6
Set
2021

Politiche e misure della povertà: il reddito di cittadinanza

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Francesco Provinciali

Recensione del saggio del Prof. G.B. SGRITTA, Emerito all’Università Sapienza, pubblicato su Politiche sociali/Social policies, 2 – 2020.

Tra i temi che ciclicamente ritornano in discussione a livello politico ed economico-sociale, il cd. “reddito di cittadinanza” si sta imponendo per le valutazioni spesso contrapposte che emergono nella stessa agenda di Governo, a motivo della variegata ed anomala maggioranza parlamentare che lo sostiene.

La diaspora più accesa riguarda proprio – nella loro polarizzazione contrapposta – le forze politiche che avevano approvato il provvedimento, facendo allora entrambe parte del Governo “gialloverde” Conte-uno: la Lega che vuole risolutamente abolirlo e il M5S che invece lo vuole confermare ad ogni costo.

Nulla essendo ad oggi cambiato sul piano normativo ed essendo la legge che lo introdusse tuttora in vigore, pare utile riconsiderare un analitico e documentato saggio che il Prof. G.B. Sgritta dell’Università Sapienza di Roma scrisse ad un anno dall’entrata in vigore della legge n. 4/2019, nella considerazione che i dati contenuti nella Ricerca restano sostanzialmente invariati nella loro oggettività.

Ciò che cambia sono le considerazioni politiche sull’utilità di questa misura, in base alla valutazione dei risultati.

Certamente il tema rientrerà nelle scelte che saranno esperite utilizzando i fondi del Recovery plan: per questo appare quanto mai utile riprendere in considerazione le argomentate deduzioni che si ricavano dalla Ricerca della Sapienza.

Nella breve sinossi introduttiva al suo saggio Sgritta osserva come si possano evidenziare alcuni rilievi critici in ordine al perseguimento degli obiettivi prefissati: l’importo medio del reddito è relativamente basso (522 euro mensili), vengono penalizzate le famiglie più numerose, il numero dei beneficiari è inferiore a meno della metà di quelli previsti, la mancanza di lavoro in alcune aree del Paese, specie al Sud,  mette a rischio “l’obiettivo politico principale di questa misura, vale a dire promuovere l’inserimento lavorativo, con il rischio di ridurlo a un semplice strumento di assistenza sociale”.

Basterebbe questa valutazione d’insieme per far emergere come il reddito di cittadinanza abbia prodotto più criticità che vantaggi coerenti con lo scopo della sua introduzione.

Nell’incipit del saggio Sgritta si chiede senza indugi come mai – anziché imbarcarsi in una nuova previsione normativa densa di incognite per la politica, l’amministrazione e gli stessi aspiranti beneficiari – non sia stato dato seguito ad un ampliamento migliorativo del REI (il reddito di inclusione) già esistente: soluzione più semplice e consequenziale rispetto a questa nuova via intrapresa che evidenzia d’impatto lacune di stima e procedurali in ordine alla visione istituzionale e alla realtà sociale del Paese.

Definito per decreto il RdC una “misura fondamentale di politica attiva del lavoro e garanzia del diritto al lavoro, di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale, nonché diretta a favorire il diritto all’informazione, all’istruzione, alla formazione e alla cultura attraverso politiche volte al sostegno economico e all’inserimento sociale dei soggetti a rischio di emarginazione nella società e nel mondo del lavoro”, Sgritta rileva un bisticcio interpretativo tra il concetto di lavoro come antidoto alla povertà e la povertà come conseguenza della mancanza di lavoro: lettura non appropriata della povertà in quanto essa è legata non solo all’assenza ma anche all’insufficienza di reddito da lavoro, in un contesto in cui il rinnovamento dei centri per l’impiego è solo una vaga intenzione senza seguito pratico.

Una seconda osservazione concerne la “teatralità” del RdC che mette insieme tre condizioni – “il contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale” – che hanno spiegazioni e riferimenti diversi: pur interpretando la povertà nel suo significato estremo di “povertà assoluta” (definizione assente nel decreto) il RdC non sembra in grado, per come è congegnato, di perseguire contemporaneamente i rispettivi risultati, attorcigliato nella stretta del politichese.

Il benchmark  del provvedimento del “Governo Conte 1” è quantificato nel “garantire un livello minimo di sussistenza”, in realtà assimilabile allo status di povertà assoluta: un ossimoro che stride anche con le stime EUROSTAT e ISTAT nel quantum di persone povere assolute, oltre che con il senso logico dell’ operazione, considerata l’equivalenza semantica e di status tra “povertà” e “livello minimo di sussistenza”: come dire che per i poveri tutto resterebbe come prima. Ma c’è un altro “equivoco lessicale”, poiché non di reddito di cittadinanza si tratta, essendo rivolto alla famiglia  con ISEE inferiore ai 9360 euro annui e non agli individui, coniugando misure di lotta alla povertà e inserimento lavorativo, ed essendo fruibile a chi risiede in Italia da almeno 10 anni, di cui 2 continuativi, in possesso della cittadinanza italiana o di Paese dell’UE, con latenti ambiguità in ordine ai costi complessivi dell’operazione, non disponendo il Governo di stime ufficiali sul fabbisogno complessivo e basandosi sui dati ISTAT (5 milioni di individui e 1,8 milioni di famiglie in condizione di povertà assoluta). Mentre la stima dei potenziali aventi diritto al RdC si è basata sulla “memoria INPS” sui dati catastali e reddituali e sulla microsimulazione INPS che arrivava a stimare una platea di 2,4 milioni di persone e 1,2 milioni di nuclei familiari, con un costo totale di 8,5 miliardi di euro.

In realtà secondo l’osservatorio statistico INPS a gennaio 2020 le domande di RdC accolte ammontavano a 915.600 per complessive 2.370.938 persone coinvolte (alle quali vanno aggiunti 142.987 percettori della pensione di cittadinanza – PdC) in una platea cosi articolata: nel 90% dei casi le prestazioni sono chieste da italiani, nel 3,5% da un cittadino di un Paese UE, e nel 5,6% da extracomunitari in possesso di permesso di soggiorno UE di lunga durata, con un importo medio di 532 euro (562 euro al sud, 496 al centro e 468 al nord).

Confrontando il take up con la povertà assoluta si nota come il RdC sia ancorato al reddito (come misura per la concessione) mentre la povertà assoluta è parametrata ai consumi, inoltre il RdC non tiene conto dei prezzi dei beni acquistabili e della variazione del costo della vita, ancora esso utilizza una scala di equivalenza disegnata per ridurre l’importo del beneficio, per cui la famiglia risulta essere paradossalmente un “moltiplicatore della povertà”, infine l’RdC prevede un contributo per l’affitto non rapportato ai componenti del nucleo. Considerando la molteplicità degli obiettivi esposti nel decreto istitutivo del RdC si rileva come esso agisca in funzione di una possibile riduzione degli indici di povertà, mentre ancora incerti e labili risultano i dati relativi allo scopo principale dell’introduzione del RdC, cioè l’inserimento lavorativo: le stime più recenti riferiscono che solo il 2% dei percipienti il reddito ha trovato un’occupazione lavorativa.

Considerando i dati INPS sui nuclei in povertà assoluta, dal saggio risulta che solo il 50, 2% dei nuclei e il 47% delle persone valutati come potenziali ‘aventi diritto’, hanno in realtà percepito il reddito: se ad essi si aggiungono i percettori della PdC si giunge en gros a quantificare nel 72% al nord e – con un calo vistoso – nel 30% al sud coloro che pur facendo parte della platea degli aventi diritto al RdC (e alla PdC), ne sono al momento esclusi. Questo gap tra nord e sud rispetto ai Rdc e alle Pdc è un valore di stima che va indagato al fine di chiarire le ragioni della sottostima dei requisiti dei richiedenti del nord rispetto agli analoghi del sud. Circa il dimezzamento dei percettori del RdC rispetto al numero dei poveri assoluti, una ragione potrebbe rinvenirsi, ma mancano dati certi, alla limitazione del beneficio agli stranieri non UE.

Sgritta osserva inoltre che una spiegazione al gap potrebbe venire dalla cd. economia non osservata che comprende l’economia sommersa e l’evasione fiscale, quella informale per ambiti ristretti a relazioni familiari o amicali e – infine – le attività illegali. Nel complesso una quota rilevante di economia non osservata riguarda i lavoratori irregolari che l’ISTAT stima (al 2015, ultima rilevazione) in 3.098.000.

Particolarmente interessante il passaggio dove Sgritta ragiona sulla valutazione dei potenziali aventi diritto  al reddito circa l’opportunità di inoltrare domanda di accesso al RdC rinunciando alla “possibilità di continuare a svolgere attività di lavoro irregolari o illegali dalle quali traggono un’entrata presumibilmente più remunerativa e forse anche più stabile nel tempo dello stesso RdC”.

La ricerca a questo punto si sofferma sulla “ripercussioni del prevedibile scompenso tra aspettative e risultati; tra le previsioni di copertura della misura (tarate sulle stime della povertà assoluta) e l’effettivo take up del sussidio”. Ne consegue una crescente importanza dell’indagine statistica non solo come fonte di fornitura di dati ma come base di orientamento, utilizzabile dal decisore politico. Gli scarti tra provvedimenti legislativi assunti per compiacere i cittadini (e quindi gli elettori), il fabbisogno effettivo e le previsioni di spesa assumono una valenza discriminante per un buon governo della cosa pubblica.

Ma non potrebbe esser scritta conclusione più eloquente e pertinente di quella usata da Sgritta, alla quale mi affido per ogni opportuna riflessione, sic stantibus rebus.

“Che il Rdc sia finanziariamente sostenibile prima e dopo il 2021, stante la situazione economica e l’instabilità del quadro politico, è al momento imprevedibile; che possa contribuire a semplificare la giungla delle indennità, degli assegni, dei sussidi nazionali e locali, anche questo è, allo stato, improbabile. Ciò che certamente non potrà fare è abolire la povertà”.                                                                  

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