6
Apr
2010

Borsa Italiana-LSE, la colpa è delle nostre banche

Ha perfettamente ragione Alberto Mingardi. La grande stampa corre il rischio di alimentare l’ennesima polemica a vuoto, sulle recenti vicende che interessano la Borsa italiana. Si è letto infatti che la defenestrazione di Massimo Capuano dal ruolo di deputy ceo del London Stock Exchange, il mercato londinese con cui quello italiano si è fuso nel 2007, sarebbe una storia in cui convergono tre errori: quello dello Stato, quello degli azionisti, e in definitiva quello del sistema-Paese. A scriverlo è stato il Corriere della sera, non proprio un peso leggero nella stampa italiana. E allora forse è il caso di controbilanciare questa lettura con un punto di vista – il nostro – che è diverso

Doveva tenersele lo Stato le azioni di Piazza Affari nel 1998, allorché la legge Draghi pose termine alla società mutuataria tra agenti di cambio? Si comprende che vi sia chi è affetto da nostalgia per un ruolo ancora maggiore dello Stato proprietario, come non bastasse il ritorno in grande stile dello Stato salvatore nella grande crisi 2008-09, che porterà a un’esplosione del debito pubblico nei paesi Ocse. E’ un po’ meno logico che ad alimentare tale atteggiamento sia il primo giornale italiano, tanto più che lo Stato proprietario delle Borse non appartiene in alcun modo alla storia di tale istituzione: in tutto il mondo, ad eccezione naturalmente dei Paesi comunisti.

Sono stati i manager per la loro cupidigia e avidità, ad approfittare della situazione creatasi dopo la fusione con il London Stock Exchange? Sicuramente Clara Furse, la britannica che guidava fino a poco tempo fa LSE, si è battuta per tutelare gli interessi della propria casa madre. Un’azienda, il LSE, che da sempre godeva della rendita di posizione di rappresentare il secondo mercato al mondo “di riferimento” dopo Wall Street, pur a fronte della crescita di Euronext, paneuropea prima e poi collegata al NYSE dal 2007. Per questo Londra non brilla per prezzi bassi e avanzatezza delle sue piattaforme, mentre gli italiani avevano punti di forza proprio nella tecnologia, prezzi più che concorrenziali e uno dei migliori sistemi di post trading. Tuttavia, accusare Capuano di aver in qualunque modo ceduto alla cupidigia dei famigerati manager anglosassoni è del tutto improprio. Per dirla tutta: è una sciocchezza.

Sono stati semmai gli azionisti italiani, a non aver saputo e voluto esercitare un’azione più adeguata. Captano ha sempre ripetuto che, col 29% iniziale, se gli azionisti italiani lo avessero conferito a un unico veicolo avremmo avuto ben altra voce in capitolo. Ma gli azionisti italiani non lo hanno mai fatto. E quando parliamo degli azionisti italiani, dobbiamo chiamarli per nome. Parliamo cioè essenzialmente e prioritariamente delle banche, in primis Intesa e Unicredit. Non lo hanno fatto quando la Furse respinse un’Opa ostile strisciante australiana. Non lo hanno fatto quando il Nasdaq vendette la sua quota londinese, anzi le banche italiane scesero pure loro, attratte dalle plusvalenze. Non lo hanno fatto neppure quando la Furse ha ceduto il posto all’attuale Ceo, che è il francese Xavier Foret e non un perfido inglese. Capuano non ha lucrato patrimoni e non ha usato la sua carica come rampa di lancio per nuovi incarichi profumatamente pagati, tanto che ha sinceramente detto che dopo il suo addio deve ora guardarsi intorno per vedere che fare. 

Il problema, dunque, sono le banche italiane. Non faccio processi alle intenzioni, dunque mi limito solo a richiamare che sono gravate da un ovvio conflitto d’interesse. Nel paese più bancocentrico del mondo – l’Italia appunto – dove gli investitori istituzionali sono debolissimi e in cui anche nel private equity la quota esercitata dalle società di controllo diretto bancario supera quello dei fondi specializzati, è ovvio che gli istituti di credito abbiano un interesse a restare gli interlocutori unici delle imprese come fornitrici di capitale di debito. Ciò aiuta storicamente a spiegare – insieme alla tradizionale resistenza degli imprenditori a superare il controllo familiare – perché sul nostro mercato il numero delle quotate non sia mai riuscito a toccare quota 300, un nono delle quotate britanniche, perché si sia dovuto attendere il 1986 per superare le 180 quotate del 1929, e perché la capitalizzazione di Borsa attuale resti a meno della metà del valore massimo, oltre il 60% del Pil, toccato nel 2001.

Se poi dal giudizio generale di responsabilità delle banche come vere colpevoli dell’immobilismo italiano si passa all’esame del particolare, si scopre che la contrarietà persistente delle banche a unire le quote in LSE deriva dal fatto che il veicolo sarebbe la Sia-ssb, società che gestisce sistemi di pagamento bancari tra cui carte, e che le grandi banche tendono a considerare come concorrente invece che come strumento collettivo.

Coloro che ci rimetteranno ancor di più da questo andazzo saranno le imprese italiane, che avranno costi maggiori di quotazione e transazione da mettere in conto, nel caso in cui vincessero la loro storica renitenza alla Borsa. Inutile dire che le banche azionisti, al contrario, dovrebbero immaginare che l’attuale 18% di LSE è soggetto a ulteriori annacquamenti, non solo perché Dubai e Qatar sommati hanno il 35%, ma perché anche il LSE dovrà in un modo o nell’altro rispecchiare il maggior peso che sui mercati mondiali stanno tumultuosamente assumendo quelli asiatici, per spessore e capitalizzazione. Dunque bisognerà mettere in conto azionisti di quell’area, se si vorrà attirare quotate.

Ma la differenza di fondo è che bisognerebbe guardare a questi processi con decisione e protagonismo, perché le banche italane attualmnte stanno messe un po’ meglio delle britaniche che ne hanno viste 4 nazionalizzate,  e sopattutto perché siamo il secondo paese esportatore d’Europa, e l’ulteriore crescita di un LSE con forza italiana nell’azionariato e governance  servirebbe dunque anche a farci esportare meglio nei nuovi mercati. Invece di guardare alla storia con  tesa rivolta all’indietro, e leggere che sarebbe stato meglio restare da soli e con lo Stato padrone, come si è letto sul Corriere dal quale sono partite invocazioni a Tremonti e al Tesoro.

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4 Responses

  1. claudia provenzano vincentini

    Ma non si può immaginare il passaggio del testimone nell’ottica di una continuità di Capuano da dietro le quinte per chissà quali piani a noi sconosciuti?

  2. Luca Segafreddo

    Egregio dott. Giannino, al fastidio che generalmente provo ogni qualvolta mi ritrovo ad aver a che fare con banche, compagnie telefoniche e compagnie petrolifere (nel senso del semplice pieno di carburante, s’intende), s’accompagna la rassegnazione che nulla e nessuno, nel pianeta terra, possa tener loro testa e l’ineluttabile sensazione che per ogni operazione effettuata, per ogni servizio erogato, l’affare lo abbiano sempre e soltanto fatto loro. Una slot machine ha più anima giacché capita, a volte, che qualcuno ci guadagni. La domanda, da mero ignorante d’economia con la E maiuscola, dopo aver letto questo suo articolo è: ma perché mai dovrebbero cambiare atteggiamento, in generale, le banche italiane? Per una eventuale gallina domani quando loro sono convinti di averla già da una settimana? L’unica nostalgia che possono provare le banche, alla quale riesco ad associarle, è quella della minuscola Repubblica di Venezia che, con i suoi capitali, stringeva alternativamente la mano ed il collo a Costantinopoli mentre, con l’altra, le basse sfere del Sacro Romano Impero, soggiogandoli alla propria volontà. Chissà quante banche del genere già esistono nel mondo. Maggiori costi per le imprese italiane che volessero farsi quotare? Ma questo non rappresenta un problema per gli italici istituti, non sono mica spese loro!

  3. Penso che nella questione ci sia una ulteriore chiave di lettura: le banche si pongono in concorrenza con la borsa non solo nel momento del finanziamento dell’economia, ma anche nella fase di trading.
    Quanto alla fase di trading le borse sono strutture economiche che sono perdenti rispetto a forme più efficienti per i servizi di trading, basti pensare ai fenomeni più recenti come i dark pools.
    Quindi un intermediario può essere poco incentivato a investire in una partecipazione “difficile”

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