27
Lug
2020

Quello che l’Europa chiede all’Italia

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Gabriele Iuvinale

Una tra le questioni più interessanti, dibattuta ultimamente, riguarda il sistema di approvazione (con le possibili maggioranze deliberative) dei piani nazionali di riforma e resilienza che dovranno essere approvati dal Consiglio Europeo, secondo il compromesso del vertice EU del 21 luglio scorso, per accedere al Recovery Fund.

Ma intorno a questo argomento ci sarebbero anche due questioni connesse, forse ancora non sufficientemente analizzate. Una di natura tecnica e l’altra di natura sostanziale e politica.

La prima. Che peso possono avere i paesi frugali in sede decisionale all’interno del Consiglio UE?

Diciamo subito che i piani statali devono essere approvati a maggioranza qualificata dal Consiglio. La Maggioranza qualificata si raggiunge la soltanto se sono soddisfatte due condizioni:
1) il 55% degli Stati membri vota a favore – (15 paesi su 27);
2) gli Stati membri che appoggiano la proposta rappresentano almeno il 65% della popolazione totale dell’UE (questa procedura è nota anche come regola della “doppia maggioranza”).

Ci sarebbe anche l’opzione della “minoranza di blocco”, con l’inclusione di almeno quattro membri del Consiglio, che rappresentino oltre il 35% della popolazione dell’UE. Ma questa è un’altra questione.

Dunque, facendo un calcolo approssimativo, i 4 frugali da soli contano poco e nulla e nemmeno 10 Stati piccoli riuscirebbero a raggiungere la maggioranza qualificata. Occorre, dunque, che si aggiunga un paese come la Germania.

La seconda questione, invece, più meramente politica, riguarda il “cosa” devono contenere i piani.

I piani per la ripresa e la resilienza sono valutati dalla Commissione entro due mesi dalla presentazione. Secondo il progetto approvato dal Consiglio, “nella valutazione il punteggio più alto deve essere ottenuto per quanto riguarda i criteri della coerenza con le raccomandazioni specifiche per paese del rafforzamento del potenziale di crescita, della creazione di posti di lavoro e della resilienza sociale ed economica dello Stato membro. Anche l’effettivo contributo alla transizione verde e digitale rappresenta una condizione preliminare ai fini di una valutazione positiva”.

Quindi diciamo subito che il piano deve, in primis, contenere quelle riforme che l’UE ci chiede nelle sue raccomandazioni elaborate nel semestre europeo.

Ricordiamoci che l’Italia è attualmente nel braccio preventivo del patto di stabilità e crescita ed è soggetta alla regola del debito (attualmente sospesi).
Vediamo allora cosa ci chiede l’UE:

1) Riduzione delle tasse. “Il sistema tributario italiano continua a gravare pesantemente sui fattori di produzione, a scapito della crescita economica. L’elevato carico fiscale sul lavoro e sul capitale scoraggia l’occupazione e gli investimenti”.

2) Riforma pensionistica e riduzione della relativa spesa. “La spesa dell’Italia per le pensioni, pari a circa il 15 % del PIL nel 2017, è tra le più elevate dell’Unione ed è destinata a crescere nel medio periodo a causa del peggioramento dell’indice di dipendenza degli anziani. Il bilancio 2019 e il decreto legge di attuazione del nuovo regime di pensionamento anticipato del gennaio 2019 tornano indietro su elementi delle precedenti riforme delle pensioni, aggravando la sostenibilità a medio termine delle finanze pubbliche. Queste nuove norme aumenteranno ulteriormente la spesa pensionistica a medio periodo. Tra il 2019 e il 2021 il nuovo regime di pensionamento anticipato (“quota 100”) consentirà alle persone che hanno versato 38 anni di contributi di andare in pensione a 62 anni. L’elevata spesa pubblica per le pensioni comprime altri elementi della spesa sociale e di spesa pubblica a favore della crescita, come l’istruzione e gli investimenti, e riduce i margini per diminuire la pressione fiscale complessivamente elevata e il consistente debito pubblico. Inoltre, l’ampliamento della possibilità di pensionamento anticipato potrebbe ripercuotersi negativamente sull’offerta di lavoro, in un contesto in cui l’Italia è già al di sotto della media dell’Unione per quanto riguarda la partecipazione dei lavoratori anziani (55-64 anni) all’occupazione, il che ostacolerebbe la crescita potenziale e aggraverebbe la sostenibilità del debito pubblico. Per limitare l’aumento della spesa per le pensioni dovrebbero essere pienamente attuate le già adottate riforme pensionistiche volte a ridurre le passività implicite derivanti dall’invecchiamento della popolazione. Si potrebbero, inoltre, conseguire risparmi intervenendo su pensioni di importo elevato che non corrispondono ai contributi versati, nel rispetto dei principi di equità e di proporzionalità.

3) Riduzione della disoccupazione. “La disoccupazione di lunga durata e quella giovanile restano elevate e gravano sulla crescita potenziale e sulla coesione sociale”.

4) Lavoro femminile. “Manca ancora una strategia organica per promuovere la partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Una maggiore partecipazione delle donne alla forza lavoro, corrispondente a maggiori tassi di partecipazione in generale, potrebbe favorire la crescita economica aumentando l’offerta di manodopera, alleviare la povertà e attenuare i rischi sociali e finanziari derivanti dall’invecchiamento della popolazione”.

5) Riforma scolastica. “Gli investimenti nell’istruzione e nelle competenze sono fondamentali per promuovere una crescita intelligente, inclusiva e sostenibile. La produttività tendenzialmente stagnante dell’Italia è dovuta alle debolezze del sistema di istruzione e formazione e alla scarsità della domanda di competenze elevate. Migliorare la qualità del sistema di istruzione e formazione rappresenta una sfida importante. Gli scarsi investimenti nelle competenze stanno rallentando la transizione dell’Italia verso un’economia basata sulla conoscenza, frenando la crescita della produttività e limitando il potenziale per migliorare la competitività non di prezzo e la crescita del PIL. Le lacune in materia di istruzione contribuiscono anche a spiegare la minore produttività delle microimprese e delle piccole imprese italiane rispetto a quelle di paesi comparabili”.

6) Investimenti nel meridione. “Resta limitata, in particolare nell’Italia meridionale, l’adozione da parte delle imprese più piccole di strategie volte ad aumentare la produttività, quali l’innovazione dei prodotti, dei processi e dell’organizzazione. Il sostegno pubblico alla spesa delle imprese destinata alla ricerca e allo sviluppo rimane modesto”.

7) Infrastrutture. “Sono necessari investimenti per migliorare la qualità e la sostenibilità delle infrastrutture del paese”.

8) Inefficienza della PA. “La scarsa capacità del settore pubblico, soprattutto a livello locale, di amministrare i finanziamenti rappresenta una barriera agli investimenti in tutti i settori, a causa della complessità delle procedure, della sovrapposizione delle responsabilità e della gestione carente del pubblico impiego. L’inadeguatezza delle competenze nel settore pubblico limita la capacità di valutare, selezionare e gestire i progetti di investimento. Ciò incide negativamente anche sull’utilizzo dei fondi dell’Unione, ambito in cui l’Italia è indietro rispetto alla media dell’Unione”.

9) Riforma della PA. “Accrescere l’efficienza della pubblica amministrazione italiana e la sua capacità di rispondere alle esigenze delle imprese avrebbe un impatto positivo sul contesto imprenditoriale e sugli investimenti, così come sulla capacità delle imprese di sfruttare le opportunità di innovazione”.

10) Riforma della giustizia. “La scarsa efficienza del sistema giudiziario civile italiano continua a destare preoccupazione.

11) Promuovere l’accesso al credito. “Il credito bancario continua a essere la principale fonte di finanziamento delle imprese. Tuttavia, le imprese più piccole e innovative faticano ancora ad accedere al credito, soprattutto nel Mezzogiorno. Il mercato dei capitali è poco sviluppato rispetto ad altri Stati membri, anche a causa di fattori che limitano la domanda, come il basso livello di educazione finanziaria, il timore di perdere il controllo sull’attività aziendale e gli onerosi adempimenti amministrativi”.

12) Istituti di credito. “Favorire la ristrutturazione dei bilanci delle banche, in particolare per le banche di piccole e medie dimensioni, migliorando l’efficienza e la qualità degli attivi, continuando la riduzione dei crediti deteriorati e diversificando la provvista; migliorare il finanziamento non bancario per le imprese più piccole e innovative”.

Guarda caso, proprio durante il famoso vertice UE, il Consiglio Europeo ha adottato una RACCOMANDAZIONE sulla politica economica della zona euro.

In definitiva, cosa chiedono agli Stati? Riforme strutturali.
Si legge, infatti, “Per aumentare il potenziale di crescita, garantendo nel contempo la sostenibilità ambientale e sociale e promuovendo una reale convergenza tra gli Stati membri della zona euro, occorrono riforme strutturali atte a rafforzare la crescita sostenibile e investimenti in capitale materiale e immateriale per aumentare la produttività. Ne trarrebbero particolare beneficio gli Stati membri, il cui potenziale di crescita è chiaramente inferiore alla media della zona euro. Ciò sarebbe, inoltre, necessario per evitare che l’economia della zona euro scivoli in un periodo prolungato di crescita potenziale bassa, produttività scarsa, inflazione dei prezzi debole e crescita dei salari modesta, nonché di aumento delle disuguaglianze.

Le riforme e gli investimenti restano fondamentali per garantire che la zona euro ritrovi il proprio slancio di crescita, superi pressioni eccessive a medio e lungo termine, derivanti anche dal deteriorarsi dell’andamento demografico, e faciliti la transizione verso un’economia sostenibile, il che aiuterebbe la zona euro e i suoi Stati membri a raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite”.

In realtà, se avessero scritto nel documento direttamente anche il nome dell’Italia, nessuno avrebbe avuto di che ridire. Poi, per chi ne avesse voglia, si potrebbe continuare a leggerlo con l’indicazione delle ulteriori raccomandazioni specifiche.

In conclusione.
I piani di riforma e resilienza devono essere sviluppati su riforme che mancano in Italia ormai da troppi anni, cioè dal secolo scorso. Ma qui viene in rilievo una variabile non di poco conto, anzi direi essenziale: il decisore politico. Infatti chi mai potrà portare a termine questo compito?
Di certo, non questo governo. Non ha le capacità. Come è emerso anche da una dichiarazione dello stesso premier Conte nell’immediatezza dell’accordo del Consiglio UE, quando ha detto “ora serve una task force”. Tradotto potrebbe anche suonare “ho un governo che non riesco a controllare – in molti vorranno salire sul carrozzone politico per fini elettorali – quindi nomino i tecnici. Così tutti si dovranno allineare”.
E, d’altro canto, ciò che è stato fatto finora (vedi le questioni Alitalia e Autostrade, il decreto semplificazioni, la fallimentare gestione del settore scuola, solo per citarne alcuni) sembrerebbe andare proprio nella direzione opposta da quanto richiesto dall’Europa.

Sarà in grado l’Italia di riprendere la rotta e riportare la barca verso un porto sicuro? Vedremo!

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