21
Mag
2021

C’è un sacco di spazio lì sotto: per una gestione liberale del rischio

“L’unica libertà degna di questo nome è quella di perseguire il proprio bene a proprio modo.”

John Stuart Mill – Saggio sulla libertà

“There’s plenty of room at the bottom”: così si intitola la celebre lezione tenuta del fisico Richard P. Feynman il 29 dicembre 1959, alla riunione annuale della American Physical Society presso il Caltech. In genere, viene considerata come l’atto fondativo della nanotecnologia: in essa, infatti, Feynman prendeva in esame alcune applicazioni della possibilità di manipolare la materia alla scala di singoli atomi. Il titolo si riferisce al fatto che gli atomi sono molto piccoli, e dunque possono essere assemblati per costruire sistemi di dimensioni ancora più ridotte di quelle visibili tramite microscopio elettronico. Un sacco di spazio lì sotto, appunto.

Ma un momento: cosa c’entra la nanotecnologia con la gestione del rischio? E con il pensiero liberale?

Ma un momento: cosa c’entra la nanotecnologia con la gestione del rischio? E con il pensiero liberale?

Mi è successo di ripensare alla lezione di Feynman in questi giorni, notando come fossero trascorse le ormai proverbiali tre settimane di latenza dagli assembramenti in piazza Duomo a Milano per i festeggiamenti dei tifosi dell’Inter. Tranquillizzati dal fatto che i contagi non sono risaliti e che le profezie più nefaste non si sono avverate, possiamo forse parlarne meglio senza levate di scudi.

Poco dopo i fatti, Paolo Giordano aveva scritto sul Corriere questo articolo, nel quale parlava anche lui di un giù o di un “bottom”. Parlando di chi dovesse essere ritenuto responsabile del comportamento rischioso di quelle ventimila persone, scriveva:

[…] se saranno riconosciute delle mancanze, non andranno liquefatte verso il basso, semmai diluite un po’ verso l’alto, nel clima di cedevolezza che le decisioni recenti del governo hanno generato.

Ecco, ammetto che la frase mi ha colpito molto. Mi sono chiesto: come mai il “basso” (cioè il livello del singolo individuo) è sempre meno il luogo della solidità, e anzi diventa sempre più il luogo in cui le responsabilità diventano fluide? Perché stiamo “svuotando” questo livello? Anche lì sotto c’è molto spazio: per quale motivo non ci decidiamo ad occuparlo?

Figura 1 – Festeggiamenti per lo scudetto dell’Inter in piazza Duomo (foto LaPresse / Claudio Furlan)

Sono piccole scelte semantiche come questa a darci un indizio: forse in modo non del tutto consapevole, noi ci stiamo progressivamente allontanando dal principio di responsabilità individuale. Un principio che forse ci può sembrare banale, ma sul quale poggiano le basi del liberalismo (a sua volta, fondazione delle democrazie occidentali) e dell’etica, in particolar modo di quella cristiana.

Oggi il singolo individuo deve poter valutare sempre meno. Anzi, bisogna che sia costantemente attorniato da un sistema di norme che gli dica esattamente cosa fare e come comportarsi: “non andare a fare baldoria con ventimila estranei durante una pandemia!”, ma anche “non usare il fornetto a microonde per asciugare il tuo gatto!”, “ricordati di non chiudere il passeggino con il bambino ancora dentro!” oppure “puoi uscire per portare il cane a passeggio, ma dev’essere vivo!”. Non c’è niente che possa essere discrezionale, al contrario: tutto prestabilito per noi dai Decisori Centrali. I quali poi, qualora le decisioni si rivelino cattive e portino ad esiti nefasti, diventano il catalizzatore del nostro senso di colpa: un senso di colpa che sfoghiamo sui Decisori (trasformatisi da Buoni Garanti in Perfidi Oppressori) con una foga che a me ricorda molto da vicino i due minuti di odio in 1984 di Orwell.

Da tale atteggiamento ci metteva in guardia già nel 1859 John Stuart Mill nel suo Saggio sulla libertà, usando parole che a mio avviso andrebbero stampate a caratteri cubitali sulla prima pagina di ogni manuale che tratti di gestione del rischio:

“L’unica libertà degna di questo nome è quella di perseguire il proprio bene a proprio modo, fino a che non cerchiamo di privare gli altri della loro o di ostacolare i loro sforzi per ottenerla. Ciascuno è il guardiano della propria salute, sia fisica che mentale e spirituale. L’umanità trae maggior vantaggio dal lasciare che ciascuno viva come meglio gli sembra, che non dell’obbligarlo a vivere come sembra bene agli altri.” [1]

L’impressione è che noi, invece, vorremmo rifuggire questa responsabilità anziché accettarla. Ogni giorno scegliamo un nuovo potente, un nuovo patriarca, un nuovo tiranno che ha abusato del proprio privilegio o che si è reso colpevole nell’esercizio del suo potere: lo usiamo come bersaglio della nostra indignazione e ci sentiamo meglio con noi stessi per il fatto di chiederne la testa sul patibolo social. Peccato che, in tutto questo, la sola cosa a rimanere non sottoposta ad auto-analisi o a scrutinio sia il nostro comportamento: quello fatto dalle nostre azioni individuali, che avremmo eccome il potere di cambiare. 

La cosa ha attinenza con la gestione della pandemia, perché il rifiuto del principio di responsabilità individuale è il punto in cui avviene la saldatura tra la forma mentis delle risorse infinite e l’approccio del “rischio zero”. 

Infatti, la rimozione (in senso quasi freudiano) della scarsità delle risorse è una strada piuttosto efficace per ottenere la non responsabilità, per liberarsi dalla fatica e dal peso etico di dover scegliere, di dover dare delle priorità. Accecati dai progressi tecnologici e giuridici che ci isolano dagli aspetti più crudi della realtà, finiamo quasi per dimenticarci dell’esistenza di questi ultimi. 

Parliamo fino allo sfinimento di Diritti con la D maiuscola, ma non ci ricordiamo del fatto che questi sono solo poco più che tratti di penna su un foglio, senza risorse. Le quali giocoforza creano dei limiti alla loro esigibilità. Un esempio evidente è la tutela della salute. Affinché possa realizzarsi, servono tante risorse sottostanti: le materie prime per attrezzature mediche, l’energia per trasformare tali materie prime in bisturi, respiratori, macchine per la risonanza magnetica etc. nonché per mantenere vivo e alimentato l’ospedale. 

Esattamente come sono necessarie risorse per formare e rendere produttive le persone che al momento devono restare chiuse in casa, o limitare fortemente i loro spostamenti. Come diceva Gesù, nessuno di noi sa quanti giorni gli restano da vivere (“Vegliate, dunque, perché non conoscete né il giorno né l’ora” Mt 25-13). La misura del lockdown, dunque, non è affatto gratis: bensì impone un costo su ciascuna persona che deve attenervisi, sul suo progetto di vita e sul resto della società che non può beneficiare di quel progetto. Il lockdown immobilizza un capitale umano.

Naturalmente anche la pandemia presenta rischi terribili, ed è proprio a questo che una gestione equilibrata e liberale del rischio dovrebbe servire: a soppesare i diversi rischi, cercando il più possibile di contemperare esigenze diverse e per loro natura contrastanti. Sempre tenuto conto del fatto che le risorse a disposizione sono scarse. Da qualche parte mi dovrò pur fermare nella prevenzione o nella mitigazione: non per crudeltà o per cinismo, ma perché da quel punto in avanti il gioco non varrà più la candela ai fini della gestione di risorse che devono bastare per tutti, o comunque conciliare bisogni diversi. L’acronimo ALARP (che sta per “As Low As Reasonably Practicable”) vuol dire proprio questo.

Nel modello a risorse infinite, invece, tutto è molto (troppo?) semplice. Non c’è alcun bisogno che l’individuo valuti, decida, assuma su di sé la responsabilità di quelle che Calabresi e Bobbit chiamano scelte tragiche [2]. La natura scompare, e con essa l’uomo come individuo, mentre le norme e in generale le istituzioni diventano “magiche”: nel senso che bastano le loro parole o i loro provvedimenti a tenere sotto controllo tutti gli aspetti della vita, senza che l’entropia o il caos possano infiltrarvisi in alcun modo. Tutti gli aspetti feroci o sgradevoli al contorno (pandemia, ma anche crisi economica o razzismo) possono essere gestiti dal potere che non ha nel suo esercizio alcun vincolo: ed ecco che arriviamo a pensare che tenere una persona chiusa in casa sine die possa non avere un costo su di essa, che la crisi economica possa essere risolta semplicemente stampando soldi o che il problema della discriminazione lo si annienti criminalizzando il lessico anziché educando.

In questo modello, dunque, il “rischio zero” esiste eccome: è naturale conseguenza del fatto che le istituzioni possono qualsiasi cosa. E dunque, per quale motivo l’individuo dovrebbe mai valutare con la propria testa? Chi è il singolo, dentro un simile universo distorto, per osare scegliere in base alla propria coscienza e ai propri criteri (e dunque per essere tenuto a rispondere delle azioni che fa)? Tutta la responsabilità è in alto, mentre in basso si fa liquida come scrive Giordano.

Ecco che ci poniamo sempre meno spesso domande come: “Devo proprio andare nel tale posto?”, oppure “Cosa posso fare, nel mio piccolo, per promuovere la parità di genere? O per contrastare la discriminazione? Quali leve ho in mano, nella mia famiglia o sul posto di lavoro?” E poiché ci chiediamo queste cose sempre meno spesso, l’irresponsabilità collettiva diventa profezia autoavverante: come ogni buon genitore sa per esperienza, chi viene trattato come incapace di intendere e di volere finisce per comportarsi come tale.

Per timore delle conseguenze nefaste dei contagi, abbiamo adottato per lungo tempo misure centralizzate, rigide e poco sensate; il cui pregio, però, era quello di non lasciare nulla all’interpretazione. Abbiamo detto: il rischio è troppo elevato, non possiamo confidare nella valutazione del singolo. Ma si tratta di un errore.

In fondo, gestire il rischio vuol dire affrontare un aspetto spaventoso e sgradevole della realtà per ottenerne un qualche guadagno: usando un’immagine tolkieniana, possiamo pensare al drago Smaug che ne Lo Hobbit custodisce immense ricchezze sotto la Montagna Solitaria. Se vogliamo conquistare il tesoro, la miglior scelta possibile è quella di scendere “lì sotto” al livello dell’individuo coraggioso e responsabile. Per gestire bene il rischio, ci serve il passo lieve da scassinatore del piccolo Bilbo; non certo quello fragoroso degli eserciti Ombra comandati da Bolg, re dei Goblin del Monte Gundabad.

Invece, noi continuiamo ad affrontare il rischio muovendoci in grandi eserciti.

Nonostante il muro di Berlino sia caduto nell’ormai lontano 1989, oggi sembra paradossalmente di vivere in un contesto più sovietico che mai. Tutto viene letto solo ed esclusivamente come il risultato di lotte di potere, con oppressi e oppressori ovunque e l’unica cosa che conta è fare quello che il Decisore dispone. Del Decisore noi ci fidiamo ciecamente e in lui riponiamo ogni auspicio (“Speriamo che almeno [Politico X] faccia bene!”). Con il risultato che, come spiegava bene Riccardo dal Ferro in occasione del discorso in Senato di Draghi, noi non facciamo mai nulla in prima persona.

In Sicilia, la mia terra, si dice “cu mangia, fa muddichi” che vuol dire: chi mangia, fa (inevitabilmente) molliche. Non far nulla, non valutare con la propria testa e non agire mai in prima persona assumendo la responsabilità che ne consegue è molto comodo: così non si fanno molliche e, se mai qualcuno dovesse venire ad imputarci qualcosa, lo accuseremo di “liquefare verso il basso” le responsabilità che invece sarebbero da attribuire ben più in alto.

È un modo per rimanere sempre bambini e rifiutare l’eredità del pensiero liberale e illuminista, che è proprio l’invito a stare ben dritti sulle nostre gambe, ad uscire dallo stato di minorità che dobbiamo a noi stessi per citare Kant. È il risultato di un gran desiderio (forse non compiutamente articolato, ma sicuramente avvertito) di restarci e di sguazzarci per bene, in questa minorità.

Riferimenti

[1] Mill J. S. (ed. 2014). Saggio sulla libertà. Il Saggiatore

[2] Bobbit P., Calabresi G. (2006). Scelte tragiche. Giuffrè

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