28
Dic
2009

Ripresa, infrastrutture, Italia e rebus Cina

Una delle voci che più contribuiranno alla ripresa mondiale, dicono l’OCSE e molti report di banche d’investimento, è quella delle infrastrutture. Ho provato a sintetizzare un vasto pacco di recenti previsioni, da Goldman Sachs a Credit Suisse. Nel farlo, ancora una volta ci si rende conto che Usa, Eu ed Asia marceranno a ritmi diversi. Noi, poi, come Italia intendo, a ritmi sicuramente inferiori agli altri.  Ma partiamo dalla domanda essenziale: quando la domanda di infrastrutture realizza picchi verso l’alto? Storicamente, per quattro ragioni molto diverse.

La prima avviene quando un Paese in via di sviluppo passa da un basso livello di Pil procapite a un livello elevato: e, in tal caso, per due ordini di fattori concomitanti; il primo è che limitate capacità di traffico o basse dotazioni e alta efficienza delle utilities vengono giustamente identificati come colli di bottiglia per ulteriori consistenti livelli di crescita, come ostacoli che limitano le aziende da espansioni che sarebbero invece alla loro portata finanziaria e organizzativa; il secondo fattore ha a che vedere con i più elevati livelli di domanda che vengono direttamente dalla popolazione, al crescere del suo reddito procapite.

La seconda ragione è invece in relazione all’intensità e alla crescita del commercio mondiale. Più cadono le barriere daziarie e amministrative al traffico di merci, più occorre un backbone efficace di porti, strade, ferrovie, e intermodalità tra le diverse componenti. Un anno fa, a fronte di una caduta del commercio mondiale a doppia cifra dopo poche sole settimane dal fallimento di Lehman Brothers, tutti si interrogavano sulla prospettiva di uno stop strategico della globalizzazione impetuosa che avevamo conosciuto nel decennio precedente: quella che aveva segnato un aumento senza precedenti dei beni esportati e importati sul totale del Pil planetario, da poco più del 20% solo nel 1990, al 47% nel 2005. La grande paura è passata. Nel senso che la rifocalizzazione della ripresa nel Pacific Ring, tutta centrata sulla Cina, ci “obbliga” e pensare che la globalizzazione non solo non si è fermata ed anzi la ripresa c’è solo grazie ad essa, ma che essa continuerà a ritmi altrettanto impetuosi, se solo Ue e USA non perderanno l’autobus della propria razionalizzazione produttiva e diminuzione dei debiti. Direi che gli Usa hanno impetuosamente imboccato la prima strada rispetto all’Europa, vista la produttività assolutamente stellare degli ultimi due trimestri connessa a massiccia espulsione di manodopera: ma entrambi stiamo messi malino, quanto a debiti.

La terza ragione di picco della domanda di infrastrutture è connessa ai massicci programmi di stimolo pubblico, ai quali le economie anche molto avanzate ricorrono in caso di recessione. Esattamente come avviene o dovrebbe avvenire oggi in Usa e UE. Quando dico “dovrebbe avvenire” penso alle enormi difficoltà del nostro Paese a imboccare tale strada, malgrado il disastro quotidiano infrastrutturale che è sotto i nostri occhi, e per il quale vi rinvio all’editoriale di apertura. In ogni caso, anche sotto questo profilo è la Cina nel 2010 a guidare la classifica, visto che alle infrastrutture- oltre che alle tecnologie “verdi” – sono devolute larga parte dei 586 miliardi di dollari del suo intervento straordinario pubblico di sostegno alla domanda varato nel 2009. Tanto per fare una sola cifra, le Expressway ferroviarie “alla occidentale” che in Cina solo nel 2000 hanno superato i 10 mila chilometri, per superare i 20 mila nel 2003 e i 40 mila nel 2006, nel 2009 hanno superato d’un balzo i 60 mila, e l’obiettivo è di 85 mila nel 2020 e di 120mila nel 2030! A questo proposito – per inciso – quella cinese è la seconda incognita del dopo crisi. Ma mentre quella dei debiti del mondo anglosassone è l’incognita a breve per la loro ripresa, quella cinese è un’incognita di medio lungo periodo. Nel 2009 – anno di contrazione record della domanda navale mondiale, con un pauroso meno 74% di ordini di navi nuove – la Cina ha superato nel portafoglio ordini la Corea del Sud, col 44% del mercato mondiale rispetto al suo 17%, ed entro tre anni potrebbe aggiudicarsi più del 50% degli ordini mondiali navali. Nel 2010, la Cina diverrà la seconda potenza economica mondiale dopo gli USA, superando per Pil – a prezzi di mercato – il Giappone. E diverrà il primo Paese esportatore al mondo, con una quota pari al 10% del commercio mondiale raggiunta solo dal Giappone al suo massimo, nel 1986. Nel caso della Cina oggi tanto trionfante, la domanda di medio periodo è quanto la sua crescita possa continuare ai tassi pari o superiori al 10% annuo – che mantiene da 30 anni! – ora che è diventata così “pesante” in termini di volumi, prima che il suo sistema bancario e finanziario vadano in bolla e destabilizzino il tutto. Anche per la Cina il Giappone è la lezione da tenere ben presente, visto che 30 anni fa tutti pensavamo del Giappone ciò che oggi pensiamo della Cina, e cioè che entro 20 anni avrebbe superato gli USA: ma la storia è andata diversamente, come sappiamo.

La quarta ragione, infine, del picco infrastrutturale è connessa all’aumento della popolazione. Sotto questo profilo, con buona pace di Giovanni Sartori e dei malthusiani vecchi e nuovi, ai ritmi attuali supereremo 7 miliardi di abitanti del pianeta nel 2010 o al più nel 2011, gli 8 miliardi al 2030, i 9 miliardi al 2045. Quel che più ancora conta è che se attualmente circa il 50% della popolazione mondiale è urbanizzata, tale componente è in crescita più rapida sul totale rispetto all’aumento della popolazione in quanto tale, e arriverà al 55% nel 2025 e al 60% nel 2035.

La valutazione dei quattro fattori concomitanti porta a prevedere una crescita molto forte della domanda infrastrutturale, negli anni che abbiamo davanti a noi. Se sommiamo tutte le diverse componenti attualmente stimate dall’OCSE, giungiamo alla cifra di 71 trilioni di dollari di investimenti stimati nel prossimo ventennio: cioè l’equivalente di cinque volte il Gdp degli Stati Uniti.

Le infrastrutture sono base – insieme da costruire ex novo e da ricostruire nel tempo – della moderna economia. Vieppiù di quella del dopo crisi. Esse provvedono fattori essenziali di produzione, dall’energia all’acqua, agevolano il commercio e la divisione del lavoro, attraverso le reti di comunicazione e di traffico, realizzano l’empowerment delle popolazioni oltre che innalzare la produttività delle imprese. Esse sono asset-intensive nella loro fase di costruzione, richiedono cioè altissimi investimenti iniziali, mentre i costi della loro gestione ed esercizio sono in media molto più bassi

Sinteticamente, la stima attuale delle diverse subcomponenti delle infrastrutture tangibili può essere suddivisa in almeno quattro sottoclassi.

La prima è quella relativa al traffico: gomma ferro e aereo. Secondo le più recenti previsioni OCSE, le spese per la realizzazione di nuovi sistemi stradali ammonteranno tra i 220 e i 290 miliardi di dollari l’anno, per ogni anno in media di qui al 2030. Mentre la stima di nuove reti ferroviarie è tra i 50 e i 60 miliardi di dollari anno: esclusa la Cina però, che da sola spende in nuove reti ferroviarie avanzate 103 miliardi di dollari nel 2010, e 110 nel 2011.
La seconda è quella relativa alle utilities, innanzitutto di generazione e distribuzione energetica, e per il trattamento del ciclo completo dell’acqua. Stiamo parlando di un ammontare complessivamente stimato tra i 24 e i 30 trilioni di dollari di qui al 2025 nel primo caso, e di almeno 1 trilione di dollari l’anno investito ogni anno nei prossimi 15 anni nelle infrastrutture dell’acqua.

La terza componente riguarda i network di comunicazione. È il comparto relativamente più colpito dalla crisi, poiché le aziende sono ferme in relazione al calo della domanda. L’OCSE si aspetta che gli investimenti in reti telecom passino da una media di 650 miliardi di dollari anno di qui al 2020, e una media molto più bassa di circa 170 miliardi di dollari anno nel decennio successivo.

La quarta sottoclasse riguarda infine le infrastrutture tangibili “sociali”: ospedali, scuole, sedi centrali e periferiche della pubblica amministrazione. I Paesi avanzati tendono a ottimizzare l’esistente più che a nuove realizzazioni su vasta scala, tanto che la stima mondiale fatta dall’OCSE è al più concentrata nei Paesi emergenti e in via di sviluppo, per un ammontare relativo di qui al 2030 a circa 5-7 trilioni di dollari complessivamente.

Per avere un’idea anche solo lontana di che cosa questi massicci investimenti potrebbero comportare e mettere in moto nel complesso dell’economia mondiale, facciamo riferimento a un solo indicatore: il consumo di cemento. Il consumo di cemento nel mondo precrisi si distribuiva – considerando in ascissa il Pil procapite dei Paesi e in ordinata i consumi di cemento procapite – su una parabola, a seconda dei diversi stadi di avanzamento dello sviluppo dei relativi Paesi. Indietro nella arte bassa i Paesi meno sviluppati; salendo sulla parte alta della sezione conica quelli in via di più forte sviluppo che recuperano il gap rispetto ai Paesi avanzati e consumano massicce dosi di cemento; infine i Paesi avanzati, e per alcuni versi “saturi” di cemento, ad alto reddito procapite ma basso consumo di cemento. Per Paesi come Vietnam e Thailandia, Egitto e Brasile, India e Turchia, tutti ben sotto i 5mila dollari di reddito procapite annuo e in una fascia di consumo di cemento tra i 200 e i 400 kg procapite, nel ventennio si prevede un sostanziale raddoppio, cioè di giungere nell’area in cui nel precrisi si collocavano i paesi in boom di mattone e infrastrutture: Arabia Saudita, Bahrain, Emirati (Dubai ne sa qualcosa), Grecia, Spagna e Singapore, tutti tra gli 800 e i 1200 kg di cemento procapite. L’Italia nella parabola sta tra questi ultimi Paesi e quelli più sviluppati: coi nostri circa 24,5 mila dollari di Pil procapite consumiamo circa 800 kg di cemento procapite anno. Ma saranno proprio i Paesi più sviluppati, come Francia, Giappone, Germania, Australia e Stati Uniti, tutti sotto i 400 kg di cemento anno, a vedere impennare il proprio consumo per la necessità di nuove opere infrastrutturali, sotto l’incalzare del duplice obiettivo di ammodernare ciò che per troppi decenni non era stato innovato, e di spendere al più presto in opere cantierabili ciò che può insieme contribuire al ridimensionamento della disoccupazione e all’innalzamento della produttività.

Insomma, si direbbe che non sia proprio un cattivo futuro, quello che si prepara per le infrastrutture. Naturalmente, nel caso dell’Italia la previsione prevede invece l’eccezione, perché da noi all’inefficienza del pubblico e delle procedure assemblear-soviettiste si somma una vera e propria ideologia contraria, alle infrastrutture. Non parlo dei rigorosi interrogativi sul costo-opportunità e sul ritorno dell’investimento atteso da linee come la TAV Lione-Susa-To-Mi, di cui tante volte ci siamo occupati. E neanche del Ponte di Messina. Ma di tutto il resto che continua a mancare.

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1 Response

  1. eonia

    Non sarei così ottimista circa le infrastrutture prossime venture anche se concordo che spenderanno molto paesi come Cina ed altri paesi cosiddetti PVS.
    La Cina, per ora si sta dimostrando un paese molto lungimirante sotto tutti gli angoli prospettici.
    Aver organizzato l’area ASEAN con finanziamenti per infrastrutture per agevolare la domanda sbiadita degli Usa all’interno dell’area, l’odierno accordo ventennale con la Russia per la fornitura del petrolio attraverso il gasdotto che lo porterà a H.K con finanziamenti diretti di miliardi di dollari per la sua costruzione, gli accordi australiani per le materie prime, quelli con il Brasile sono tasselli che le permettono di acquisire gradi di libertà di approvvigionamento riscattandosi dai contratti futures dei mercati finanziari e da eventuali ricatti di multinazionali.
    Anche le silenziose e competenti banche svizzere sono affiancate al governo per fornire consulenza a 360°.
    Solo che il miracolo cinese non è facilmente replicabile da altre parti.
    L’Europa sicuramente è frenata dal suo altissimo debito e dal suo atavico machiavellismo che lavora per la prosperità di pochi mentre fa finta di dolersi per molti. Lotte all’evasione fiscale, condanne per i paesi offshore, statalizzazioni bancarie, paesi fuori controllo a causa dei loro bilanci disastrosi, dimostrano che la situazione è assai critica e il rientro alla normalità molto macchinoso.
    Tralasciando l’azione costante che lavora per la perdita d’identità culturale con pesanti ricadute sociali ed ambientali.
    L’America anch’essa gravata da un debito da default dopo la riforma sanitaria deve fare attenzione a lanciare opere infrastrutturali che nessuno per ora e per molti anni ancora capirebbe ed approverebbe. Le costruzioni ecologiche di cui si vanta il Sig. Obama rischiano di diventare ulteriore motivo di divisione della popolazione fra chi fruirà del numero esiguo di questi edifici e quelle che sono in preclusione dal sistema bancario pronte ad essere realizzate a mercato.
    Due maxi aree immerse nelle sabbie mobili sino al torace con scarse possibilità di tirarsi fuori.
    Se poi il futuro sarà migliore, meglio così per le generazioni che seguono.

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