22
Mag
2014

Votate, votate, ma subito dopo occhio: i conti non tornano

E va bene che l’ottimismo è la fede delle rivoluzioni. Ma applicarlo ai conti pubblici italiani, come si è fatto per troppi anni, si è rivelato una fede manicomiale. E’ prassi inveterata che i premier e i ministri dell’Economia dicano “siamo in una botte di ferro”. Tranne poi scoprire, da parte del contribuente italiano chiamato a pareggiare con più tasse i conti che non tornano, che botte di ferro era sì, ma quella ferale dove stava rinchiuso Attilio Regolo. Guardiamo ai fatti. Le campane fatte risuonare dall’Ocse e dal PIl nel primo trimestre aprono per il dopo elezioni europee riflessioni obbligate. E’ la realtà, italiana e internazionale, che sta prendendo una piega diversa da quella attesa. E non è positiva.

L’OCSE, infatti, non ha ridotto a un risicatissimo più 0,5% la crescita attesa dell’Italia nel 2014 perché sia un Bubo Bubo, cioè uno strigiforme gufo reale, bensì perché ha ribassato le attese degli Usa, della Cina, del Giappone e della Russia. Tra effetto del tapering FED e della fuga dei capitali dai Paesi emergenti, crescita meno travolgente della Cina, vicenda dell’Ucraina che frena l’euroarea, tensione sino-vietnamita che frena quella asiatica, è l’attesa di crescita generale del commercio mondiale che in questo 2014 non va oltre un più 2,3 o 2,4%. Ergo l’Italia resta pur sempre uno dei soli 5 paesi al mondo con un attivo commerciale manifatturiero nell’export superiore ai 100 miliardi di dollari, tuttavia la frenata mondiale ci fa perdere proprio abbrivio nell’unico settore che da noi si difende bene, l’export appunto.

In più, ad andare peggio del previsto c’è mezza euroarea: il Pil italiano nel primo trimestre 2014 ha deluso ritraendosi dell1%, ma quello della Francia è piantato a zero, quello olandese a -1,4%. Il più 0,4% spagnolo è falsato da una compressione dell’import figlio della deflazione, l’altro pericoloso fattore che mina i conti di mezza Europa visto che, senza crescita nominale dovuta all’aumento dei prezzi almeno del 2% annuo che dovrebbe essere obiettivo della BCE, con questi tassi di crescita i debiti pubblici aumentano anche in presenza di politiche di bilancio virtuose per contenere il deficit.

Il primo trimestre 2014 proietta per trascinamento nei tre successivi un Pil italiano a meno 0,2%. Speriamo tutti in un rimbalzo positivo. Ma purtroppo la crisi della domanda interna italiana – il 70% del PIl – resta forte, molto più forte che altrove. Mentre da noi il fatturato dell’export manifatturiero tra 2008 e 2013 saliva del 16%,5, quello francese saliva solo del 5% scarso. Ma la differenza è che nel frattempo il fatturato domestico francese saliva del 4,6%, da noi è brutalmente crollato del 15,9%.

L’indicatore di consumi di Confcommercio nel primo trimestre 2014 resta su base annuale più vicino al meno 3% che al meno 2, su un anno disastroso com’è stato il 2013. E il governo sa bene che l’effetto sulla domanda interna degli 80 euro concessi di bonus ai disoccupati e ai lavoratori dipendenti sotto i 25 mila euro lordi di reddito non è in grado certo di aggiungere il punto di Pil di consumi che manca, tra il meno 0,2% oggi proiettato dal primo trimestre, e il più 0,8% previsto dal DEF per il 2014, mentre l’Europa già due mesi fa prevedeva un più modesto 0,6.

Di conseguenza, i casi sono tre. Il primo è quello dell’improbabilità. Cioè di una svolta positiva tanto energica del commercio mondiale, da farci riprendere il più dell’1% di Pil che manca alla crescita 2014 per far tornare i conti pubblici previsti dal governo, in termini di entrate e stabilizzazione del debito. Il secondo è quello più concreto, e cioè rimettere mano prima che sia troppo tardi ai conti pubblici 2014. Quando già il DEF ha chiesto a Bruxelles l’ok allo slittamento di un anno del pareggio strutturale di bilancio al 2015 (il pareggio “strutturale” è quello al netto del ciclo, non è il deficit zero). Il terzo è quello, molto rischioso, di puntare sul semestre italiano di presidenza Ue per registrare un ulteriore compromesso al ribasso. Approfittando soprattutto del ritardo nella Francia, che resta più vicina al 4 che al 3% di deficit, chiedere un ulteriore slittamento per il pareggio strutturale anche per l’Italia, non di uno ma di due anni.

Renzi e Padoan hanno sin qui escluso ogni manovra correttiva: ma eravamo in campagna elettorale. Di fatto, poiché la volatilità dello spread è ripresa – il suo abbassamento verso quota 150 era dovuto a fattori internazionali, non a riforme domestiche – potrebbero risultare sopravvalutati i 3 miliardi di minori interessi sul debito pubblico stimati nei conti 2014 del governo. A quel punto, saremmo di nuovo al 3% di deficit già nel 2014, perché bisognerebbe sommare i minori introiti tributari da minor crescita rispetto a quella stimata. E ciò al netto di eventuali “incidenti di percorso” su introiti già disposti, come eventuali pronunzie della Corte costituzionale sull’aggravio al 26% sulle banche partecipanti al capitale di Bankitalia dell’aliquota sulla rivalutazione delle proprie quote.

La debolezza di fondo del governo è di aver limitato per ragioni di campagna elettorale a 3 soli miliardi l’intervento di minor spesa pubblica nel 2014. E di questi 3 miliardi i 700 milioni a carico delle Regioni sono ancora tutti da chiarire, prima di considerarli certi. In questo modo, 29 su 32 miliardi di minor spese nel triennio sono stati rinviati al 2015 e 2016. Ma la quota dei presumibili 15 miliardi 2015 di tagli 2015 risulta già pienamente impegnata – tra conferma del bonus “strutturale” e sua estensione agli incapienti, e spese obbligate come il rifinanziamento degli ammortizzatori sociali – senza considerare ulteriori fondi da stanziare al servizio delle riforme già annunciate dal governo (attuazione delega fiscal e Jobs Act). Dunque, allo stato non c’è capienza per contenere il deficit sotto il 3%, né per stabilizzare il debito pubblico. Né tanto meno per abbassare le imposte.

Sono i numeri a dirlo, non il pregiudizio. Padoan dovrà pensarci bene, dopo il voto europeo. Aspettare fino alla legge di stabilità, prima di porre riparo, è molto rischioso. Troppo, per sperare che al governo italiano l’Europa faccia il doppio dello sconto che ha già richiesto col DEF. E sempre ammesso che, dopo il voto europeo, al governo in quanto tale non capiti anche di peggio.

21
Mag
2014

I pregi dell’Unione Europea

Alle prossime elezioni europee si confronteranno due visioni dell’Europa: quella di chi ne critica i pregi, difendendo politiche populiste, e quella di chi ne elogia i difetti, non pago della crisi prodotta dalle politiche di integrazione. Essendo diffidente sia verso il populismo dei “No Euro” sia verso l’idea di una maggiore integrazione, magari “politica”, che secondo molti è la “risposta alla crisi”, sento la mancanza di una terza via che sottolinei gli enormi vantaggi dell’Europa e cerchi di correggerne i numerosi difetti, evitando di aggiungerne di nuovi.

Cominciamo dai vantaggi dell’Europa.

Grazie all’Europa è possibile commerciare liberamente in tutto il territorio dell’UE, tramite due delle “Quattro Libertà”: il libero movimento delle merci e dei capitali (quello dei servizi non è pervenuto: l’UE ci aveva provato tramite la Direttiva Bolkenstein, ma la Francia si è opposta e purtroppo ha vinto).

Grazie all’Europa (i.e., a Schengen) è possibile viaggiare e lavorare ovunque senza permessi di soggiorno, passaporti, e file in aeroporto (fate la fila per Londra – che non è in Schengen – e capirete quanto è comodo invece farne parte).

Grazie all’Europa ci sono dei limiti legali (sulla carta, dato che non sono mai stati fatti seriamente rispettare) che impediscono ai governi di scaricare sui vostri figli il costo di un debito ancora maggiore.

Grazie all’Europa (i.e., all’euro) i governi non possono produrre inflazione per arricchirsi a danno dei risparmiatori e non possono manipolare i mercati finanziari per creare bolle tramite la politica monetaria. Sebbene l’inflazione sembri un problema risolto, la manipolazione dei mercati finanziari sembra ancora oggi lo strumento principale delle politiche monetarie: è stata la distorsione del costo dei titoli pubblici seguito all’introduzione dell’euro infatti ad aver prodotto l’Eurocrisi.

Grazie all’Europa gli italiani possono difendersi dai loro governanti e dai loro amministratori: la Google Tax e la ritenuta del 20% sui bonifici da estero sono state cassate, l’Italia è stata redarguita per vergogne quali i tempi dei processi e la carcerazione preventiva, molti mercati sono stati aperti grazie a pressioni e imposizioni provenienti dall’UE.

Questi punti hanno una cosa in comune: non richiedono che una minima euroburocrazia, e soprattutto non richiedono un’unione politica. Tutto ciò che serve dell’Unione Europea si può fare senza un’unione politica, con una possibile, ma improbabile, eccezione: la politica estera.

È da notare che i cosiddetti No-Euro critichino pressoché tutti i vantaggi dell’UE, e per questo motivo possono essere considerati la summa di tutte le opinioni illiberali del paese. L’UE è al contrario una gran cosa quando difende gli italiani dalle svalutazioni, il debito, il protezionismo, le regolamentazioni: tutti i suoi vantaggi derivano dal fatto che l’UE “limita la nostra sovranità”, cioè il potere della nostra classe politica.

[SEGUE: i difetti dell’UE]

20
Mag
2014

L’occasione mancata nelle nomine—di Gianfilippo Cuneo

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gianfilippo Cuneo.

La prima dichiarazione di Moretti come Amministratore Delegato di Finmeccanica è stata quella che ci sono dirigenti che guadagnano troppo. “Da che pulpito!” verrebbe da dire. Finmeccanica è un’azienda quotata, ed al mercato non interessa se qualche manager guadagna tanto o poco ma piuttosto se contribuisce ad aumentare il valore delle azioni o no; forse sarebbe stato meglio un silenzio fino a quando il nuovo amministratore delegato non sarà in grado di indicare delle credibili linee di sviluppo e far dimenticare come la sua nomina sia stata salutata con un tonfo del titolo.

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16
Mag
2014

Gli eBook tornano a essere libri (ma non del tutto)

Al pre-Consiglio dei ministri di ieri, il ministro dei beni culturali Dario Franceschini ha presentato una bozza di decreto legge avente ad oggetto varie misure per il rilancio del turismo e relative alla gestione e al trattamento fiscale dei beni culturali, di cui sul blog ha già parlato qui Filippo Cavazzoni. Tra queste ultime pare riscontrarsi, finalmente, la proposta di riduzione dell’IVA su eBook e riviste elettroniche. Read More

15
Mag
2014

Mercato delle donazioni e cultura

Al preconsiglio dei ministri di questo pomeriggio verrà portato un nuovo decreto legge sulla cultura. Sono passati solo pochi mesi dalla conversione in legge del decreto Valore Cultura, e già si sta per intervenire su alcune sue norme: il progetto Grande Pompei, le erogazioni liberali, le agevolazioni per il cinema, il fondo di rotazione per le fondazioni liriche, ecc. Il filo rosso che lega i nuovi interventi è rappresentato dal tentativo di far affluire maggiori risorse per il settore: nuovi stanziamenti pubblici e revisioni delle agevolazioni fiscali.

In merito a queste ultime, è previsto, come si legge oggi sul Sole 24 Ore, che “chi aiuterà la cultura (beni pubblici, ma anche istituzioni e attività) con erogazioni liberali potrà detrarre il 65% nel 2014 e 2015. Il bonus scenderà al 50% nel 2016. Le detrazioni dovranno essere ripartite in tre rate annuali uguali, saranno limitate al triennio e l’importo annuo della detrazione non potrà superare il 20% del reddito del reddito complessivo del mecenate”. Read More

14
Mag
2014

L’ottimismo di troppo sullo spread e quel che davvero serve al Sud

Renzi va a Napoli quando alla Camera dei Deputati è giunto al varo finale il decreto Poletti , che insieme al decreto sul bonus di 80 euro ai dipendenti fino a 25 mila euro lordi rappresenta al momento la produzione legislativa del governo Renzi. Per il resto del tambureggiante programma di riforme annunciato dal governo occorre aspettare le elezioni europee. Che rischiano di produrre conseguenze anche molto serie, sulla continuazione della collaborazione tra maggioranza di governo e Forza Italia in materia di riforme istituzionali e costituzionali. Forse anche sulla durata stessa della legislatura, visto che a quel punto i problemi interni al Pd si acuirebbero. Ma di tutto questo è il caso di occuparsi solo a voti europei contati, giudicando il distacco di Grillo da Renzi, e tra grillini e berlusconiani. Ora che il decreto sul lavoro diventa legge, è il caso invece di riflettere sulle condizioni generali dell’economia italiana. E del suo Mezzogiorno.

Aver attenuato l’eccesso di limiti posti nel 2012 a tempo determinato e apprendistato – attenuazione comunque frenata, proprio ad opera di una parte del Pd che sul mercato del lavoro non condivide affatto la via alla flessibilità indicata da Renzi e Poletti – ha sicuramente effetti positivi. Ma non è il caso di illudersi. La condizione italiana resta grave. La crescita italiana attesa nel 2014 è stata abbassata pochi giorni fa dall’Ocse a un modestissimo più 0,5%. In queste condizioni, occorrerebbero troppi anni per recuperare i 9 punti di Pil e i 24 punti di produzione industriale persi sin qui nella crisi, e per vedere la disoccupazione scendere sotto il 10%.

Purtroppo, è il caso di dire, la politica sembra credere che il barometro sia ormai stabilmente orientato verso il bel tempo, e sia quello espresso dal bassissimo spread sui titoli decennali tedeschi, ormai intorno a quota 150 punti rispetto agli oltre 550 del 2011. Ma non è affatto così. Ora che il rendimento sui titoli pubblici decennali italiani e spagnoli è praticamente pari a quello degli omologhi titoli pubblici statunitensi, bisogna ricordare che non è affatto detto che la cosa resti in questi termini. La crisi ucraina, la frenata di Cina, Giappone e Paesi emergenti, sono tutti fattori che contengono la crescita del commercio mondiale entro poco più del 2% nel 2014, e purtroppo allo stato attuale è questo l’unico treno a cui sono agganciate le 190 mila imprese italiane che esportano, e soprattutto le 70 mila che lo fanno strutturalmente. Non ci aiuta la bassissima inflazione europea attuale. A marzo, su base annuale, Grecia Portogallo e Spagna erano in deflazione, l’Irlanda ha un’inflazione allo 0,6%, l’Italia allo 0,9%. Al contrario avremmo tutti bisogno di una crescita nominale intorno al 2% che dovrebbe essere garantita dalla BCE: in assenza di essa, i debiti pubblici a questi risicati tassi di crescita reale non si stabilizzano, ma continuano a salire. Vedremo a giungo, che cosa Draghi potrà fare davvero. Ma ilo contesto internazionale dice che gli spread risaliranno.

Il vero problema – come sempre, checché dicano gli antieuro e i rinnovati sostenitori del “golpe”che sarebbe stato perpetrato contro Berlusconi nel 2011– sta a casa nostra. Sappiamo che in tempi brevi è infondato attendersi sostanziali sgravi fiscali alle imprese, visto che i tagli alle spese per il 2014 si sono fermati a 3 miliardi di euro devoluti al bonus Irpef. E per quanto una spinta a incrementare la domanda di lavoro possa venire dalla prossima riforma delle regole del lavoro – con il nuovo codice semplificato, il contratto triennale d’inserimento a tutele crescenti, l’estensione universale del sostegno al reddito di chi è disoccupati e la riforma dei centri per l’impego, tutte cose annunciate ma ancora di là da venire – anche questi saranno interventi utili a seconda di come davvero verranno scritti e approvati, ma di cornice più che di sostanza.

Nel semestre di presidenza italiana della Ue che comincia a luglio, c’è da sperare che Renzi faccia fare dei passi avanti veri al promesso Industrial Compact, visto che Europa si sono persi 3,8 milioni di posti di lavoro, l’11% dell’occupazione rispetto al 2008, e in Italia il numero di disoccupati è prossimo ai 2,6 milioni di unità, con un tasso di disoccupazione oltre il12% e oltre il 40% per i giovani. Ma in Italia abbiamo perso stabilmente a oggi circa il 15% del potenziale manifatturiero, con le 91 mila imprese scomparse al netto delle nuove create, e al Sud il declino di occupazione e imprese resta drammaticamente doppio e triplo che al Nord. Di conseguenza, molti ripetono che abbiamo e avremo bisogno di “politiche industriali” , un’espressione che è accettabile solo a patto che siano molto diverse da quelle nei decenni praticate – sbagliando – dalla politica, con la convinzione cioè di potere e volere indicare e pianificare i settori e concentrandovi risorse discrezionali.

Facciamo degli esempi. Rispetto ai principali paesi europei, la diffusione delle imprese innovative, valutata come la quota di imprese che hanno introdotto nel periodo 2008-2010 innovazioni di prodotto, di processo, organizzative o di marketing, vedeva una media italiana (56,3%) superiore a quella della UE a 27 (52,9%). Ma mentre le innovative del Nord Est italiano erano il 62% del totale, e quelle settentrionali il 60%, i valori del Sud e delle Isole erano di 15 punti inferiori. Considerando la spesa per innovazione, il Centro risulta simile alle regioni del Nord, mentre nel Mezzogiorno sia l’investimento per impresa che quello per addetto sono inferiori alla metà delle altre macroaree italiane. Se consideriamo i brevetti depositati nell’anno di inizio crisi, il 2008, il Nord superava i 110 brevetti per milione di abitanti, il Centro era a meno della metà, nel Sud erano meno di 15. I brevetti a maggiore contenuto innovativo, quelli high-tech e ICT, erano nel Nord Ovest il triplo che al Sud. La geografia della diffusione dei marchi è analoga a quella dei brevetti. Tra il 2003 e il 2011 sono stati depositati circa 11 marchi ogni mille addetti nel Nord Ovest e nel Nord Est, 7 nel Centro , solo 2 per mille addetti del Sud e Isole. Il ricorso al design industriale vedeva 21,5 marchi depositati per mille addetti nel Nord, 3,3 al Sud e isole.

Ecco, la politica di sviluppo del Sud ha bisogno di un aggancio strutturale tra università e imprese meridionali all’orizzonte europeo di ricerca 2020, incentrato sulla diffusione di brevetti, marchi e innovazione. Serve molto più questo che le vecchie anticaglie dei nostalgici della Cassa per il Mezzogiorno. E non servono affatto incentivi a fondo perduto, scissi dall’avanzamento verificato di piani d’impresa seri. Serve il riaccorpamento “centrale” delle risorse europee che le regioni del Sud continuano in percentuali elevatissime a non saper usare.

E servono infrastrutturazione digitale e cultura, servono anche al turismo e allo sfruttamento dei beni culturali. Al Sud è minore la diffusione e la familiarità con le nuove tecnologie: nel 2011 solo l’8% della popolazione meridionale usava Internet per acquistare beni e servizi, rispetto al 19% nazionale. Solo il 5% della popolazione meridionale tra i 25 e i 64 anni era impegnata in attività di formazione e riorientamento al lavoro, più del 20% in meno rispetto alla media nazionale. er attenuare disoccupazione e deserto d’impresa serve più tutto questo, insieme a meno tasse ed energia meno cara, che mille sia pur opportune riforme delle regole.