprattutto di minerali essenziali nel settore metallurgico, macchinari e costruzioni, la base del rapido ed energico shift dall’export alla domanda interna deliberato dal governo cinese tre mesi fa, per impedire che il calo vorticoso dell’export cinese abbassasse oltremodo la crescita del Pil. La guerra per disancorare il peg tra dollaro e reminmbi si fa dura, al di là del merito del commercio unfair sul quale un anno fa Tremonti teneva lezione, sbertucciato allora dai più… Il problema è che, rispetto ad allora, la gara protezionista ha fatto proseliti a decine. In Italia, però, i politici non se ne occupano più. È rimasta solo Confindustria, a levare la voce quasi ogni giorno sul tema.