29
Apr
2009

Sto con Kobayashi, contro Krugman

Ora che i cento giorni del mitico Obama sono alle spalle e non c’è giornale Usa che non noti come sia troppo presto per capire quale sia davvero il segno della presidenza Usa, a parte una massiccia reflazione davvero senza precedenti e un appeasement generale in politica estera che è riuscito a rilanciare insieme Corea del Nord, Iran, pirati somali e chi più ne ha più ne metta (ora capisco meglio gli amici che in Israele hanno cercato di “pararsi il culo” votando per Lieberman e salutando l’alleanza con Bibi, mentre io avrei forse un po’ ingenuamente votato Kadima…), viene il momento di dichiarare un primo tassello “identitario”, da sottoporre all’attenzione e al commento di tutti voi nostri iniziali lettori. Come la pensate, nella polemica a puntate che sta opponendo il Nobel Paul Krugman a Keiichiro Kobayashi, senior fellow al Research Institute of Economy, Trade and Industry nonché abituale alimentatore del sito voxeu.org? La domanda non è spocchiosa né di quelle che lasciano il tempo che trovano. Perché schierarsi nella controversia significa in realtà esprimere il giudizio più pregnante, tra quelli attualmente possibili, sull’amministrazione Obama. Per gli interessati ad approfondire, qui trovate l’ultima replica alla precedente di Krugman. Per chi si fosse perso le precedenti puntate, in sintesi Krugman difende a spada tratta la spesa pubblica aggiuntiva a tonnellate senza stare troppo a cavillare sul 75% che è destinato a pork barrel, anzi la critica perché ancora insufficiente. Kobayashi ha scritto per primo e continua a ripetere con nuovi argomenti che dieci anni di indebitamento pubblico a go go non risollevarono il Giappone negli anni Novanta, e che i primi segni di ripresa reale arrivarono solo nel 2003 quando infine le autorità si decisero a far fallire qualche banca dopo aver scrutinato dall’interno la qualità degli asset di tutti i maggiori istituti, invece di continuare a coprirne asintoticamente il balance sheet enfiato. Krugman replica che è falso, perché dal 2003 la ripresa giapponese aveva a che fare con la ripresa dell’export trainata dai consumi Usa e non dalla pulizia degli asset tossici. E Kobayashi gli controreplica che proprio quella ripresa dell’export fu resa possibile in realtà da lending bancario che tornava a poter incoraggiare i fondamentali. Che il dibattito non sia affatto teorico, si comprende intuitivamente dal fatto che, per esempio, Martin Feldstein sia a favore degli stress test, delle maxi garanzie pubbliche alle banche e anche della nazionalizzazione di qualcuna a tempo, se necessario, accompagnata dall’aggregazione o dal fallimento di quelle più “tossiche”, ma sia risolutamente contrario al più delle spese pubbliche varate dal Congresso allo scopo non di uscire dalla crisi, ma di realizzare il maggior inspessimento dell’intermediazione pubblica dai tempi della Great Society johnsoniana. Nei primi giorni di maggio capiremo meglio tutti, che cosa Tesoro e Fed ci riservano dopo i risultati degli stress test. Ma la tesi krugmaniana, se abbracciata fino agli estremi, implica per esempio che la temporanea conversione in equity dei k401 dei dipendenti Usa dell’auto in realtà non sarà temporanea affatto, perché prelude invece a una previdenza pubblica di un qualsivoglia diverso tipo ma comunque “europea”. Roba da far cambiare identità profonda all’America, ma partendo dal presupposto che gli americani davvero lo vogliano come modello di società, anche un domani che i consumi riprendessero, cosa che non sono affatto disposto a scommettere prima ancora di non augurarmelo dal profondo del cuore. In definitiva, se plaudo al fatto che la sventurata storia italica ha messo il nostro Paese nelle condizioni attuali di obbligare Tremonti a spendere il minimo di risorse reali tra tutti i Paesi Ocse, è proprio perché penso che Krugman abbia torto e Kobayashi ragione. Quanto poi agli stress test, e a che cosa far seguire loro, ne parleremo in profondità. Intanto vi segnalo un paper che mi è sembrato a oggi il più ricco di analisi comparata, intorno alle caratteristiche dei regolatori monetari e bancari che in questi mesi fanno cose che noi umani mai prima avevamo visto. Si intitola Governing the Governors: A Clinical Study of Central Banks, è di Lars Frisell, Kasper Roszbach e Giancarlo Spagnolo, è un quaderno di studi della Banca Centrale svedese e lo scaricate gratis qui.

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3 Responses

  1. Billy Pilgrim

    Caro Giannino,

    che stranezza vedere che questo articolo va deserto da 24 ore! E’ uno dei problemi dei blog appena avviati: la scarsità di pubblicità e l’overcrowding del mercato di internet, oltreché il vostro rivolgervi ad un trget specialistico (per vedere gli effetti della coda lunga bisogna aspettare significativamente di più rispetto ai lanci commerciali rivolti al grande pubblico) vi portano a spendere i più bei temi del momento subito, per attirare lettori. Ma allo stesso tempo l’effetto visibile che si ottiene è quello di lasciare a zero discussioni tra le più interessanti, come questa.
    Non dispongo di profondi strumenti per provare a schierarmi, se non di un giudizio di fondo:che la libertà del mercato è sacra, ma non può prescidenre dalla precisa regolabilità del mercato. Penso che Krugman stia insistendo su tesi così estremiste e, a mio modo di vedere, scriteriate per ragioni pregiudiazili e per revanscismo politico, e che solo a posteriori sia andato giustificando le sue asserzioni, fabbricando la spiegazione economica e scovando controversi precedenti favorevoli. Mi sembra plausibile che le sue tesi siano nate dopo la nomina di Geithner al Tesoro: era risentito per essere stato escluso da un posto di rilievo nell’amministrazione Obama, proprio quando pensava che i lunghi anni di diametrale contrapposizione a Bush gli avrebbero guadagnato la stima dei liberal obamiani, e fruttato capitale politico sufficiente da vedersi assegnare un posto preminente nel gabinetto del Presidente (o perlomeno da assurgerlo a icona e portavoce esterno della politica economica della Casa Bianca).
    Così non è stato, e Krugman (notoriamente indisponente e vendicativo) si è preparato la sua precisa controffensiva, che da quando ha riscosso successo in un’ala liberal che credevo ormai assopita è diventata anche parte integrante del suo personaggio, tanto che dalle sue colonne non fa che sostenere incessantemente le sue tesi da mesi.
    Personalmente sono per un approccio problematico, non ideologico, alla realtà: e penso che l’amministrazione Obama stia agendo realisticamente entro le sue possibilità, condizionata da Congresso ed opinione pubblica. Anch’io tendo a schierarmi relativamente verso Kobayashi, nel senso che preferirei maggiori scelte drastiche. Quello che mi chiedo, e che chiedo a Lei, è se e come sarebbe possibile scegliere quali siano le banche o le società da lasciar fallire, e quali le solite ‘too big to fail’. Come si discriminano tra le istituzioni quelle più imbottite di ‘asset tossici’, se gli strumenti derivati sono talmente complicati da non essere facilmente contabilizzati, e se ogni istituzione lavora per nasconderli agli occhi del governo e delle agenzie di valutazione?

    Grazie per l’attenzione, e in bocca al lupo per l’ottimo lavoro che state già iniziando a fare su queste pagine.

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