Votate, votate, ma subito dopo occhio: i conti non tornano
E va bene che l’ottimismo è la fede delle rivoluzioni. Ma applicarlo ai conti pubblici italiani, come si è fatto per troppi anni, si è rivelato una fede manicomiale. E’ prassi inveterata che i premier e i ministri dell’Economia dicano “siamo in una botte di ferro”. Tranne poi scoprire, da parte del contribuente italiano chiamato a pareggiare con più tasse i conti che non tornano, che botte di ferro era sì, ma quella ferale dove stava rinchiuso Attilio Regolo. Guardiamo ai fatti. Le campane fatte risuonare dall’Ocse e dal PIl nel primo trimestre aprono per il dopo elezioni europee riflessioni obbligate. E’ la realtà, italiana e internazionale, che sta prendendo una piega diversa da quella attesa. E non è positiva.
L’OCSE, infatti, non ha ridotto a un risicatissimo più 0,5% la crescita attesa dell’Italia nel 2014 perché sia un Bubo Bubo, cioè uno strigiforme gufo reale, bensì perché ha ribassato le attese degli Usa, della Cina, del Giappone e della Russia. Tra effetto del tapering FED e della fuga dei capitali dai Paesi emergenti, crescita meno travolgente della Cina, vicenda dell’Ucraina che frena l’euroarea, tensione sino-vietnamita che frena quella asiatica, è l’attesa di crescita generale del commercio mondiale che in questo 2014 non va oltre un più 2,3 o 2,4%. Ergo l’Italia resta pur sempre uno dei soli 5 paesi al mondo con un attivo commerciale manifatturiero nell’export superiore ai 100 miliardi di dollari, tuttavia la frenata mondiale ci fa perdere proprio abbrivio nell’unico settore che da noi si difende bene, l’export appunto.
In più, ad andare peggio del previsto c’è mezza euroarea: il Pil italiano nel primo trimestre 2014 ha deluso ritraendosi dell1%, ma quello della Francia è piantato a zero, quello olandese a -1,4%. Il più 0,4% spagnolo è falsato da una compressione dell’import figlio della deflazione, l’altro pericoloso fattore che mina i conti di mezza Europa visto che, senza crescita nominale dovuta all’aumento dei prezzi almeno del 2% annuo che dovrebbe essere obiettivo della BCE, con questi tassi di crescita i debiti pubblici aumentano anche in presenza di politiche di bilancio virtuose per contenere il deficit.
Il primo trimestre 2014 proietta per trascinamento nei tre successivi un Pil italiano a meno 0,2%. Speriamo tutti in un rimbalzo positivo. Ma purtroppo la crisi della domanda interna italiana – il 70% del PIl – resta forte, molto più forte che altrove. Mentre da noi il fatturato dell’export manifatturiero tra 2008 e 2013 saliva del 16%,5, quello francese saliva solo del 5% scarso. Ma la differenza è che nel frattempo il fatturato domestico francese saliva del 4,6%, da noi è brutalmente crollato del 15,9%.
L’indicatore di consumi di Confcommercio nel primo trimestre 2014 resta su base annuale più vicino al meno 3% che al meno 2, su un anno disastroso com’è stato il 2013. E il governo sa bene che l’effetto sulla domanda interna degli 80 euro concessi di bonus ai disoccupati e ai lavoratori dipendenti sotto i 25 mila euro lordi di reddito non è in grado certo di aggiungere il punto di Pil di consumi che manca, tra il meno 0,2% oggi proiettato dal primo trimestre, e il più 0,8% previsto dal DEF per il 2014, mentre l’Europa già due mesi fa prevedeva un più modesto 0,6.
Di conseguenza, i casi sono tre. Il primo è quello dell’improbabilità. Cioè di una svolta positiva tanto energica del commercio mondiale, da farci riprendere il più dell’1% di Pil che manca alla crescita 2014 per far tornare i conti pubblici previsti dal governo, in termini di entrate e stabilizzazione del debito. Il secondo è quello più concreto, e cioè rimettere mano prima che sia troppo tardi ai conti pubblici 2014. Quando già il DEF ha chiesto a Bruxelles l’ok allo slittamento di un anno del pareggio strutturale di bilancio al 2015 (il pareggio “strutturale” è quello al netto del ciclo, non è il deficit zero). Il terzo è quello, molto rischioso, di puntare sul semestre italiano di presidenza Ue per registrare un ulteriore compromesso al ribasso. Approfittando soprattutto del ritardo nella Francia, che resta più vicina al 4 che al 3% di deficit, chiedere un ulteriore slittamento per il pareggio strutturale anche per l’Italia, non di uno ma di due anni.
Renzi e Padoan hanno sin qui escluso ogni manovra correttiva: ma eravamo in campagna elettorale. Di fatto, poiché la volatilità dello spread è ripresa – il suo abbassamento verso quota 150 era dovuto a fattori internazionali, non a riforme domestiche – potrebbero risultare sopravvalutati i 3 miliardi di minori interessi sul debito pubblico stimati nei conti 2014 del governo. A quel punto, saremmo di nuovo al 3% di deficit già nel 2014, perché bisognerebbe sommare i minori introiti tributari da minor crescita rispetto a quella stimata. E ciò al netto di eventuali “incidenti di percorso” su introiti già disposti, come eventuali pronunzie della Corte costituzionale sull’aggravio al 26% sulle banche partecipanti al capitale di Bankitalia dell’aliquota sulla rivalutazione delle proprie quote.
La debolezza di fondo del governo è di aver limitato per ragioni di campagna elettorale a 3 soli miliardi l’intervento di minor spesa pubblica nel 2014. E di questi 3 miliardi i 700 milioni a carico delle Regioni sono ancora tutti da chiarire, prima di considerarli certi. In questo modo, 29 su 32 miliardi di minor spese nel triennio sono stati rinviati al 2015 e 2016. Ma la quota dei presumibili 15 miliardi 2015 di tagli 2015 risulta già pienamente impegnata – tra conferma del bonus “strutturale” e sua estensione agli incapienti, e spese obbligate come il rifinanziamento degli ammortizzatori sociali – senza considerare ulteriori fondi da stanziare al servizio delle riforme già annunciate dal governo (attuazione delega fiscal e Jobs Act). Dunque, allo stato non c’è capienza per contenere il deficit sotto il 3%, né per stabilizzare il debito pubblico. Né tanto meno per abbassare le imposte.
Sono i numeri a dirlo, non il pregiudizio. Padoan dovrà pensarci bene, dopo il voto europeo. Aspettare fino alla legge di stabilità, prima di porre riparo, è molto rischioso. Troppo, per sperare che al governo italiano l’Europa faccia il doppio dello sconto che ha già richiesto col DEF. E sempre ammesso che, dopo il voto europeo, al governo in quanto tale non capiti anche di peggio.