3
Mag
2017

Pd in retromarcia sul fisco d’impresa, e lo split payment è vergognoso

Confindustria insieme a tutte le associazioni d’impresa cambia marcia, e in sede di audizione parlamentare sulla manovrina del governo denuncia apertamente un aumento della pressione fiscale sulle aziende. E’ un dato di fatto, effettivamente. Che si inquadra in un cambio generale di segno delle politiche economiche sin qui seguite. E’ la politica, cioè il Pd e cioè Renzi, a dettare un altro spartito dopo la malaparata del 4 dicembre scorso, e il ritorno alla segreteria con la vittoria nelle primarie.

Fino al 2016, va detto, per le imprese con Renzi non è andata male. Cominciando dalla decontribuzione totale per tre anni nel 2015, e parziale per due anni del 40% dei contributi nel 2016, a fronte di ogni nuovo contratto a tutele crescenti: si è trattato di 19,3 miliardi per questa sola voce, sommando gli sconti spalmati fino al 2019. E’ stata inoltre abbattuta la componente lavoro dell’IRAP. L’IRES da quest’anno è scesa dal 27,5% al 24%. E’ stato fiscalmente incentivato il welfare d’impresa (sia pur discutibilmente equiparato al salario di merito). Sono state rifinanziate leggi d’incentivo come la Sabatini sugli investimenti strumentali d’impresa. E quest’anno al superammortamento degli investimenti nel 2016 si somma nel 2017 l’iperammortamento per quelli relativi alla nuova frontiera di Industria4.0. Il bilancio complessivo in termini di crescita aggiuntiva non è stato un granché, e c’è solo da sperare che quest’anno gli investimenti grazie ai potenti incentivi riprendano a doppia cifra, visto che a fine 2016 avevamo sommato un gap del 27% in meno tra pubblici e privati rispetto al 2008.

Il favore verso l’impresa non è stato estraneo alla scelta di Confindustria di condividere appieno la battaglia referendaria di Renzi. Ma al contempo, dopo la sconfitta, è diventata un’arma polemica usata da sinistra contro Renzi. In sintesi l’accusa è: hai dato alle imprese un punto e mezzo di PIL sui 50 miliardi complessivi dei tuoi bonus, ma non hai fatto niente per la povertà assoluta e per chi è fiscalmente “incapiente” sotto gli 8mila euro di reddito, hai dunque tradito una delle stelle polari della sinistra, la redistribuzione. Accusa sommata al tradimento dell’egualitarismo degli insegnanti con la Buona Scuola, alla lesina nel rinnovo del contratto degli statali, e via continuando.

Con la manovrina del governo Gentiloni, si sviluppano le premesse del cambio di rotta, i cui primi segni erano già nella legge di bilancio 2017. Il reddito d’inclusione e più di 2 miliardi a chi ha meno reddito espandendo l’esperimento del SIA sono stati la prima avvisaglia. Poi i cedimenti in serie ai sindacati sulla scuola. La riforma IRPEF è sparita ufficialmente dai progetti del DEF per il 2018, ma Renzi e Nannicini avrebbero pronta una proposta di semplificazione su tre aliquote fortemente “sociale”, con vantaggi soprattutto per chi ha meno. La stessa vicenda Alitalia, con l’energica correzione renziana alla prospettiva della liquidazione, e la superfetazione a 600milioni del prestito ponte concesso dal governo, indicano una prospettiva politica di forte ricollocazione a sinistra.

Le polemiche contro i ministri tecnici, Padoan e Calenda, sono l’antipasto di una profonda insofferenza verso chi continui sotto elezioni a ricordare i vincoli europei di contenimento del deficit e del debito, e contro gli aiuti di Stato. Renzi dice di voler cambiare radicalmente l’Europa insieme a Macron, ma i suoi attacchi all’Europa mancano del tutto nei discorsi del leader di En Marche, e sembrano a volte più simili ai toni anti Ue della Le Pen. Mentre l’Europa legge nell’eventuale vittoria d Macron un ritorno rafforzato all’asse franco-tedesco, Renzi lo interpreta come fosse l’abolizione dell’impegno a scendere anno dopo anno al deficit zero, sia pur corretto per il ciclo. Malgrado la maggior flessibilità che Padoan ha strappato per Renzi di un punto e mezzo di PIL, e nonostante ci sia stata concesso più deficit per la clausola investimenti pubblici, mentre nel 2016 il governo li ha non aumentati ma tagliati del 4,4%.

Ed eccoci dunque al cambio di segno verso le imprese. Confindustria ha ragione: le maggiori entrate della manovrina, e i 5 miliardi di miglioramento dei saldi 2018 che resteranno come patrimonio acquisito del decreto facendo scendere a 14 miliardi le clausole di stabilità – per non affrontare le quali Renzi vuole votare prima della legge di bilancio anche se le clausole le ha appostate lui – vengono tutte dalle tasche delle imprese. I tagli ai ministeri sono poca roba,5-600 milioni se va bene.

Le maggiori entrate sono la somma del maggior prelievo sulle imprese del settore del gioco legale: che ovviamente viene presentato come lotta alla ludopatia ma raggiungerà livelli assurdi, con un 52,5% di prelievo sulle videolottery e il 64,3% per le slot machine, a fronte del 22% in Germania e 38% in Spagna. A questo si aggiunge la maxi estensione dello split payment, non più solo nel caso dei fornitori diretti dello Stato ma di tutte le società pubbliche e delle maggiori 40 società quotate italiane. Questa misura, spacciata per lotta all’elusione, è semplicemente vergognosa. Che tutti i fornitori di queste grandi imprese si vedano inibiti dal poter recuperare direttamente con l’IVA i crediti fiscali è un gigantesco drenaggio di liquidità, per grandi fornitori come imprese piccole e piccolissime e anche liberi professionisti. Sicuramente superiore nel 2018 ai 10-12 miliardi, a recupero non più immediato ma differito per anni secondo l’attuale regime di rimborso dei crediti fiscali da parte dello Stato. Mentre il debito commerciale pubblico alle imprese è tornato a salire oltre i 70 miliardi (e il MEF non aggiorna le cifre). E ricordatevi sempre che lo Stato paga al contribuente solo il 2% di interessi dopo i primi sei mesi di ritardo nelle compensazioni dei crediti fiscali, mentre per sé impone il 3,5% di interesse su quanto il contribuente gli deve iscritto a ruolo. Un gap che dice tutto del fisco asimmetrico a vantaggio dello Stato.

E a questo si aggiunge inoltre il nuovo limite ridotto da 15mila a 5mila euro per compensare i crediti Iva e quelli delle imposte sul reddito senza ricorrere a un intermediario per il visto di conformità, operazione il cui costo può arrivare a oltre un quinto del credito totale. E ancora: un giro di vite agli incentivi ACE per la patrimonializzazione delle piccole imprese, e una forte limitazione all’innovativo regime del patent box, con cui 2 anni fa si disse di voler fiscalmente incentivare il capitale intangibile delle imprese cioè brevetti, marchi e design, un regime che all’Agenzia delle Entrate non è mai piaciuto nella convinzione che si prestasse a elusione, e che non a caso è stato autorizzato sinora solo in pochissimi casi.

Certo, la coperta è corta. Ma è molto discutibile puntare a più deficit dimenticando che il report della Banca Mondiale Paying Taxes 2016 vede alle nostre dirette frontiere la pressione fiscale sul reddito lordo d’impresa al 28,8% in Svizzera e al 51,2% in Austria, mentre da noi è al 64,8%. Le imprese si erano illuse, sul fatto che quelle di Renzi fossero scelte strategiche. Ora che suona il “contrordine compagni”, farebbero bene a correggere il tiro.

 

 

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