20
Ott
2016

Roma: sul finto salario di produttività la giunta Raggi si gioca la faccia

La retribuzione dei 23mila dipendenti del Campidoglio si candida a essere la prima grande questione su cui misurare il sindaco Raggi.  E’ un problema aperto già da due anni, dovuto ai criteri seguiti dalle giunte che hanno governato Roma dal 2008 al 2014. Quindi è cattiva eredità del passato, su questo non si discute. Ma la sua soluzione tocca a chi governa Roma oggi, dunque in primis al sindaco e all’assessore al Bilancio, Mazzillo. E non è un problema tecnico, perché investe un aspetto centrale del riordino dell’intera macchina amministrativa capitolina.  Da come la giunta vorrà affrontarlo, si capirà quanto intende agire in profondità per voltare davvero pagina rispetto a ciò che va cambiato. La triade di valori da mettere al centro è: efficienza, merito e trasparenza.

Breve sintesi del problema. Ai 23 mila dipendenti capitolini per anni è stato corrisposto come salario di merito una percentuale elevatissima della retribuzione, fino a superarne il 40%, con criteri egualitari che nulla avevano a che fare con metriche di produttività dichiarate ex ante – a livello di dipartimento, di servizio e individuale – e misurate e premiate concretamente ex post, attraverso valutazioni oggettive di risultato. Molti altri capoluoghi italiani seguivano tale andazzo. E hanno negli anni posto rimedio. Roma ha continuato.  Finché nel 2014 è intervenuto l’Ispettorato generale di Finanza del MEF, intimando al Campidoglio un perentorio stop a tale prassi. Il Ministero dell’Economia ha di conseguenza quantificato in 340 milioni di euro, i salari di finto merito illegittimamente corrisposti e da recuperare. Non attraverso tagli diretti ex post ai salari degli stessi lavoratori, bensì tramite economie di gestione del Comune.

E’ ovvio che la ridefinizione di criteri di merito e produttività “veri”, da proporre a sindacati e lavoratori, sia il punto di partenza dell’intero disegno di riefficientamento e di equilibrio finanziario della macchina amministrativa capitolina nel suo complesso. E poiché la questione è stranota da anni, c’è stato tutto il tempo di pensarci e di apprestare uno schema di soluzione, da parte di chi si è candidato a guidare Roma dopo i lunghi mesi seguiti alle dimissioni dell’ex sindaco Marino.

A giudicare dalle cronache di questi ultimi tre giorni, si direbbe invece il contrario. Il sindaco Raggi ha avuto a palazzo Chigi un incontro con il sottosegretario De Vincenti nel quale ha avanzato la proposta che quei 340 milioni da recuperare per il “merito a pioggia” siano scalati dai 440 milioni di risparmi di spesa a cui Roma è tenuta dal piano triennale di riequilibrio strutturale del bilancio, come corrispettivo ex post dei decreti salva-Roma. La risposta del governo è stata improntata a un più che comprensibile gelo. Non spetta al governo ma alla giunta romana, ha detto De Vincenti, entrare nel merito di come recuperare i 340 milioni e di come ricondurre il salario di risultato alle finalità vere, e ai corretti limiti quantitativi che esso deve avere sul totale della retribuzione. Ma una cosa è pressoché certa. Se la giunta formalizza davvero la sua intenzione di scalare i 340 milioni dai 440 di risparmi dovuti ad altro titolo, il MEF boccerà la proposta.

Diciamolo con chiarezza. Non c’entra niente l’ipotesi di uno scontro politico, tra giunta pentastellata e governo Renzi. In ballo c’è invece una questione di elementare equità, nei confronti di tutte le altre città italiane. Che non hanno goduto dei salva-Roma, e di 18 miliardi di debito segregati dal bilancio ordinario e affidati in gestione commissariale, e che anzi hanno risolto negli anni alle nostre spalle le anomalie del “finto” premio alla produttività.

Certo 340 milioni non sono pochi, in un bilancio che continua ad avere una tendenza strutturale al miliardo di squilibrio sui poco più di 5 complessivi. Ma il limite asfissiante da superare per l’equilibrio dei conti è proprio l’inaccettabilmente bassa propensione della troppo trascurata macchina amministrativa comunale a generare entrate ordinarie proprie, a prescindere dai trasferimenti statali e dalle imposte, che sono già ai livelli massimi nazionali. Per ottenere tale risultato l’intervento da fare su dirigenti e dipendenti è proprio quello di una corretta soluzione alla retribuzione di merito.

Piuttosto, non vorremmo che l’elemento frenante fosse un altro, rispetto all’indecisione su come effettuare risparmi. E cioè il facile consenso dei dipendenti e dei sindacati. E’ ovvio che ai sindacati piaccia l’ipotesi avanzata dalla Raggi a palazzo Chigi. Ma è altrettanto ovvio che la giunta capitolina dovrebbe invece far leva su una energica svolta capace di individuare e premiare davvero coloro che, in Campidoglio e nei Municipi come nelle società controllate, in tutti questi anni non si sono assuefatti a prassi collusive che dall’assenteismo sfociavano in vere e proprie violazioni a catena del codice penale e degli appalti.

Grillo disse nel novembre 2015 che i romani erano avvisati: in caso di vittoria dei 5 stelle “i precisi e i perfetti non hanno nulla da temere”, ma quanto agli altri non sarebbero mancate misure tali da sfociare in polemiche e proteste. Nella campagna elettorale, la Raggi ha sempre ripetuto che i risparmi non si dovevano fare sui dipendenti. Ma delle due l’una. O le misure di razionalizzazione profonda arrivano, e arrivano ora, per realizzare i 340 milioni da recuperare i finti salari di merito. Oppure non penalizzare i dipendenti – è giusto, non erano loro ma la politica a decidere come erano pagati – diventa lo scudo per mantenere le cose come stanno. La seconda scelta è un errore profondo, quanto di più vecchio e collusivo la politica dei partiti che hanno sgovernato Roma già per troppi anni ha disastrosamente praticato.

Molti altri sono gli elementi che si stanno appesantendo, nei conti di Roma. A cominciare dai deficit delle maggiori partecipate, e da quello ATAC che potrebbe superare nel 2016 i 100 milioni, rispetto ai meno di 50 previsti.  E non si comprende come, a fronte di questo, la giunta escluda – apertamente o tramite mezzucci, vedi la recente delibera sull’eventualità che al subentrare eventuale di soggetti privati nei contratti di servizio messi a gara, rispetto alle attuali municipalizzate, spetti ai subentranti assumersi i debiti del concessionario precedente – che almeno in parte soggetti privati possano concorrere al risanamento e all’efficientamento finanziario e gestionale dei servizi pubblici.

Ma il nuovo salario di produttività e il recupero delle somme indebitamente spese vengono prima di tutto. Ciò che ha spinto i romani a votare per una svolta è, appunto, l’aspettativa di una svolta vera. Non di un giochino di terz’ordine sui conti.

 

 

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2 Responses

  1. Beppe

    Giannino, non ho compreso se lei faccia finta o meno. La cosiddetta maggioranza di svolta è stata votata da moltissimi sindacati capitolini e moltissimi lavoratori del comune e delle partecipate proprio per mantenere intatti i loro privilegi. Insieme ai bancarellari, taxisti ed altre corporazioni che dal Governo comunale ricavano il rispetto delle loro regole di favore e deroghe. Come tutta questa costituency possa favorire la svolta è’ chiaro a lei, forse. E intanto noi paghiamo il massimo di Irpef ed altre amenità per servizi da mondo antico. Faccia un po’ lei.

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