2
Mar
2015

La fibra ottica verso l’inferno è lastricata di buone intenzioni

Si sa, l’Italia digitale non brilla per velocità di trasmissione dei dati. Chi scrive non ha elementi per valutare, ma vi sono studi che dicono che i nostri megabit viaggiano più lenti della media europea di 40 punti percentuali, con una situazione tuttavia fortemente differenziata a livello geografico e urbanistico, come capita invero per molte realtà.

Quale tipo di connessione, fino a dove e in che tempi portarla può essere non soltanto una questione di mercato. Una volta riconosciuto l’accesso universale, è verosimile che i governi mettano l’occhio sull’ammodernamento della rete infrastrutturale. Le mire del governo sulla posa della banda ultralarga non impressionano tanto per il se, ma per il come. Read More

1
Mar
2015

Banda larga, non banda Bassotti: il governo ci risparmi un piano Rovati bis espropriatore

Ve lo ricordate il piano Rovati, dell’autunno 2006? C’è da sperare che martedì, al Consiglio dei ministri in cui Renzi dovrà presentare un piano per la cosiddetta “banda larga”, eviti il bis di quel pasticcio prodiano. Intanto, ieri il governo ha già dovuto smentire precipitosamente il testo che le agenzie avevano battuto anticipandone i contenuti. E per fortuna, perché era un “piano Rovati al cubo”.

Cerchiamo di capire – in maniera non tecnica, perché il tema è vastissimo e le aziende interessate hanno debolezze e e punti di forza molto diversi – di che cosa si tratta.

Premessa: l’Italia è in fondo alle graduatorie europee per utilizzo di Internet. Troppi italiani che non lo usano, bassa percentuale di case e imprese collegate con reti capaci di elevato download e uplodad, basso utilizzo dell’e-commerce, PA incapace di digitalizzarsi sul serio perché significa rivelare il proprio overstaffing e troppi costi impropri. Da molti anni a questa parte, la questione si centra su una domanda. Poiché al fine di potenziare l’offerta digitale serve un’architettura di infrastrutture fisse e mobili di trasmissione che necessita di alti investimenti – da 2 a 3 punti di Pil a seconda dell’ampiezza di banda da garantire al più dell’Italia, e in che arco tempore – è possibile immaginare la condivisione dei “pezzi” di rete e torri di trasmissione mobile che finora appartengono a ciascun singolo operatore, di tlc e televisivo?

Ogni paese avanzato ha realizzato formule diverse, a seconda delle modalità di sviluppo dell’offerta tv prima e telefonica fissa e mobile poi. Noi non abbiamo la Tv via cavo e non l’avremo mai, a differenza di USA e altri paesi occidentali, perché la scelta andava fatta 40 anni fa ma la RAI di Stato non lo permise. Da noi, ogni azienda di tlc e tv ha mantenuto o realizzato, negli ultimi 20 anni di concorrenza, il “suo” pezzo di rete fissa e mobile. E dal 1997, dalla privatizzazione di Telecom Italia ex Stet-Sip, la mancata soluzione al problema di un’architettura di rete condivisa si sintetizza in due problemi, uno privato e uno pubblico: i debiti di Telecom, la difesa della RAI ( e, dietro di questa, la ripresa massiccia di tornare allo Stato-guida, non regolatore ma gestore).

Telecom Italia ha ereditato dal monopolista pubblico la rete su doppino di rame che arriva nel più delle case italiane. Sul rame, per quanto siano avanzate nei decenni le tecnologie che hanno consentito miracoli di compressione del segnale, non può passare la banca ultra-larga che ha bisogno della fibra ottica. Quella stesa in molte città italiane da Fastweb, che nacque dal cablaggio pubblico a Milano prima di divenire a propria volta privata e, da qualche anno, a controllo svizzero. La multinazionale Vodafone per anni erose il mercato italiano di Telecom Italia, in attesa di capire che cosa la politica e il regolatore Agcom decidessero sulla convergenza della rete. Per poi decidere di investire soprattutto altrove e non in Italia, visto che gli anni passavano e tutto estiva bloccato.

Telecom Italia, mal privatizzata all’inizio con il nocciolino di controllo regalato agli Agnelli e poi sommersa da debiti dalla scalata del 1999 da 100 miliardi di cui il 70% erano in carico a Telecom stessa, ha da sempre il suo margine (TIM, nel mobile, a parte) appeso alla rete in rame. Negli anni, avrebbe dovuto capire che la transizione alla fibra era necessaria. Ma il debito ingentissimo imponeva di “spremere” il rame. Nella gestione Tronchetti, seguita a quella Colaninno, l’azienda lo comprese. Ma quando sottoscrisse una grande alleanza con Murdoch sui contenuti integrati fisso-mobile, e con il messicano Slim per dare più forza mondiale al gruppo, ecco che venne il piano Rovati che puntava a bloccare il progetto e a espropriare la rete fissa.

L’Italia perse l’occasione di una grande alleanza intercontinentale sinergica su servizi e contenuti. Dopo Tronchetti è venuta la gestione Bernabè con le banche italiane in Telco e l’alleanza con gli spagnoli di Telefonica. Poi la reazione della politica all’ascesa spagnola visto che l’azienda andava male e Telco non investiva, fino all’attuale public company guidata da Patuano. Ma i debiti restano due volte e mezzo sul fatturato quelli della Stet-Sip pubblica, all’estero Telecom Italia è rimasta solo con la presenza in Brasile, mentre sul mercato domestico questi anni sono stati magri per tutti. Ergo Telecom Italia continua ad annuciare mega piani di investimento sulla rete – l’ultimo da oltre 12 miliardi – ma serve solo a spingere la palla avanti, per proseguire a spremere il rame. La fibra non serve, non c’è domanda, è il mantra.

Da 10 anni, la politica italiana è stata ricorrentemente presa dalla tentazione di rimettere l’intera rete nelle mani pubbliche, attraverso Cdp e con qualche miliardo a Telecom: la sua rete è valutata 15 miliadi nell’attico patrimoniale, ma 11 sono di avviamento già ammortato Senza quei 15 miliardi di patrimonio, però, Telecom crolla sotto i debiti rispetto al residuo patrimonio.

L’alternativa c’è sempre stata: costruire una convergenza spontanea “di mercato” tra tutti i players privati telefonici e televisivi (compresa la Rai) incentivando fiscalmente i conferimenti in una società comune (a controllo “neutro” o no: è una soluzione regolatori a seconda di che cosa si vuole ottenere), e aggiungendo agli incentivi fiscali tariffe di terminazione reciproca sui servizi incrociati che “spingessero” la convenienza di tutti gli operatori a realizzare l’auspicata convergenza tra privati.

Troppo complicato, per la politica. E poi di mezzo c’è la Rai, Mediaset, Sky di Murdoch: figuriamoci. Nel frattempo, la FCC , l’autorità delle comunicazioni statunitense, ha assunto una discussa decione a maggioranza, per la quale d’ora in poi dovrà valere la net neutrality. Cioè nessun operatore che offre servizi di rete o contenuti deve operare, attraverso prezzi ai concorrenti per passare sulla propria rete e tariffe ai clienti finali, in modo da “avvantaggiarsi” nella fidelizzazione. Una scelta pesante, visto che imporrà vincoli alle strategie d’impresa di tutti i giganti privati, delle tlc e di Internet come Netflix e Google. Ma comunque un’altra galassia, rispetto al ritardo italiano.

In gioco c’è la possibilità per milioni di italiani di avere offerte convergenti a buon mercato di internet e tv, impossibili con qualche kilobites al secondo. Per decine di migliaia di imprese, avere una rete a disposizione per rivoluzionare la propria intera catena di clienti e fornitori elevando la produtttività. Per i produttori di contenuti, la possibilità di non restare “prigionieri” di intese esclusive con grandi operatori di rete.

Fino alla settimana scorsa, la politica ha sperato che la Telecom di Patuano accettasse di salire in Metroweb, la società erede di molta fibra il cui timone è nelle mani di Cdp e F2I. Ma Telecom, per difendere il proprio rame, senza il controllo di Metroweb dice no.

Ecco lo sfondo della decisione che il governo prenderà martedì. Le alternative sono due. Dalle bozze emerse ieri ( e smentite), siamo alla riproposizione dello Stato che decide lui che cosa devono fare i privati. A cominciare da Telecom, di cui si prescriverebbe lo spegnimento di metà della rete in rame fino alle case già a partire dal 2020, e completa al 2030. In più, un articolo prevederebbe che sia il governo a decidere quanto deve investire nei prossimi 15 anni ogni player privato. Uno schema sovietico in salsa IRI.

La seconda alternativa è quella di un paziente confronto tra governo, Agcom, tutte le telefoniche e tutte le società televisive e le maggiori multinazionali internet operanti in Italia, per fissare insieme una rete di incentivi fiscali e tariffari volti a realizzare entro alcuni anni un la convergenza delle reti a investimenti crescenti. Vedremo quale sarà, la scelta di Renzi: se un salto verso il futuro, o un ritorno al passato. Che comporterebbe sanguinose impugnative di tutte le aziende private, e il segnale a tutto il mondo che vogliamo assomigliare al Venezuela.

Può essere pure che Renzi abbia giocato al solito modo in cui ci ha abituati: vedi la norma sulla soglia depenalizzante le frodi fiscali, o la tassa sul contante, entrambe annunciate e poi sparite, elaborate non si sa da chi ma in ogni caso potenti “segnali” al mercato e ai suoi operatori. Beh, se si tratta di questo, è un pessimo modo di governare. Un governo rotea mazze nell’aria per far paura alle imprese e indurle a miti consigli solo se è autoritario. E poiché non credo che il governo Renzi lo sia, vuol dire allora che ha pessimi e scoordinati estensori dei suoi testi nella ristretta cerchia di palazzo Chigi. E peggio mi sento.

 

27
Feb
2015

Concorrenza: c’è ancora tanta strada da fare. Non solo per la legge annuale

La strada della legge annuale della concorrenza è appena iniziata: per quanto autorevole nella fonte, il percorso che la porterà a diventare un provvedimento vincolante è ancora lungo. E incerto.
L’attenzione e l’analisi che l’Istituto Bruno Leoni gli ha dedicato tengono conto, naturalmente, del fatto che il testo potrà perdersi per i rami parlamentari, uscirne diverso, magari stravolto. Read More

27
Feb
2015

No, il whistleblower liberale non è il delatore anonimo invocato dal fisco italiano

Poiché le cronache italiane non risparmiano episodi di corruzione anche nell’amministrazione tributaria, il direttore dell’Agenzia delle Entrate Rossella Orlandi ha ieri scritto a tutti i suoi dipendenti, annunciando un’iniziativa che farà discutere. Verrà aperta una casella elettronica criptata, attraverso la quale i dipendenti potranno segnalare attività illegali all’interno del proprio ambiente lavorativo, venendo comunque tutelato con l’anonimato contro ritorsioni. Adottiamo anche noi l’istituto anglosassone del whistleblowing, ha detto la Orlandi, “con orgoglio e primi nella pubblica amministrazione italiana”.

E’ il caso di chiarire. Per evitare che si compia il bis del grave infortunio avvenuto nel 1996, quando l’allora ministro alle Finanze Vincenzo Visco adottò una prassi analoga – l’idea era stata di Franco Reviglio- istituendo il numero telefonico 117 aperto a tutti i contribuenti, invitandoli alla segnalazione di casi sospetti di evasione fiscale. In 3 giorni arrivarono 3500 telefonate, e il quarto giorno il ministro dovette diramare una circolare nella quale si chiariva che le segnalazioni anonime erano ammesse sì, ma su tale base non si potevano istruire accertamenti, solo valutare in presenza di precisi documenti alla mano se compierli o meno. Da allora il 117 è rimasto ma, come si desume dai rapporti annuali della Guardia di Finanza, dalle circa 50mila telefonate annuali in arrivo non partono certo chissà quali verifiche.

Qual è il punto essenziale da chiarire? Essenzialmente, uno. Il whistleblowing anglosassone – presente in ordinamenti come quello degli Usa, Regno Unito e Australia – incoraggia e tutela segnalazioni, all’interno della vita delle imprese, nelle banche e nella finanza prima che di natura fiscale, in modo da porre al riparo da ingiuste ritorsioni chi sente il dovere di esplicitarle. Ma assicura in una prima fase la confidenzialità della segnalazione, non l’anonimato. Pone tutele specifiche a ritorsioni di mobbing salariale, di mansione o promozione. E giunge poi a prevedere una premialità specifica all’individuo che ha segnalato gli illeciti risultati comprovati. Come si capisce al volo, premiare pubblicamente è l’esatto contrario dell’anonimato. Il whistleblower alla lettera suona un fischietto ben udibile, come quello dell’arbitro in campo, non fa una “soffiata” nascondendo la mano dietro la bocca. E’ una sentinella civica, non un delatore che cela la sua identità.

E’ una differenza essenziale. Se riprendiamo in mano i princìpi del nostro ordinamento – cito la sentenza 29/77 della Corte Costituzionale – <<è pacifico che nell’attuale sistema non incomba sul cittadino un generale dovere di denunciare qualsiasi reato del quale venga a conoscenza: tolti i casi in cui la denuncia è obbligatoria ed è punita la sua omissione (art. 364 cod. pen.), ogni persona che abbia notizia di un reato perseguibile d’ufficio, “può”, non “deve”, farne denuncia (art. 7 cod. proc. pen.). Se, avvalendosi di questa facoltà, presenti la denuncia per iscritto, deve firmarla (art. 8, comma terzo, cod. proc. pen.). L’inosservanza di tale prescrizione comporta l’applicazione dell’art. 141, ma non configura, di per sé, un reato a carico dell’autore della denuncia anonima, salvo che questi non sia responsabile, per la falsità della denuncia medesima, di simulazione di reato (art. 367 cod. pen.), di calunnia (art. 368 cod. pen.) o di autocalunnia (art. 369 cod. pen.). La facoltà di denuncia concreta, dunque, una funzione socialmente utile; e nel suo palese e responsabile esercizio il denunciante si rende portatore ed interprete dell’interesse della collettività acché i reati non restino impuniti. Ma non può, allo stato della legislazione, configurarsi per questo nei suoi confronti un inderogabile dovere di solidarietà sociale, del quale sia richiesto in ogni caso l’adempimento>>.

In sintesi, il nostro ordinamento è contrario alla delazione, e infatti l’articolo 333 del codice di procedura penale prescrive che la denuncia anonima non costituisca notizia di reato, può solo essere valutata dalla procura mediante verifiche non invasive. Per aver dimenticato questo basilare principio, nel 1996 l’invito alla delazione fiscale componendo il 117 si risolse in un grave incidente istituzionale.

E’ un bene dunque che l’amministrazione pubblica si dia procedure di tutela di chi, al suo interno, segnalasse illeciti – per altro sarebbe, come dipendente pubblico, tenuto a farlo in maniera più stringente di un privato cittadino, secondo l’articolo 54 del testo unico sul pubblico impiego – e che in quanto tale va posto al riparo da indebite ritorsioni esercitate da colleghi e dirigenti. Ma dev’essere ben chiara una cosa: la delazione anonima è ciò di cui si nutriva l’Inquisizione, in un ordinamento moderno è inammissibile. Dopo il rafforzamento del whistleblowing nella disciplina societaria e bancaria americana, con il Sarbanes-Oxley ACT del 2009 successivo ai grandi crac del 2008, anche alcune grandi imprese italiane hanno iniziato ad adottare procedure analoghe nei propri codici etici e statuti. Sicuramente incentivare e tutelare segnalazioni spontaneee di illeciti e prassi scorrette fa parte della necessaria costruzione di una cultura di massa più proclive alla legalità, e di “sanzioni reputazionali” a chi la viola, prima che penali e tributarie. Ma tutto ciò significa costruire una cittadinanza attiva che si esercita alla luce, non coltivare l’insinuazione mascherata che realizza vendette e invidie.

Purtroppo, proprio in materia fiscale lo Stato ha la pessima abitudine di mettere i contribuenti gli uni contro gli altri. Lavoratori dipendenti cotnro autonomi. Percettori di reddito da lavoro contro quelli da capitale. Lavoratori contro pensionati. E via proseguendo. Eviti ora di confondere la tutela di chi collabora con la giustizia con la delazione di massa. Perché quest’ultima è da sempre il sistema con cui autocrazie politiche e religiose hanno allevato sudditi tremebondi, non cittadini consapevoli.

27
Feb
2015

Partecipata canaglia—di Gemma Mantovani

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gemma Mantovani.

Ci sono i cosiddetti stati canaglia, quegli Stati considerati una minaccia per la pace mondiale. E ci sono le partecipate canaglia, una minaccia alla legalità nel nostro paese.
Il tema dell’infiltrazione in gare ed appalti della criminalità organizzata è di grande attualità. Ma non è un argomento solo del presente. Credo però sia indispensabile cominciare a lavorare con la memoria e con i fatti.

Per non dimenticare. Per non dimenticare, ad esempio, che dalla seconda metà degli anni ’90 fino quasi alla prima decade del 2000 in molte città del nord, in Lombardia, Emilia Romagna, Liguria, ecc., grandi società partecipate pubbliche hanno disinvoltamente affidato in appalto la gestione di servizi alla mafia.

Sì, alla mafia.

Per non dimenticare, un nome per tutti: Italia 90. Che dire, ricordando gli scandali di quei mondiali in quanto a mazzette, appalti truccati e la peggior politica coinvolta, già il nome fu profetico. Nasceva come Truddaio S.a.s con sede a Palermo, alla Via dello Spasimo.

L’occasione locale è un contratto di appalto per la gestione dei rifiuti solidi urbani/ingombranti umido/differenziata, ecc.ecc. con servizio di raccolta e trasporto, della durata di 5 anni per alcuni comuni del circondario della provincia per il valore di svariati milioni di euro e affidati con procedura ristretta. L’appalto, come previsto nel contratto stesso, viene interamente gestito coordinato e controllato anche nelle modalità di erogazione del servizio e di pagamento dalla Grande Partecipata del capoluogo.

Nessuna verifica, nessun controllo sulla società affidataria? Nessun dubbio o nessun sospetto?
In fondo, basta navigare un po’, e neppure tanto.

Italia 90 S.r.l. era una società nelle mani di Luigi Abbate detto Ginu u’ mitra, vista la sua abilità con le armi, uomo del mandamento di Palermo Porta Nuova, la figlia Maria, Susanna Ingargiola, Claudio Demma, tutti affiliati con pedigree completo, alcuni di loro finiti poi in carcere all’Ucciardone, con tutti i beni sequestrati.

La società, peraltro, collezionava vertenze di lavoro perché, ovviamente, ca va san dire, non pagava i dipendenti e tutti insieme appassionatamente, amministratori palermitani e sindacati locali a ranghi completi, venivano ricevuti dai prefetti per trovare accordi sulle spettanze non pagate: insomma, il meglio della concertazione.

I nostri comuni riempiono i loro siti di buone intenzioni antimafia, mille protocolli, adesioni a manifestazioni del variegato associazionismo contro le mafie.

Ma è possibile che nessuno si sia accorto dell’“anomalo” affidatario dell’appalto?
Già, le società partecipate, ricettacolo di clientele politiche bipartisan: conviene a tutti tacere.

Vale sempre l’adagio della casta partitica “oggi a me domani a te”. La capacità di spesa, totalmente fuori controllo di questi apparati gestiti secondo le logiche della spartizione politica, fa gola a tutti e, ovviamente, non può non far gola alla criminalità organizzata.

In quegli stessi anni, in una nota società privata multinazionale straniera nel ramo trasporti “saltava” l’intero board italiano per un mero sospetto di infiltrazione della criminalità organizzata in una delle tante società appaltatrici; venivano licenziati e sospesi dipendenti e manager con grande accortezza e prudenza sebbene il caso fu chiuso, archiviato, senza alcuna responsabilità individuata né in capo ai singoli né in capo alla società. Eccesso di zelo? No, serietà.

E dove sono oggi gli amministratori di quelle società partecipate? Hanno dovuto rendere conto di questo? Qualcuno ha indagato o semplicemente verificato quantomeno le ragioni di quelle scelte?

La domanda è retorica. E a volte è purtroppo solo retorica anche l’antimafia. Come la retorica dello Stato che ci protegge: sicuramente dall’infiltrazione nell’economia della criminalità non sempre.

26
Feb
2015

Basta rodei: c’è un interesse nazionale di mercato sulle torri RaiWay, Mediaset e Telecom Italia

Ci sono due modi per guardare all’offerta a sorpresa di acquisto pubblico e scambio lanciata da Mediaset su Rai Way, la società quotata in borsa recentemente in cui sono concentrate le torri di illuminazione del segnale televisivo delle reti RAI. Il primo è quello in cui si butta a pesce la politica italiana, immediatamente riproponendo – il patto del Nazareno, si sa, è finito – il classico schema Berlusconi sì-Berlusconi no. Il secondo è guardare alla vicenda con il punto di vista degli interessi del paese e del mercato. Le due ottiche non sono affatto coincidenti, anzi la prima elide la seconda. Avremmo dovuto impararlo, in vent’anni. Ma si sa, ci sono lezioni dure da assimilare quando l’istinto prevale sulla logica.

Cerchiamo, in maniera non tecnica, di capire i dati del problema. Nella seconda metà del 2014, la Rai in fretta e furia ha deciso di quotare le sue torri in Rai Way, mantenendone oltre il 60% in capo all’azienda pubblica radiotelevisiva. L’ha fatto per tirar su cassa, visto che il governo a sorpresa aveva tagliato 150 milioni dal bilancio corrente 2014 dell’azienda. Autorizzando la quotazione, il governo emanò un decreto della presidenza del Consiglio nel quale si affermava che il 51% dell’azienda doveva restare pubblico. Attenzione, un DPCM non è una legge. Al mercato non si è affatto detto che Rai Way sarà pubblica per sempre. In realtà una quotazione di tal fatta è stata una classica italianata: si è fatto appello a capitali privati per quote minoritarie di un’azienda che ricava il 90% del suo fatturato dalla RAI. Come a dire: caro mercato dacci i soldi, così anche tu ti unirai ai partiti che vogliono la Rai resti com’è oggi.

In realtà, il mercato sa che in Italia esistono due problemi concorrenti, su questa materia. Ruiguarda sia le aziende tv, sia quelle telefoniche. Mediaset ha le sue torri in EI Towers, di cui in aprile 2014 ha ceduto sul mercato il 25% per 300 milioni. La Rai ha le sue in Rai Way. Ogni società telefonica ha le sue. Telecom Italia da 2 anni rinvia la quotazione delle sue sul mercato. Wind, controllata dai russi di VimpelCom, quando Rai Way accelerò la quotazione decise di cederne 6mila su 10mila, e un mese fa ha chiuso l’affare con gli spagnoli di Abertis che ne stanno facendo incetta nel mondo, e hanno offerto ben un miliardo a Wind portandosene a casa 1200 più del previsto (nota successiva del 2 marzo: il closing dell’operazione emerso solo oggi fissa la cifra in 693 milioni per 7377 torri, con una valutazione significativamente inferiore alle indiscrezioni circolanti quando ho scritto).

Il mercato sa che le aziende televisive e le telefoniche se la passano maluccio, sul mercato domestico italiano. E sa che mantenere, per ognuna di esse, le proprie infrastrutture di trasmissione è economicamente un non senso. Non lo è per ciascun proprietario separato, perché ha molti debiti e poco da investire. E non lo è per il mercato italiano in generale: perché un tale sistema impedisce che, mettendo insieme gli impianti nelle mani di uno o due soggetti al massimo ma ben capitalizzati, si realizzi finalmente un’architettura di rete infrastrutturale capace di coniugare lo sviluppo dell’intera offerta di tv e tlc insieme. E’ esattamente lo stesso problema che ci blocca da anni per l’infrastruttura su rete fissa telefonica, con Telecom Italia protesa a difendere allo stremo il doppino in rame, e dunque una banda larga aperta ai concorrenti in fibra ma solo fino all’armadio di Telecom fuori dalle abitazioni – si chiama FTTC – rispetto alla cablatura in fibra fino alle case – in gergo: FTTH. Da anni – vedi l’ultimo scontro la settimana scorsa su quali quote Telecom possa o voglia acquisire salendo in Metroweb rispetto alle telcos sue concorrenti, a F2I e a Cdp – siamo bloccati su questo punto. Cadendo sempre più indietro nelle graduatorie europee del digital divide, altro che chiacchiere continue sull’Agenda Digitale.

Di conseguenza, ecco perché grandi fondi d’investimento internazionali come Blackrock hanno assunto un 10% di EI quando Mediaset ne ha ceduto una quota sul mercato, e un 5% di Rai Way quando la Rai ha fatto la stessa cosa. Anche i fondi esteri sanno bene che il Dpcm di Renzi fissava nel 51% il controllo delle torri pubbliche che deve restare in mani RAI. Ma sanno altrettanto bene che, se e quando l’Italia vorrà darsi soluzioni efficienti in materia di infrastrutture di tlc, siano esse televisive o telefoniche, ebbene quel giorno per forza di cose bisognerà imboccare la via di un’ottimizzazione proprietaria e di gestione degli impianti di illuminazione e trasmissione. Se fosse un soggetto privato a poterlo fare acquisendoli, avremmo tempi più rapidi di ottimizzazione di reti e servizi, ed è ovvio che il sottoscritto sia a favore di tale soluzione. Se invece fosse il pubblico – come pensano alcuni, che da anni invocano una rete pubblica fissa che copra di miliardi Telecom Italia risolvendole il debito e acquisendone la rete fissa (sarebbe la morte di TI) attraverso CDP – ci metteremmo invece se va bene 10 anni, tra infinite decisioni e conrodecisioni dei partiti. Non è un caso che la stssa Mediaset ieri, di fronte al governo che diceva “Rai Way resta a controllo pubblico”, abbia detto “allora fateci voi una proposta per le nostre torri”.  Ma in nessun caso la proprietà e gestione delle infrastrutture “accentrate” impedirebbe o influenzerebbe l’evoluzione dei prodotti e servizi di ciascun player di settore, televisivo e di tlc. Visto che, com’è ovvio, l’accesso agli impianti sarebbe paritario e invigilato dalle autorità di mercato e di settore.

L’Opas lanciata da Mediaset consentirà di imboccare la strada dell’interesse nazionale e di mercato, rispetto all’ennesimo scontro tra ex duopolisti della tv (ex, perché intanto Sky con una logica di puro mercato li fa sempre più neri..) e della politica? C’è da scommeterci: no. Troppo forte è il richiamo della giungla, della coazione a ripetere Berlusconi sì-Berlusconi no che è la sintesi dell’intera Seconda Repubblica. E probabilmente in Mediaset hanno lanciato l’offerta proprio perché con il no si torni a quella vecchia logica. Però l’hanno pensata bene: perché offrendo Mediaset per Rai Way più del 50% più del prezzo di collocazione sul mercato, a dirle no si rischia pure un bel danno erariale…

26
Feb
2015

DDL Concorrenza: Banche

La bozza del Disegno di Legge sulla concorrenza del governo contiene tre articoli – il 23, il 24 e il 25 – che riguardano le banche, anche se pare che altre e più consistenti riforme (riguardanti le Banche Popolari) saranno incluse altrove. I tre articoli sono poco incisivi e riguardano aspetti secondari.

Articolo 23

“Gli istituti bancari e le società di carte di credito assicurano che l’accesso ai propri servizi di assistenza ai clienti avvenga a costi telefonici non superiori rispetto alla tariffazione ordinaria urbana. […]”

L’articolo 23 pone un tetto ai costi telefonici dei servizi di assistenza clienti. Spesso però le imposizioni ex lege di uno sconto su un servizio producono aumenti in altri servizi, e quindi è probabile che l’eventuale risparmio netto sarà trascurabile.

Articolo 24

“[…] sono individuati i prodotti bancari maggiormente diffusi tra la clientela per i quali è assicurata la possibilità di confrontare le spese addebitate dai prestatori di servizi di pagamento attraverso un apposito sito internet. […]”

L’articolo 24 riguarda la comparabilità dei costi dei più diffusi (e omogenei) servizi bancari. Se ci saranno o meno vantaggi per i consumatori dipenderà dalla legislazione accessoria che l’articolo richiede: pubblicare online prospetti informativi non è particolarmente utile per la maggioranza della popolazione italiana, ma per gli altri l’articolo potrebbe consentire scelte più informate riguardo i fornitori di servizi bancari.

Articolo 25

L’articolo 25 è scritto in legalese e consiste in istruzioni da dare ad un editor di testi per modificare un altro testo. Il riferimento è all’articolo 28 della legge n°27 del 2012, e la legge modifica il comma 1 dell’articolo, e aggiunge i commi 1-bis e 3-bis. Abbiamo tradotto la legge in italiano per voi, mettendo le aggiunte tra parentesi graffe ed esplicitando le cancellazioni.

«Art. 28 (Assicurazioni connesse all’erogazione di mutui immobiliari e di credito al consumo). –

1. […] le banche, gli istituti di credito e gli intermediari finanziari se condizionano l’erogazione del mutuo immobiliare o del credito al consumo alla stipula di un contratto di assicurazione sulla vita {, ovvero qualora l’offerta di un contratto di assicurazione sia contestuale all’erogazione del mutuo o del credito}  sono tenuti a […]. Il cliente e’ comunque libero di scegliere sul mercato la polizza sulla vita piu’ conveniente […]

{1-bis Nei casi di cui al comma 1, la mancata presentazione dei due preventivi comporta l’irrogazione […] di una sanzione […]}

[…]

{3-bis. In ogni caso, le banche, gli istituti di credito e gli intermediari finanziari di cui al comma 1, sono tenuti ad informare il richiedente […]. In caso di offerta di polizza assicurativa emessa da società appartenente al medesimo gruppo […]}

Si cerca di aumentare la concorrenza tra prodotti finanziari rendendo più difficile il bundling di mutui e prestiti ad altri servizi finanziari, che possono essere comprati altrove. Specificamente si estende la legge preesistente a più prodotti finanziari, si esplicitano le sanzioni, e si sottolinea la questione delle “società appartenenti al medesimo gruppo”. La formulazione della nuova legge è più generale e quindi ha un maggiore campo di applicazione, e verosimilmente porterà ad un aumento della concorrenza sul mercato.

L’idea sottintesa è che la concorrenza sia prodotta dai consumatori e non dagli imprenditori, anche se nella mia esperienza i consumatori non sono granché proattivi. Questo articolo sembra però il più efficace dei tre nel promuovere la concorrenza.

Nessuno dei tre articoli affronta i problemi strutturali del sistema bancario: la sottocapitalizzazione, gli elevati costi per la clientela, la sovraesposizione ai titoli pubblici, la commistione con la politica per il tramite delle Fondazioni, l’accumularsi dei crediti inesigibili. Alcuni di questi problemi non si possono risolvere ex lege, come la sottocapitalizzazione e i crediti inesigibili; altri sì, al costo però di improbabili sacrifici per la classe politica.

È in discussione una riforma delle Banche Popolari, attualmente in fase di conversione sotto il nome di “Investment Compact”, ma non si parla del tema nel DDL in questione. Lo scopo dell’Investment Compact, almeno a parole, è di affrontare i problemi strutturali del sistema bancario, cosa che il DDL Liberalizzazioni palesemente non fa.

25
Feb
2015

DDL Concorrenza: Professioni

Fra le misure contenute nel pacchetto di liberalizzazioni varato dal Governo, ve ne sono alcune relative ai servizi professionali.

Nel settore della professione forense, innanzitutto, il Ddl elimina il vincolo di appartenenza a una sola associazione professionale: se la norma verrà confermata durante l’iter parlamentare che la attende, gli avvocati potranno pertanto partecipare a più associazioni. Di conseguenza, il Ddl ha anche eliminato l’obbligo di avere il domicilio professionale nella sede dell’associazione di cui si è parte. Read More

25
Feb
2015

DDL Concorrenza: Servizi postali

Il processo di progressiva liberalizzazione che ha interessato i servizi postali dalla fine degli anni ’90 a oggi ha reso possibile, anche in Italia, l’emergere di nuovi operatori in concorrenza fra loro e con l’ex monopolista. Ciononostante, quest’ultimo ha mantenuto un quasi-monopolio de facto su moltissime attività teoricamente liberalizzate grazie al cosiddetto ‘servizio universale’, oltre ad aver usufruito di politiche “generose” che, in questi anni, l’hanno avvantaggiato non poco.

Tra le sacche di monopolio rimaste in capo a Poste Italiane S.p.A., qualche settimana fa l’Istituto Bruno Leoni si era occupato, con un Briefing Paper, dell’esclusiva sulle notifiche degli atti giudiziari e delle violazioni al Codice della strada a mezzo postale, chiedendosi che ragioni diverse dalla consuetudine avesse il permanere della riserva in capo all’ex monopolista e auspicando la prossima rimozione della riserva.

Ebbene, il Ddl concorrenza abroga, a partire dal 10 giugno 2016, l’articolo 4 del decreto legislativo 22 luglio 1999, n. 261, liberalizzando il servizio di notifica a mezzo postale degli atti giudiziari e delle violazioni al Codice della strada. In questo senso, pertanto, la novità è da accogliere certamente con favore: un privilegio – piccolo, ma non insignificante – è stato rimosso e nuovi operatori potranno prestare un servizio con modalità innovative, economie di scala, costi inferiori per i cittadini e per il sistema-giustizia.

Gli interventi del Ddl concorrenza nel settore postale, tuttavia, si fermano qui. Rispetto alla bozza iniziale, pertanto, non può certo ritenersi che si sia fatto abbastanza. Soprattutto, l’impressione che può trarsi dal testo uscito dal Consiglio dei ministri è quella di un esecutivo che, per quanto riguarda il settore postale, non ha avuto il coraggio di affrontare il nodo centrale della mancanza di concorrenza del nostro Paese: l’uso (e l’abuso) del concetto di ‘servizio universale’.

Sarebbe opportuno, in questo senso, escludere tutte le prestazioni di servizi e le cessioni di beni negoziate individualmente dal perimetro del servizio universale (perché, non trattandosi di condizioni standard, non presentano alcun carattere di universalità), così come i servizi di posta massiva e le raccomandate non retail. Come aveva già sottolineato l’Agcom, infatti, tali servizi appaiono non più compatibili con gli obiettivi di inclusione sociale e sostegno alle fasce più deboli dei consumatori cui è sotteso il regime di servizio universale (così come gli invii di posta assicurata, la corrispondenza ordinaria e quella registrata). Mantenere l’esenzione IVA in favore di Poste Italiane per questi servizi, al contrario, continua a limitare fortemente un’equa competizione fra i diversi operatori presenti sul mercato, tanto piu’ che l’esenzione IVA é stata già eliminata in un provvedimento dell’estate scorsa per i servizi negoziati individualmente. Si tratta solo, quindi, di dare piena coerenza all’intervento.

Più in generale, la bozza precedente prevedeva che l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni verificasse con cadenza triennale l’adeguatezza alle condizioni del mercato postale dei contenuti e dei requisiti previsti per il servizio universale, individuando – se del caso – limiti di contenuti e obblighi di qualità da rispettare per il fornitore di tale servizio. Mantenere nel Ddl tale previsione avrebbe costituito un primo passo in una sempre più necessaria riflessione critica sul ruolo e sull’estensione che il servizio universale postale deve assumere in un Paese in cui un mercato concorrenziale appare sempre più idoneo a raggiungerne le finalità, generando solamente benefici per l’utenza finale.