5
Lug
2016

Brexit, un seminario on line. Parte 2

Seconda parte dei commenti sulla Brexit. La prima parte è stata pubblicata il 1 luglio scorso.


Il voto del 23 giugno 2016 è stato qualcosa di molto rilevante nella storia europea e credo che un giorno sarà davvero ricordato come la caduta del muro di Berlino dell’Europa occidentale.

Gli inglesi (dico questo perché il voto per uscire dalla UE è prevalentemente inglese) hanno salvato più di una volta il Continente europeo dai tentativi di imperializzazione – da Napoleone a Hitler – e con il voto hanno certificato che anche l’unificazione perseguita per via di accordi fra governi democratici non stava creando un spazio di libertà, ma una gabbia che era solo il paradiso dei burocrati e il fortilizio a difesa delle aree più tassate al mondo.

Dal referendum in poi l’Unione è davvero qualcosa di volontario, un’istituzione ha perso per sempre la sua sacralità, non è collocabile più nell’eden dei valori ultimi, sulla cui appetibilità non si può nemmeno discutere. Il fondamentalismo kantiano, che mirava alla costruzione di una federazione europea e poi mondiale, della quale erano custodi Mario Albertini e Altiero Spinelli – assai caro all’eurocrazia bruxellese – registra la sua definitiva sconfitta: le istituzioni europee sono costrutti umani per gestire convivenze umane. E come tali vanno valutate.

L’Unione è caduta sulla terra, e le grida di dolore dei suoi mille e mille piccioni viaggiatori che diffondono, alla monti e sinvergüenza, il verbo della decisione elitaria contro la volontà dei popoli, ne è la prova provata.

L’entità sacrale che chiamiamo Unione godeva di enorme prestigio per un solo fatto: ha sovrinteso un lungo periodo di pace in Europa. Ma la pace è stata garantita prima dalle armate americane e poi dalla liberalizzazione dei commerci.

Ecco, proprio su questo punto l’Europa politica ha mostrato la sua fragilità: non è mai riuscita a liberalizzare i mercati neanche a livello continentale. Forse non poteva farlo, perché non è mai stata altro che il cartello degli Stati nazionali, ma i popoli europei si aspettavano prima o poi enormi vantaggi in termini di concorrenza, fisco, prodotti a buon mercato. Viaggiando gli europei si accorgono che gli americani son ricchi il doppio e hanno prezzi delle merci che sono la metà o un terzo di quelli europei. Il grande spazio non è stato per nulla liberalizzato e la macchina europea è vista per quello che è. Un enorme apparato sovranazionale, una macchina disfunzionale, che drena e distrugge risorse proprio come i governi.

L’Unione europea è un progetto vecchio, ottocentesco: il tentativo di innalzare la logica degli Stati nazionali a livello continentale. La Brexit pone fine a questa possibilità anche nella sua forma più realistica: un protettorato franco-tedesco sul continente.

Luigi Marco Bassani
Luigi Marco Bassani è Professore di storia delle dottrine politiche, Università di Milano


Molti sono stati I motivi che hanno indotto 17 milioni di britannici a votare per la Brexit nel referendum della settimana scorsa.

L’immigrazione ha rappresentato una questione rilevante. L’economia britannica sta crescendo, a differenza che nel resto d’Europa e il salario minimo è più o meno il doppio o il triplo di quello in Romania e Bulgaria. La Gran Bretagna è in genere molto accomodante con gli immigrati e l’inglese è una seconda lingua per tutti. Per questo la libertà di movimento ha causato una considerevole impennata della popolazione, alla quale le autorità hanno cercato di imporre un tetto, con il risultato che le imprese si lagnavano di non poter assumere dipendenti di talento da paesi non appartenenti all’Unione Europea.

La sovranità è stata un altro motivo importante. In Gran Bretagna esiste una forte tradizione liberale, fondata su un concetto permissivo: se non esistono regole che lo proibiscono, puoi fare quel che più ti piace. La tradizione nel continente europeo, viceversa, tende a ritenere che sia necessario disporre di regole prima di poter fare alcunché. Per questo il Regno Unito ha visto la propria tradizione di common law spodestata da una pioggia di normative “europee” ma, con la sua radicata tradizione liberale e parlamentare, che precede anche la Magna Carta del 1215, la Gran Bretagna non ama che siano altri a promulgare le sue leggi.

Nella tradizione britannica le leggi erano poche, emanate solo quando era strettamente necessario e quindi facilmente comprensibili, bene applicate e diligentemente rispettate. Viceversa, in Gran Bretagna la gente vede che l’Unione Europea crea un enorme volume di leggi inutili che il nostro paese applica diligentemente, ma che altri Stati membri violano senza troppi scrupoli. Ad esempio, gli ispettori del Regno Unito applicano rigorosamente la normativa UE sulla pesca, ma I pescatori britannici lamentano il fatto che I loro concorrenti spagnoli non subiscono la medesima pressione, anzi, beneficiano addirittura di sussidi. Il risultato è stato il crollo del settore britannico della pesca.

Considerando che il settore dei servizi finanziari interessa circa un quinto dell’economia britannica, vi era motivo di nutrire timori analoghi. Londra è l’unico centro finanziario autenticamente internazionale nell’Unione Europea e ritiene di avere il diritto di gestire il proprio funzionamento, anziché vederlo alla mercé delle trattative tra 27 altri paesi, molti dei quali non hanno alcuna esperienza in materia di servizi finanziari e alcuni dei quali bramano una fetta del suo giro d’affari.

Vi è un’altra sensazione profondamente radicata in Gran Bretagna: quella di essere fondamentalmente una nazione di commerci (giacché le sue risorse naturali sono poche) e di avere la missione storica di diffondere I valori liberali, la democrazia costituzionale il libero scambio in tutto il globo terrestre. I suoi sforzi sono ostacolati dal protezionismo dei partner della UE. La Gran Bretagna potrebbe concludere agevolmente un trattato di libero scambio con la Cina, ad esempio, ma deve affidarsi all’Unione Europea, che subisce le pressioni dei coltivatori di pomodori italiani e di altri gruppi.

Fondamentalmente la Gran Bretagna non pensa che I benefici economici (certamente concreti) dell’appartenenza all’Unione Europea compensino I costi politici. Per usare le parole della campagna per il “leave”, vuole riprendere il controllo da una burocrazia non eletta e irresponsabile. L’unico modo per farsi rispettare dai politici, pensa la popolazione britannica, è mandarli a casa, cosa che essa fa spesso e volentieri.

Eamonn Butler
Eamonn Butler è Direttore dell’Adam Smith Institute


Brexit e la crisi finanziaria hanno la stessa identica origine: la velleitaria ambizione di burocrazie ben intenzionate ed altamente qualificate di controllare sistemi dinamici complessi popolati da agenti con conoscenze imperfette e proni all’errore. Loro stessi inclusi, ovviamente.

Per tranquillizzare i mercati dopo il voto, Mark Carney, governatore della Banca d’Inghilterra, ha affermato che i requisiti minimi di capitale sono oggi dieci volte più alti che prima della crisi finanziaria. Con ciò ammettendo che la minuziosa e vessatoria regolamentazione bancaria, che già prima della crisi aveva raggiunto picchi mai visti prima, era tutt’altro che prudenziale ed era condizione più che sufficiente per scatenare la crisi finanziaria.

Carney ha forse retoricamente esagerato un po’, ma non molto: il capitale minimo imposto alle banche era da 1/6 a 1/8 di quello che gli hedge funds, non regolamentati, avrebbero liberamente avuto a parità di rischio. La reazione stizzita delle autorità alla crisi finanziaria è stata corale: senza alcuna autocritica hanno imposto più regole a tutti. A cominciare dagli hedge funds che con la crisi c’entravano nulla e che vi erano sopravvissuti decentemente senza bisogno degli aiuti dei contribuenti che sono stati necessari per salvare le banche e nascondere la responsabilità dei regolamentatori.

La stessa reazione stizzita la stanno avendo le autorità europee a Brexit. A cominciare da Junker la cui minaccia, il giorno prima del voto, di punire i cittadini inglesi in caso di Brexit ha probabilmente spinto gli indecisi a votare per uscire da un club degenerato al punto da non saper proporre migliori ragioni per restarne membri.

Il mercato comune è un’unione doganale per imporre tariffe ai paesi terzi, la libertà di prestazione di servizi è un mito evanescente quanto l’unione bancaria, la libertà di movimento dei capitali un lusso riservato ad investitori istituzionali ma negato ai privati, l’unione fiscale uno strumento per uccidere la concorrenza che sola può contenere la capacità di spesa di politici che comprano il consenso coi soldi altrui.

L’europa si salverà solo se ripenserà la sua governance in tutti i campi. I mercati, come le burocrazie, sbagliano sempre. Ma chi opera da agente responsabile ed autonomo sul mercato ha tutti gli incentivi a riconoscere e correggere appena possibile i propri errori. I politici ed i burocrati, invece, quando riconoscono propri errori perdono il posto. Come David Cameron, Boris Johnson, Nigel Farage e forse anche Jeremy Corbyn.

Antonio Foglia
Antonio Foglia è economista e banchiere, vive e lavora a Londra


L’esito del referendum sul Brexit rappresenta certamente un “game changer” per l’evoluzione delle dinamiche istituzionali ed economiche del continente europeo.

La scelta operata dai britannici non è priva di rischi, ma deve essere seguita con attenzione e rispetto, perché ha il merito di mettere in concorrenza quello che per molti anni la politica mainstream ha prefigurato come l’unico percorso possibile per l’Europa.

I problemi dell’Unione Europea, nei fatti, sono molti. I principali si chiamano dipendenza ed azzardo morale.

I tassi bassi garantiti all’interno dell’Eurozona hanno consentito a molte classi politiche nazionali di espandere il debito pubblico, privilegiando la logica del consenso a quella del risanamento.

La prospettiva, da più parti auspicata, di un’ulteriore integrazione politica volta a instaurare, per passi successivi, una vera e propria “democrazia europea” rischia di creare incentivi sempre maggiori a politiche di breve periodo. Del resto, a mano a mano che la dimensione verticale prenderà il sopravvento sulla dimensione orizzontale, verrà meno il potere negoziale dei paesi più “virtuosi” e si replicheranno a livello continentale le dinamiche disfunzionali che oggi sussistono tra Nord e Sud Italia.

In questo contesto il Brexit apre una straordinaria finestra di opportunità per un’idea diversa di Europa, all’insegna dei principi del libero scambio e della concorrenza fiscale e normativa, facendo così chiarezza su uno dei più grandi malintesi degli ultimi decenni – la sovrapposizione tra i concetti di integrazione economica e di unificazione politica.

È una fortuna, da questo punto di vista, che alla testa della campagna per il Leave ci siano state personalità con un chiaro orientamento pro-mercato e pro-globalizzazione, lontane anni luce dell’antieuropeismo populista in voga in altri paesi. Ed è una fortuna il fatto che il primo paese ad esplorare la strada della fuoriscita dall’UE sia proprio quello che vanta le più indiscusse credenziali per quanto riguarda il rispetto del “rule of the law” e del concetto occidentale di civiltà.

Evidentemente sussistono tutte le condizioni affinché la transizione verso il nuovo assetto possa essere ben governata e quindi il Regno Unito possa affermarsi come una “success story”.

Se così sarà, è possibile scommettere che la tendenza europea dei prossimi anni sarà nella direzione della decentralizzazione e del pluralismo istituzionale.

Marco Faraci
Marco Faraci scrive per “the Fielder”


Il Regno Unito non ha conosciuto nessuno dei mali che vengono spesso attribuiti all’Europa. Non fa parte dell’Euro e ha attuato una politica monetaria molto espansiva ben prima che lo facesse la BCE, non ha mai avuto l’austerity, ha fatto le riforme strutturali ai tempi della Sig.ra Thatcher, molti anni prima che diventassero patrimonio comune dell’Unione Europea. Checché ne dica Paul Krugman, in Inghilterra l’austerity non c’è mai stata: la politica di bilancio del Regno Unito è stata pressoché identica a quella degli Stati Uniti. Durante la crisi, il disavanzo ha raggiunto in entrambi i paesi il 10% circa del Pil per poi scendere, più rapidamente negli Stati Uniti: ancora nel 2015 il disavanzo risultava più basso negli Usa (3,7%) che nel Regno Unito (4,4%). Dietro a questi dati ci sono tassi crescita dell’economia positivi e sorprendentemente simili. Entrambi i paesi hanno superato la crisi nel 2010 e da allora (2010-2015) hanno avuto un tasso di crescita medio quasi identico (2,1% gli Usa, 2,0% il Regno Unito). Nel 2015 la disoccupazione si è collocata al 5,3% negli Stati Uniti e al 5,4% nel Regno Unito.

Non ha dunque alcun senso il dibattito che si è sviluppato nei giorni scorsi in Italia e in altri paesi della cosiddetta “periferia”. L’ortodossia tedesca, posto che abbia davvero un ruolo in Europa, non c’entra nulla con le scelte degli elettori britannici. C’entrano invece il tema dell’immigrazione, che è stata la chiave della campagna per il Leave, e il fatto che nel Regno Unito – come in tanti altri paesi – l’Europa è diventata il capro espiatorio di tutti i problemi domestici. Il paradosso è che all’Europa sono state attribuite le colpe di scelte, come l’apertura alla libera circolazione delle merci, dei capitali e delle persone, che il Regno Unito aveva fatto prima degli altri e in piena autonomia. Non solo: il Regno Unito ha dato un contributo fondamentale affinché quelle scelte – che sono i pilastri nel mercato unico – diventassero patrimonio comune dell’intera Europa. Proprio per questo la Brexit preoccupa. Il paese più aperto e liberale d’Europa ha fatto una scelta di chiusura, ha ribadito che i confini nazionali, quelli definiti nel XIX secolo, sono ancora quelli che contano, quelli entro i quali si definisce la sovranità. Pensavamo che l’esperienza delle chiusure reciproche degli anni trenta del XX secolo e dei drammi che si sono poi succeduti sarebbero stati sufficienti ad immunizzarci dal rischio di ritorni nazionalisti. L’esperienza del referendum britannico e l’ascesa in tanti paesi di movimenti populisti, che sono tutti, più o meno apertamente, nazionalisti e anti-liberali, ci dice che non è così.

Giampaolo Galli
Giampaolo Galli è economista e Deputato del Partito Democratico


L’esito del voto sulla Brexit ci permetterà di stabilire in quali settori la maggiore flessibilità e decentramento prodotti dall’uscita dall’Unione Europea produrranno benefici superiori al costo di perdere le “quattro libertà” promulgate dalla UE e le sue barriere costituzionali contro il malgoverno.

Politica Comune della Pesca
A detta della maggior parte degli analisti, la Politica Comune della Pesca è inefficace, burocratica e dannosa (PDF). Adottando il principio di parità d’accesso dei pescherecci di ogni Stato membro nelle acque degli altri componenti dell’UE, ha esacerbato la “tragedia dei beni comuni”, che tende a provocare l’esaurimento delle risorse ittiche. La quantità di pescato, così come l’entntà delle flotte da pesca, del Regno Uniti sono in continuo declino da anni. In effetti, il settore della pesca ha rappresentato uno degli argomenti più convincenti, emotivamente e intellettualmente, per la Brexit.

Uscire dell’Unione Europea permetterà alla Gran Bretagna di riportare la gestione delle zone di pesca al livello locale, permettendo così di far rispettare I diritti di proprietà collettivi e garantire in tal modo una gestione più sostenibile delle risorse ittiche. Ci possiamo attendere che dopo la Brexit questo settore subisca ripercussioni complessivamente positive.

Politica Agricola Comune
La PAC assorbe il 40 per cento del bilancio dell’Unione Europea e impedisce (PDF) la crescita delle dimensioni medie delle aziende agricole europee, la modernizzazione delle produzioni e gli investimenti in tecnologie sostenibili. Ma I sostenitori della Brexit hanno promesso il mantenimento dei sussidi agricoli e la lobby agricola sta già facendo pressioni sui politici affinché niente cambi. In questo campo, non si prevedono mutamenti sostanziali.

Regolamentazione finanziaria
Per diversi motivi, è improbabile che dopo la Brexit si materializzi la tanto esaltata liberalizzazione dei servizi finanziari. Innanzitutto, sebbene l’Unione Europea rivesta un ruolo significativo nel disegno e nell’attuazione delle normative del settore finanziario, la realtà è che la maggior parte della legislazioni in questo campo viene determinata a livello internazionale, per il tramite di organismi quali la Banca dei Regolamenti Internazionali e il Consiglio per la Stabilità Finanziaria.

In secondo luogo, l’antipatia nei confronti dei banchieri generata dai salvataggi del 2008, insieme alla campagna mediatica contro I salari eccessivi dei dirigenti di questo settore, faranno sì che le politiche in materia finanziaria cambieranno meno di quanto non si creda. Terzo, la natura del settore finanziario britannico, per il quale l’Unione Europea rappresenta una componente di attività alquanto consistente, fa pensare che, per mantenere la posizione di Londra, sarà necessario perseguire l’equivalenza funzionale delle normative.

Scambi e globalizzazione
È vero che la Brexit permetterà alla Gran Bretagna di concludere autonomamente trattati commerciali, senza dover venire alle prese con 28 interessi nazionali diversi. In questo senso, la Brexit agevolerà le trattative in merito a nuovi termini di scambio. Tuttavia ciò avverrà in un contesto di barriere commerciali crescenti (secondo la WTO, in tutto il mondo si erigono in media 21 barriere al mese: PDF) e di un’opinione pubblica senpre più estraniata dall’idea di globalizzazione. Come membro dell’Unione Europea, il Regno Unito faceva parte di uno dei più importanti blocchi del mondo favorevoli al libero scambio. Pertanto le conseguenze negative dell’uscita della Gran Bretagna per le politiche commerciali della UE e per gli scambi globali potrebbero superare gli effetti positivi dell’indipendenza.

Politiche dell’immigrazione
Nel Regno Unito vivono 2,9 milioni di cittadini di altri paesi della UE, che contribuiscono per 20 miliardi di sterline alle casse pubbliche e per altri miliardi al settore privato, tanto come consumatori, quanto come produttori. La libertà di movimento nell’Unione Europea, quindi, ha rappresentato un enorme beneficio economico per la Gran Bretagna. Nondimeno, attualmente pare che vi sia un ampio consenso alla sostituzione del sistema attuale con un sistema di immigrazione a punti, in base al quale le autorità decideranno ciascun anno quali lavoratori stranieri sono adatti e necessari all’economia britannica. Ciò equivale ad una pianificazione centrale dell’immigrazione ed è verosimile che ciò abbia conseguenze altrettanto negative della pianificazione in altri settori dell’economia e della società, risultando così peggiore delle politiche attuali.

Un Regno Unito post-Brexit dovrebbe mantenere la libertà di movimento da e per l’Unione Europea, combinandola con una liberalizzazione delle politiche migratorie nei confronti del resto del mondo. Ma nelle attuali condizioni ciò appare improbabile.

Alcuno sostenitori della Brexit favorevoli al libero mercato hanno sostenuto che l’uscita della Gran Bretagna dalla UE rappresenti un’opportunità per rendere il nostro paese un’economia più liberale e globalizzata. Questo non è vero. I problemi economici della Gran Bretagna (la scarsità di alloggi, la spesa eccessiva dello Stato, un sistema sanitario carente) hanno cause completamente interne, ed è qui che riforme miranti alla libertà di mercato avrebbero potuto produrre significativi progressi. Si tratta, tuttavia, di riforme che avrebbero potuto tranquillamente essere attuate a prescindere dell’esito del voto sulla Brexit.

Diego Zuluaga
Diego Zuluaga è Research fellow dell’Institute of Economic Affairs


Parafrasando quanto Gaber diceva di Berlusconi, io non temo la Brexit in sé, ma in me. Non sospetto che il Leave (in cui hanno avuto parte determinante motivi apertamente xenofobi) preluda alla “fascistizzazione” del Regno Unito. Comunque finiscano i negoziati con Bruxelles, l’Inghilterra non diverrà una sorta d’Ungheria d’oltre Manica, ma rimarrà un Paese aperto e cosmopolitico e indissolubilmente integrato al destino europeo. Quel che più temo è che il Leave suoni alle orecchie continentali, a partire da quelle francesi e italiane, come una sorta di “liberi tutti” e una garanzia di free riding in un’Europa che, per citare un altro molto di sinistra, chieda a tutti (gli stati) secondo le loro possibilità e riconosca a tutti (gli stati) secondo i loro bisogni. In questo ipotetico paradiso in terra, come è noto, però manca sempre il pollo su cui scaricare il conto.

L’Ue non può diventare una santa alleanza tra paesi che scelgono quale delle quattro libertà costituzionali (la libera circolazione di beni, servizi, capitali e persone) prendersi e quale lasciare fuori dai propri confini. Non può diventare un’Europa à la carte, in cui si privatizzano i profitti e si socializzano le perdite, a partire da quelle politiche. Chi nel Regno Unito (”unito”, si fa per dire) sostiene di voler stare dentro il mercato comune e fuori da tutto il resto finge di dimenticare che il mercato comune non è un’area di libero scambio tra paesi sovrani, ma il prodotto di una costruzione politica, fatta di regole e istituzioni, a cui gli stati membri hanno ceduto e vincolato parte della propria sovranità, proprio per consentire un’integrazione economica che in condizioni “normali” sarebbe stata sacrificata alle ragioni, democraticamente prevalenti, del nazionalismo economico. In Europa, senza l’Ue, non esisterebbe alcuna area di libero scambio. Tornerebbero a esistere le dogane e i politici tornerebbero a fare i doganieri.

Dalla paura dell’idraulico polacco, su cui si schiantò nel referendum francese la Costituzione europea nel 2005, alla paranoia dell’immigrato balcanico che ha trascinato la vittoria del Leave undici anni dopo nel Regno Unito, le ragioni della diffidenza contro la “dittatura” di Bruxelles e del timor panico contro un “super-Stato” europeo hanno un nome abbastanza comune, che non è indipendenza, ma protezionismo. La Leave-mania, che oggi dilaga in Francia e in Italia, e i suoi protagonisti confermano ampiamente questa diagnosi.

Carmelo Palma
Carmelo Palma è Direttore responsabile di
Stradeonline.it


Poco consistente la polemica sulla democraticità del referendum, opposto al metodo parlamentare. La scelta britannica non è stata una monetina lanciata nell’aria. È il risultato non solo di decenni di discussione sull’Europa: è stata il punto di caduta di un modo di sentire nazionale, di un’idea di democrazia, di legittimità o meno del potere. Poteva vincere il Remain o il Leave, ma a decidere sono stati, più ancora che l’economia, l’idea che di sé ha il Regno Unito e la possibilità – negata nella Ue – di licenziare il proprio governo. Non vedo una prevalenza del populismo nel voto del 23 giugno. A mio avviso è da qui che è opportuno partire per cercare di capire cosa succede ora.

Il Regno Unito non si chiuderà, né al business né ai commerci. Sarebbe un tradimento di se stesso, forse più di chi ha voluto uscire che non di chi voleva restare. Soffrirà nel breve ma credo che potrà prosperare nei prossimi anni se il sistema politico saprà dare risposte aperte. Il rischio maggiore è il distacco di una parte delle élite dal resto del Paese, anch’esse prese dalla retorica dell’Europa. Ancora più, forse, di un nuovo referendum scozzese.

Per la Ue le cose saranno più complicate. Soprattutto se il Regno Unito dovesse dimostrare che uscire dalla Ue non è una tragedia. In estrema sintesi, una strada positiva per gli europei continentali c’è: fare come la Gran Bretagna. Non tanto uscire dalla Ue. Ma rinazionalizzare una serie di poteri ora di Bruxelles, ridurre il ruolo della Commissione, rimettere in discussione l’idea di armonizzare ciò che non andrebbe armonizzato. I segni di un movimento in questa direzione ci sono, soprattutto in Germania dove la strada verso “più integrazione” è considerata per ora chiusa. Molti altri insistono però sulla strada opposta: comprensibile, soprattutto per Paesi come l’Italia che sull’Europa (e sulla sua retorica) hanno costruito ideologia, politiche e una classe dirigente. Sarà un confronto nel quale molto si potrà chiarire; oppure che romperà tutto. Il problema, però, è Bruxelles, non Londra.

Danilo Taino
Danilo Taino è 
giornalista del Corriere della sera, corrispondente da Berlino

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3 Responses

  1. Francesco_P

    PREMESSA
    Al termine del seminario online, esprimo alcune mie personali considerazioni, quelle di emerito signor nessuno un po’ vecchio, sperando che qualcuno abbia la pazienza di leggerle.
    Se mai ci fosse bisogno di ricordarlo, in un sistema competitivo la versatilità e l’organizzazione contano più della potenza fisica di soggetti meno flessibili e meno capaci di adattarsi alle nuove situazioni.
    L’economia è un sistema competitivo che si sviluppa secondo una dinamica bottom-up. Ne discende che la flessibilità e l’organizzazione rappresentano dei fattori chiave per raggiungere il successo. Proprio per questi motivi i sistemi dirigisti hanno sempre fallito alla distanza, anche quando hanno prodotto dei rimarchevoli exploit in pochi anni.
    IL LUNGO PERIODO
    Se guardiamo alla Brexit con un ottica di medio/lungo periodo, lo UK, non più frenato dalla melma normativa di Bruxelles, può avere maggiori opportunità di crescita rispetto all’Europa. Peraltro la Gran Bretagna senza i vincoli europei, può rafforzare i rapporti economici e finanziari con i 53 Paesi del Commonwealth, gli USA e il Far East. Ovviamente si tratta di una potenzialità che potrà esprimersi non immediatamente e a condizione di una guida politicamente forte ed economicamente competente. Già oggi il sistema economico d’Oltremanica è il più equilibrato per quanto riguarda l’interscambio commerciale con Paesi UE ed Extra-UE, come si evince dai dati Eurostat. Tutti gli altri Paesi dell’Unione presentano una preponderanza di scambi interni alla Comunità, cosa che renderebbe assai più difficile un’eventuale separazione.
    IL BREVE PERIODO
    Nel breve termine dipenderà molto dall’atteggiamento della UE, che pare intenzionata ad agire in fretta e in modo “imperiale e punitivo”, anche se ciò comporta delle inevitabili conseguenze economiche per i 27 rimanenti.
    L’attuale UE, con il suo castello di regole irrazionali e la asimmetria dei rapporti fra i diversi Stati, sembra proprio perdente nel medio/lungo periodo, a meno che un barlume di saggezza o una “rivolta” di diversi suoi membri non la induca (o meglio costringa) a cambiare nella direzione di un po’ di deregulation e di un maggiore equilibrio nei rapporti fra Stati membri.
    Mentre Bruxelles sembra voler “caricare a testa bassa”, la Gran Bretagna non ha alcuna fretta di agire. Il periodo di due anni per la negoziazione è previsto dal Trattato di Lisbona e parte dal momento della richiesta ufficiale da parte della nazione che vuole abbandonare l’Unione, nel caso specifico non prima di quando sarà entrato in carica il nuovo governo britannico. In questo periodo di moratoria e negoziati, Londra può mettere a punto un piano strategico per compensare le perdite sul mercato europeo e iniziare ad attuare il cambiamento. Il desiderio di Londra è un negoziato lento che partirà in autunno o in inverno. Tempi lunghi sarebbero utili anche per molti dei Paesi rimasti nella UE. Ricordiamoci sempre che l’interscambio commerciale con lo UK non è omogeneo per tutti i Paesi EU e che l’Italia, l’Olanda, ecc., soffrirebbero molto più della Germania e della Francia da una separazione repentina.
    COSIDERAZIONE PERSONALE
    La posizione assunta da Junker, Merkel, ecc., aprirebbe ulteriormente le fratture esistenti all’interno della Comunità. La forzatura del Trattato di Lisbona costituirebbe un precedente grave e allarmante.
    La fretta e la voglia di “potere imperiale” sono sempre cattive consigliere…

  2. Michele

    Luigi Marco Bassani
    Luigi Marco Bassani è Professore di storia delle dottrine politiche, Università di Milano

    Nella tradizione britannica le leggi erano poche, emanate solo quando era strettamente necessario e quindi facilmente comprensibili, bene applicate e diligentemente rispettate

    Non ci credo proprio : mettiamo alla prova l affermazione .
    Sei un abitante di Londra , Manchester , Liverpool : DAVVERO
    si vuole affermare che rapino truffo qualcuno non c e´ un
    poliziotto che arrivi ad arrestarmi ?
    In realta´ l Inghilterra REALE e´fornita dello stesso numero di leggi
    che ha possiede una qualunque nazione dal punto di vista del Codice
    Civile e Penale ! Ho visto video che raccontano dello stesso atteggiamento
    persecutorio che ha la RAI nel chiedere il pagamento del canone RAI ,
    a voler portare un esempio insignificante .

    Eamonn Butler
    Eamonn Butler è Direttore dell’Adam Smith Institute

    la libertà di movimento dei capitali un lusso riservato ad investitori istituzionali ma negato ai privati
    Che cosa dice ? Io ho trasferito in piena liberta´ il mio capitale
    dall Italia a Malta alla Germania ( vivo all estero , sono emigrato prima a Malta
    e poi in Germania ) : che cosa me lo impedisce?

  3. Gianfranco

    Si gira sempre attorno al cadavere, ma mai nessuno che si decida a morderlo. Il che mi ingenera ipernoia.
    Quindi ogni tanto e’ necessario anche un intervento da avvoltoi. Ed eccolo qua.
    Saltero’ i passaggi ovvi, se no la noia peggiora.
    Premessa storica
    L’europa e’ stata fatta dagli stati uniti e dalla russia al termine della guerra. E se la sono spartita a mezzo. Gli interessi economici americani in germania hanno impedito che fosse divisa in 12 province e buttata al macero della storia.
    L’unica nazione con tradizione liberale dalla notte dei tempi e’ l’inghilterra. Il liberalismo non e’ nel DNA europeo. Quindi non e’ nel liberalismo che vanno cercate le origini delle scelte economiche fatte dal 1945 ad oggi. L’europa di francia e germania non puo’ essere liberista, date queste premesse.
    La russia non e’ stata piegata dall’europa ma dall’america.
    Questo ci porta ad una cricca europea di ricconi che si sono trovati l’uovo di pasqua bello scartato: l’america ha vinto la guerra militare prima ed economica poi ed ha lasciato una classe dirigente europea senza nemici e senza nessun merito e senza altra cultura di quella anteguerra.
    Il frutto di questo non puo’ essere una confederazione liberale di stati ma la proiezione della cultura preguerra. Sono le sue ultime manifestazioni storiche, ma ce le dobbiamo sucare cosi’.

    L’unico paese antieuropa puo’ essere solo l’inghilterra, liberale, contro un’europa illiberale e mezza ex sovietica.
    L’impostazione contro cui si scontra la cultura inglese e’ proprio l’europeissimo centralismo presente nel dna gaullista, nazista e fascista e comunista. fenomeni mai presenti in inghilterra.

    Il problema non si porrebbe se la baracca stesse in piedi senza danaro. Quindi i forti, germania in primis, pur di avere la loro confortevole europa, sono disposti a pagare salato mentre i latini e gli slavi hanno motivazioni diverse: i primi ricattano la germania per avere soldi, i secondi sono cosi’ morti di fame dopo il comunismo che sono disposti a vendersi per niente.

    E qui casca l’asino: l’UK, economicamente, era uno dei finanziatori dell’unione. versava molto piu’ di quanto ricevesse. Quindi ora che succede, all’atto pratico? che il fardello di economie fallimentari come quella italiana, greca, spagnola e portoghese, piu’ tutte le pezzenti economie dell’est ha ora un importante finanziatore in meno.

    Quindi le paure si dividono secondo le motivazioni: francia e germania hanno paura di cominciare a pagare troppo, i latini hanno paura che riceveranno meno e andranno in malora, gli slavi hanno paura di rimanere nella fame.
    Le reazioni scomposte degli anti brexit risiedono solo qui e non altrove: uno in meno che paga, conto piu’ salato per tutti.

    Cosa succedera’? Succedera’ che il premier tedesco dovra’ bruciarsi chiedendo finanziamenti ai tedeschi che in cambio vorranno piu’ rassicurazioni ed inasprimenti di tutte le leggi di controllo sui bilanci degli stati immondizia. questo provochera’ tasse e crisi in questi ultimi che, non avendo capito una sega, voteranno per uscire. non l’italia, dove si puo’ alzare la tassazione finche’ si vuole perche’ culturalmente abituata ad ubbidire.
    quindi non saranno le spinte liberali e libertarie a far crollare il sistema, ma quelle centraliste insoddisfatte.

    Nel frattempo la BCE comincera’ a stampare euro a tutta birra, perdendo non sul dollaro, in crisi da anni, ma su tutte le altre valute a partire dallo yen. Aggiungendo crisi a crisi.

    E tutto questo perche’ se vinci una guerra non puoi illuderti di lasciare i territori conquistati a chi non l’ha combattuta e sperare che ne facciano buon uso.

    Ora sfogatevi su ideali, razze, filosofie ed altre puttanate.
    Amen.

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