Mose, Expo: 10 punti per una cura radicale, non superman Cantone
Dopo gli arresti per Expo a Milano, quelli per il MOSE a Venezia. Il Nord ne esce malissimo, quanto a etica pubblica, spreco di risorse e corruzione. E siamo sempre lì da decenni, a interrogarci su un male che non passa mai, quello delle tangenti sulle opere pubbliche, dei denari chiesti da manager pubblici e politici per agevolare procedure e aggiudicare gare. Dal crollo della prima repubblica per tangentopoli all’attuale lunga agonia della seconda, è un copione immutabile. E dopo tanti anni e tanti miliardi bruciati, in un paese che di infrastrutture e opere pubbliche è in deficit gravissimo visto che gli investimenti sono l’unica parte della spesa pubblica che la politica ha compresso facendo crescere invece la spesa corrente, speriamo venga il momento di qualche soluzione. Invece di limitarci alla pura indignazione per le indagini e gli arresti da parte dei magistrati, cerchiamo di capire il fenomeno con cui siamo alle prese. Lo dico subito: non credo affatto che la cura salvifica sia l’Anticorruzione di superman Cantone.
Primo. Anni e anni hanno mostrato che con la superfetazione di norme amministrative, codice degli appalti enciclopedico, conferenze di servizi pronte per anni a bloccare ogni avanzamento progettuale, nel nostro Paese opere superiori a una certa entità semplicemente non si riescono a realizzare.
Secondo. Di fronte a questo, a maggior ragione la politica ha tagliato le risorse per le infrastrutture, immaginando in vent’anni “strade accelerate” per opere considerate essenziali. A ciò rispondeva la legge obiettivo del primo governo Berlusconi, poi però diventata un protocollo speciale che al ministero delle Infrastrutture è rapidamente giunto a contenere anch’esso prima decine e decine, e poi centinaia di opere.
Terzo. A quel punto si è scatenata la logica di patronage politico-territoriale. Parliamoci chiaro: il MOSE a Venezia, e lo stesso vale per Expo come per la TAV, hanno indirizzato al Nord risorse di gran lunga maggiori di quelle riservate al Sud. Perché lo spirito iniziale del centrodestra fondato da Berlusconi aveva un forte impulso a soddisfare non solo esigenze politiche – quelle della Lega – ma di un radicamento territoriale complessivo e di uno sbandierato rapporto con le imprese.
Quarto: la scelta non è però stata effettuata in base a inoppugnabili criteri di costo-beneficio. Per dirne una: Venezia è un patrimonio dell’umanità che attira turisti da tutto il mondo e va assolutamente preservato. Ma lo Stato che ha già versato 5,2 miliardi per la realizzazione delle paratie mobili che servono a evitare l’acqua alta è lo stesso Stato che centralmente non destina che 150 milioni l’anno a interventi contro l’intero dissesto idro-geologico nazionale. Quello che a ogni autunno provoca non acque alte, ma raffiche di morti sotto frane ed esondazioni in tutto il paese. E’ amaro dirlo, ma il Nord esce male da queste scelte innanzitutto per i criteri che la politica ha scelto a suo vantaggio, prima ancora che per gli arresti ordinati dalle Procure quando scoppiano gli scandali.
Quinto. Nel frattempo le norme amministrative bizantine aumentavano, e dunque anche per le opere “prioritarie” il problema diventava quello delle opere comuni, bloccate. Ecco il brodo di coltura per le cupole degli affari, formate da manager pubblici indicati dai partiti e dai politici, senza i quali le imprese interessate ai lavori non possono contare sull’aggiudicazione della gara. E senza apertura e avanzamento del cantiere non arriva la rata annuale di finanziamento. La realtà delle inchieste mostra che le imprese disposte al gioco sporco non sono più “sistema”, come nella prima repubblica di fronte al “sistema” allora dei partiti. Ma ci sono, continuano a esserci. E maggiori sono le risorse stanziate da Roma, più alta è la possibilità di far provvista per manager pubblici e politici, di fronte alle varianti d’opera, con relativi aggravi di costo pubblico e d’incasso per le imprese, che politica e PA riescono alacremente a determinare.
Sesto. Tutto ciò è stato agevolato dal proliferare di “veicoli speciali”, cioè in deroga alle norme generali amministrative inapplicabili. E’ successo per la Protezione Civile anni fa. Per l’Expo che, costretto alle deroghe visto il ritardo determinato dalle nome ordinarie, ha così potuto gestire appalti a chiamata invece che con gare europee. E a quanto pare idem si può dire con il Consorzio Venezia Nuova per il MOSE.
Settimo. Che sta nei comandamenti per “non rubare”. E qui casca l’asino. Perché dai tempi di tangentopoli ci si è voluti convincere che la legalità nei lavori pubblici sarebbe stata la legge penale, a tutelarla. I fatti dicono che è una baggianata. Ogni procura italiana ha in corso indagini su appalti e gare pubbliche che nascondono corruzione e concussione. E se oggi molti credono che la soluzione venga sovrapponendo al codice degli appalti il controllo della magistratura amministrativa, civile, penale, e sopra queste anche quello della super costituenda autorità anticorruzione dell’ottimo Raffaele Cantone, è una baggianata per addizione, ma baggianata resta. Non saranno manette e aggiuntivi supermagistrati, a impedire che l’ostacolo delle norme dello Stato venga superato da improprie collusioni tra pubblico e privato (compresi magistrati della Corte dei Conti, a quanto pare a Venezia..), laddove si concentrano le poche pingui risorse destinate a opere pubbliche. E non sarà il fatidico avvento degli “onesti”, a impedire appetiti e fondi neri.
Ottavo. E dunque? Sappiamo bene che molti promettono salvifiche riforme delle regole. Oggi, ne troverete i giornali pieni. Ma è una contraddizione logica dire “più controlli pubblici”, quando sono proprio le norme pubbliche a impedire all’Italia di essere un paese normale. Con tanti saluti in primis alla presunta superiorità morale del Nord rispetto al Mezzogiorno. E’ proprio il nodo delle norme ordinarie, quello che va sciolto. Ma radicalmente.
Nono. Quando un’opera, come il MOSE, nasce 14 anni fa con un costo stimato di 800 milioni di euro di oggi, e alla fine – oggi siamo all’80% della sua realizzazione – ne costa 7 miliardi, con una smisurata crescita che alimenta pacchi di milioni sviati a fini illeciti, e quando questo stesso meccanismo si ripete da anni, allora vuol dire che bisogna incidere il vero nodo. Per non dare ragione a chi dice no a ogni opera pubblica – un partito temibile, che acquista punti a ogni arresto, e che condannerebbe però l’Italia a un sia pur onestissimo accentuato declino – bisogna recidere dall’opera pubblica ciò che il pubblico non si è dimostrato capace di fare.
Decimo. Una volta decisa l’opera “davvero” prioritaria, non devono essere la PA e la politica a gestire né l’aggiudicazione, né il suo avanzamento. Le gare vanno giudicate da commissioni terze, rispetto a politica e PA, definite per pura competenza professionale. Se ai privati vincitori si assicurano tempi certi, loro potranno col sistema bancario occuparsi del financing attraverso il sistema bancario, senza dipendere anno per anno dalle quote di risorse concesse o negate dal pubblico. Che alla fine resta però titolare del funding, cioè del pagamento una volta che standard, costi e tempi dell’opera siano rispettati dal suo realizzatore.
Naturalmente, ai più questa proposta sembrerà velleitaria, impossibile in Italia. Ma guai radicali chiedono rimedi radicali. Gli arresti di Milano e Venezia sono una vergogna per il Nord e per l’Italia nel mondo, ma non fermano l’emorragia. Che ha un solo vero responsabile. E’ la foresta normativa, a respingere gli onesti, ad allontanare dall’Italia le maggiori aziende di lavori pubblici del mondo, e a coprire con le sue mille frasche corrotti e collusi.