22
Dic
2009

Franco Debenedetti: il private equity non lascia un cimitero

Pubblichiamo questo intervento di Franco Debenedetti, crossposted su Generazione Pro Pro.

Finanza predatrice, secondo Dario Di Vico, quella del private equity: in 10 anni, sotto i suoi “ferri” sarebbero uscite “più macerie che vero sviluppo”. Sotto accusa sono i buy out, cioè le operazioni con cui i fondi comprano imprese, le rendono efficienti con scelte che la proprietà non aveva capacità o volontà di prendere, e le rivendono.

Avrebbero orizzonti temporali limitati: ma il loro mestiere non è costruire conglomerati, bensì smontarli; e se in 3 anni non si riesce a produrre discontinuità, meglio passare la mano. Farebbero ricorso smodato della leva finanziaria: l’equivalenza teorica tra finanziamento in equity e in debito dimostrata da Franco Modigliani, può produrre dolori in momenti di stretta creditizia. Ma la leva media (in Italia di 1,9 volte), è poca cosa rispetto alle operazioni immobiliari a debito che hanno riempito le cronache: le banche han lavorato mesi per risolverle, un private equity mai le avrebbe fatte.

I “barbari alle porte” alla fine degli anni 80 hanno promosso la grande ripresa dell’economia americana. Da noi, Prysmian vale in Borsa più della Pirelli di cui faceva parte; Moncler è stata salvata dal  fallimento; Galbani e Sisal continuano ad andare bene; Morgan Grenfell non riusciva a mettere a posto la Piaggio, ma col successivo cambio di proprietà è ritornata a casa del suo investimento, e ora l’azienda guadagna e cresce.

Nessuno ha detto che sia sempre la ricetta giusta, né che riesca a tutti, né sempre: d’altra parte nessun successo è per sempre. A Di Vico non piace il capitalismo delle grandi famiglie salvato da Cuccia. Non l’OPA alla Colaninno, che non fu private equity, perché il debito rimase in capo all’Olivetti e non alla Telecom, e l’operazione per abbatterlo, approvata dal mercato, fu bloccata da un’inchiesta della magistratura, che poi l’archiviò dopo cinque anni.

Non il private equity: ha operato, scrive, “la più grande operazione di politica industriale del nostro Paese”. Un paradosso, dato che l’”ideologia” del private equity è l’assenza di disegno, sia sulle direzioni dello sviluppo sia sui mezzi atti a perseguirlo. Ma un paradosso rivelatore: da noi “politica industriale” l’hanno fatta solo IRI, ENI ed Efim. Che sia questo ciò di cui anche Di Vico sente la mancanza?

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1 Response

  1. Intervento quanto mai opportuno. In questo momento si tende a fare di tutte le erbe un fascio, ed a criminalizzare ogni e qualsiasi operazione di finanza straordinaria. Anche quelle realmente a supporto dello sviluppo industriale e quelle costruite con un occhio alla produzione, e non alla finanza fine a sé stessa. In parte ciò deriva da scarsa comprensione dei meccanismi finanziari sottostanti le operazioni di private equity, in parte da interessate commistioni a gettar via il bambino con l’acqua sporca, magari per fare qualche favore agli amici degli amici. A quale di queste due categorie possa essere attribuito il pezzo di Di Vico è rimesso alla valutazione dei lettori.

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