10
Lug
2015

Grecia: Salvataggio in Extremis?—di Matteo Borghi

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Matteo Borghi.

Nella crisi greca siamo forse, finalmente, arrivati a una svolta. Più o meno la milionesima da quando la “troika” (oggi più correttamente “Brussels Group”) ha iniziato ad avere a che fare col governo di Alexis Tsipras. Un esecutivo che, al contrario dei precedenti, si è di fatto sempre opposto in maniera sistematica alle proposte di Bruxelles nel nome della lotta all’austerity europea che, a suo giudizio, avrebbe fiaccato l’economia greca fin dalle sue fondamenta. Read More

9
Lug
2015

Ora l’Occidente tifa che i comunisti cinesi non facciano funzionare la borsa

Stanotte sul mercato azionario cinese è avvenuto puntualmente ciò che il resto del mondo spera. Cioè che le autorità cinesi, per un bel po’ e con tutti i mezzi che l’autocrazia mette a disposizione, NON facciano più funzionare il mercato. Ordine del partito: il mercato può solo risalire. E infatti dopo il terrore di due notti fa, Shanghai a chiuso con un +5,8%. La cosa più pazzesca è che sono ormai stranote le ragioni della maxi-bolla cinese. Credere di risolverla sospendendo il mercato è un errore. E che l’Occidente applauda, dà una perfetta idea dei tempi che viviamo.

Premessa: cosa è successo due notti fa. Tutti a lambiccarsi per il debito greco da 320 miliardi di euro, ed ecco che nella nostra notte tra martedì e mercoledì alla borsa di Shanghai finiscono sospesi dalla quotazione titoli per la bellezza di 2700 miliardi di dollari. Anzi per oltre 3500 miliardi, se al 51% di titoli di borsa sospesi per eccesso di perdite sommiamo il 38% di azioni riammesse alla sola condizione che salissero. Un allarme rosso al cui confronto il problema greco è un sasso nello stagno, non solo perché parliamo di valori azionari pari a 18 volte il PIl della Grecia. Ma perché la Cina è la Cina, cioè in termini finanziari la maggior detentrice di debito USA e riserve in dollari al mondo. E per questo fu ammessa di corsa nel WTO nel 2001, perché gli USA avevano bisogno per piazzare proprio debito dell’eccesso di rispamio cinese dovuto al suo export travolgente. Il panico ieri si è immediatamente diffuso sulle piazze asiatiche, con Hong Kong che ha perso fino all’8% – peggio del 2008 – prima di chiudere a -5,9%, Tokyo ha perso il 3,1% e lo stesso Taiwan. E sarà caso sarà necessità, il panico poche ore dopo in America è rimbalzato con le contrattazioni sospese al NYSE per “problemi tecnici”, mentre era bloccato il sito del Wall Street Journal e quello della United Airlines.

Chi segue i mercati se lo aspettava: anche se non nelle proporzioni di oltre il 70% del listino cinese bloccato. Dal 14 giugno, la borsa di Shanghai aveva perso il 30%, dopo una fantastica ascesa del 150% in 12 mesi. Ma era bolla, bolla conclamata. Tanto che le autorità cinesi avevano assunto ventre a terra una serie di misure senza precedenti. Rivelatesi però incapaci di sconfiggere il panico. Fino al punto, ieri, di vietare per i prossimi sei mesi a chiunque detenga quote superiori al 5% delle quotate di alleggerire la propria quota, di vietare le vendite ai manager e alle parti correlate delle società, di proibire ogni forma di short selling agli intermediari cinesi, e di consentirlo solo in presenza di sottostanti reali a quelli esteri abilitati ad operare sul mercato cinese. Misure di guerra, misure da 1929. Misure che sono a un passo dalla chiusura dei mercati: perché proibire di vendere significa chiuderlo, il mercato.

Le domande sono tre. Da dove viene, la bolla cinese? Come la affronterà Pechino? Quali conseguenze potrebbe avere?

La prima questione è chiara da tempo. Le ragioni della bolla sono sostanzialmente tre. Man mano che i fondamentali della crescita cinese hanno rallentato, passando da tassi annuali a doppia cifra a un +7% a cui pochi credono, gonfiate come appaiono le statistiche cinesi che non trovano corrispondenza ad esempio nei flussi mensili commerciali, le autorità di Pechino hanno dovuto fare i conti col problema di come soddisfare l’attesa di redditi crescenti di centinaia di milioni di cinesi, ormai lontani dai livelli di pura sussistenza. A questo fine, la banca centrale ha continuato a inondare di liquidità il mercato domestico a tassi stracciati, e il più della liquidità ha preso la via degli investimenti finanziari. Più di quelli immobiliari, a propria volta in bolla già da un paio d’anni. Secondo: ancor più verso la finanza si è indirizzata l’azione dell’amplissimo settore-ombra bancario cinese, non regolamentato e figlio delle vecchie tradizioni di piccoli commercianti che raccoglievano denaro da investire. Si calcola – ma nessuno lo sa – che lo shadow banking valga fino al 25% del credito cinese: naturalmente, tutto al di fuori del controllo di vigilanza, ispettivo, e di minimi coefficienti patrimoniali. Terzo: i broker “informali” hanno ancor più invogliato milioni di cinesi, anche a basso o bassissimo reddito, a investire nel bengodi della borsa attraverso quel che si chiama il marginal lending, cioè anticipando i denari agli investitori, con promessa poi di scalarglielo nel tempo dando loro solo la differenza sui guadagni realizzati. Tanto, guadagnando il 150% in un anno, trattenendo 100 di capitale iniziale non versato e un 25% di commissione al broker, l’investitore indebitato comunque aveva un 25% di ciò che non aveva mai versato… Siamo tra le catene di sant’Antonio e lo schema Ponzi: macchine infernali destinate a esplodere appena il mercato scende tanto da indurre molti a volerne contemporaneamente uscire.

Da metà giugno, le autorità cinesi le hanno provate tutte. La banca centrale ha pompato altra liquidità per miliardi, decine dei maggiori broker controllati dallo Stato hanno lanciato un fondo miliardario per sostenere quelli in difficoltà, è stato consentito agli investitori indebitati di liquidare i margin calls pagando direttamente in case e beni strumentali delle microimprese, in assenza di liquidità. Sono state bloccate le nuove quotazioni e le vendite allo scoperto, si sono ampliati i collaterali per finanziare il trading, si è costituito un fondo per investire in blue chips, cioè nei titoli leader che “fanno” il mercato per peso di capitalizzazione. Ma più questi provvedimenti si sono moltiplicati, più il panico ha preso piede. Sino al botto di ieri notte.

Ora Xiao Gang, il capo della Consob cinese, ha dovuto assumere misure da pre-chiusura dei mercati. Il 12 giugno, solo 48 ore prima dell’avvio del precipizio, aveva tenuto una conferenza ai quadri del partito vantando la borsa cinese come “il toro che continua a trainare la nostra crescita”. Ma il toro ha incornato il torero. Ora il presidente cinese e capo del partito Xi Jingping sarà su tutte le furie. Cento milioni di cinesi sul lastrico – a tanto sono arrivati in 2 anni i piccoli risparmiatori impegnati sul mercato finanziario – sono semplicemente qualcosa che il partito non può permettersi. Ma la soluzione non è facile. Significa ridurre a regole lo shadow-banking, e soprattutto ricapitalizzare almeno le maggiori del 95% delle banche cinesi che sono controllate dallo Stato, e che hanno asset di pessima qualità a cominciare da un vastissimo immobilizzo in mattoni svalutati e crediti deteriorati.

Se questo si possa fare solo stampando moneta virtuale o se servano soldi “veri”, per così dire, farà la differenza per il mondo. Nel caso in cui la Cina fosse costretta a mettere mano, per ricapitalizzare il sistema degli intermediari, ai 2 trilioni abbondanti di riserve in dollari che detiene, allora sarebbero cavoli amari. Perché l’effetto sul cambio yuan-dollaro sarebbe opposto a quello voluto dall’America, perché la Fed dovrebbe alzare i tassi d’interesse per contenere gli effetti sgraditi a fronte della vendita massiccia di propri titoli, e perché a quel punto tutti i mercati ne risentirebbero.

Siamo a questo: anche se non lo ammetterà mai, oggi il mondo avanzato spera esattamente che avvenga quel che è successo stanotte, quando Shanghai, dopo aver aperto di nuovo in caduta libera, ha chiuso la seduta con un +5,8%% salmodiato dall’agenzia ufficiale del governo come riprova – eccome no – che non c’è nulla di cui preoccuparsi. L’Occidente spera cioè che le baionette e l’autoritarismo del regime cinese possano impedire al mercato finanziario di funzionare, tornando a prezzi che abbiano un senso. Perché se funzionasse il mercato cinese e cioè correggese rapidamente i propri eccessi con catene di fallimenti cinesi, gli effetti al mondo arriverebbero eccome. Ormai sembra il mondo a rovescio, quello delle democrazie indebitate: tra di loro non si danno una gran mano predicando virtù, ma sperano che i loro creditori autoritari impediscano armi alla mano ai propri risparmiatori di rientrare dalla sbornia della finanza a debito. Allegria.

9
Lug
2015

Il “giusto prezzo” dell’energia—di Stephen Littlechild

 

Questo articolo è stato pubblicato sul Daily Telegraph del 7 luglio 2015 con il titolo “‘Goldilocks’ energy price limit doesn’t bear scrutiny.

Due urrà per i risultati preliminari dell’indagine dell’Autorità Concorrenza e Mercati britannica (CMA) sul mercato dell’energia. Il primo per la sua esauriente valutazione degli aspetti problematici di questo mercato, il secondo per aver riconosciuto che le regole imposte dall’autorità di regolazione Ofgem (Office of Gas and Electricity Markets) sul mercato retail dell’energia ai consumatori finali hanno indebolito la concorrenza tra fornitori. Ma il fatto che la CMA abbia consigliato, con una decisione incredibilmente retrograda, l’introduzione di controlli sui prezzi dell’energia merita nient’altro che una sonora pernacchia. Read More

8
Lug
2015

Il mondo secondo V.—di Gemma Mantovani

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gemma Mantovani.

Il libro di Yanis Varoufakis che si intitola “L’economia che cambia il mondo” (Rizzoli, 2015) vuole essere semplice perché si rivolge alla figlia, ai non addetti ai lavori. In realtà è con la storia, anche la filosofia, ma soprattutto con il sano e vecchio buon senso che non si può che sorriderne, l’economia c’entra poco.
V. è greco, anche europeo. Ma è pure australiano. La domanda-tormentone del libro è la seguente: “Perché i guerrieri aborigeni australiani non sono sbarcati a Londra ma è successo il contrario?” Read More

8
Lug
2015

Grecia: comunque finirà, finirà male?—di Matteo Borghi

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Matteo Borghi.

In questi giorni si parla molto Grexit: uno scenario preoccupante che, dopo il referendum, diventa sempre più probabile. Della scadenza del 30 giugno si è parlato molto: il governo greco non ha onorato la maxi rata di 1,6 miliardi di euro del Fmi ed è quindi, tecnicamente, in default nei confronti dell’organismo internazionale. Meno nota è una seconda scadenza, di fatto ancora più importante: il prossimo 20 luglio scade un’altra rata da 3,5 miliardi dovuta alla Bce. Che la Grecia non onori anche questo debito è quasi certo: vuoi perché i soldi non ci sono, vuoi perché per il governo Tsipras sarebbe come accettare un “ricatto” (in Grecia i prestiti a tasso agevolato li considerano così), quindi un suicidio politico. Read More

8
Lug
2015

Una, nessuna e centomila austerity

C’è una cosa, nell’intricato risiko economico in cui si è andata a cacciare l’Europa, su cui sono (quasi) tutti d’accordo, a maggior ragione dopo il referendum greco: l’austerity ha fallito. L’abbiamo sentito ripetere tante volte, con assoluta nonchalance, come un concetto dato per scontato. Una di quelle frasi ad effetto che l’applauso degli studi televisivi lo fanno scattare a prescindere. E che, tuttavia, tanto scontato forse non è. La parola austerity deriva dal latino austerus, che significa duro, severo, rigido, aspro, crudele. L’esegesi non fa sconti: l’arrivo dell’austerity non promette nulla di buono. In passato, si usava questo termine soprattutto per descrivere politiche contraddistinte da gravi restrizioni, ad esempio i razionamenti di cibo durante periodi bellici. Situazioni alle quali sono oggi paragonate le manovre di politica fiscale volte a correggere gli squilibri macroeconomici dell’Eurozona; cioè, di fatto, a rimettere i conti in ordine a quegli Stati che, in passato, hanno speso ben più di quanto “guadagnassero”. E che spesso continuano a farlo.

Come ha spiegato perfettamente Luca Ricolfi sul Sole 24 Ore qualche giorno fa, c’è austerity e austerity. Un conto è alzare le tasse, un altro è diminuire la spesa pubblica. Sono scelte macroeconomiche diverse, anche se non incompatibili. Viceversa, un recente paper di alcuni economisti, tra cui Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, ha dimostrato come aumentare la spesa e le tasse contemporaneamente sia controproducente, perché il deficit rimane tale e quale, mentre il tessuto produttivo continua a sfibrarsi. Eppure, è proprio ciò che è stato fatto per diversi anni in molti Paesi dell’eurozona, Italia compresa. È vero che gli aumenti di spesa, nei periodi di crisi e anche in questa circostanza, sono riconducibili anche al calo del PIL e all’incremento degli interessi sul debito pubblico. Ma non per questo la classe politica degli ultimi anni detiene meno responsabilità. Sia perché in molti Paesi, tra cui l’Italia, la spesa è aumentata anche al netto degli interessi, sia perché comunque tali circostanze non giustificano in ogni caso la reazione opposta a quella resasi necessaria, vale a dire l’ulteriore allargamento della sfera pubblica nell’economia.

Alcuni fra i Paesi che hanno adottato “l’altra austerity”, quella che riduce l’estensione e l’influenza della sfera pubblica, hanno ottenuto risultati straordinari. Ad esempio, scontrandosi con un calo del PIL del 4% nel 2008 e del 14% nell’anno seguente, l’Estonia, invece di aumentare la spesa pubblica, la ridusse notevolmente (tagliando del 10% gli stipendi pubblici) e nel frattempo riformò il mercato del lavoro e il sistema pensionistico. Risultato: il PIL è cresciuto del 3.4% nel 2010, dell’8.3% nel 2011 e del 4.7% nel 2013, di fatto riportando l’economia del Paese ai livelli pre-crisi, con un debito pubblico e una disoccupazione inferiori al 10%.

Quello estone non è un caso isolato. Nel 1990, a seguito di un lungo e doloroso periodo di stagnazione (scaturito da una grave crisi bancaria), la Svezia avviò una serie di riforme senza precedenti, perseguendo, nel frattempo, una rigorosa politica fiscale. Sia i socialdemocratici che i partiti di centrodestra contribuirono a ridurre le aliquote fiscali marginali; mercati finanziari, energia, telecomunicazioni e media furono deregolamentati; il sistema pensionistico venne completamente riformato; fu ammesso l’intervento dei privati in materia di salute, cura e assistenza degli anziani; fu introdotto un sistema di voucher scolastici sul modello ideato da Milton Friedman. Erano altri tempi, ma nel Paese scandinavo l’insegnamento non è andato dimenticato. Di fronte all’incombere della recessione, nel 2009, l’allora ministro delle finanze, Anders Borg, ha ridotto la pressione fiscale con decisione (dal 52 al 44% del PIL), abolendo le tasse sulle donazioni, sulle eredità, sul patrimonio e sulle abitazioni. Negli anni successivi, la Svezia ha registrato una crescita superiore a quella di qualunque altro paese europeo e ha ridotto il debito pubblico a circa il 30% del PIL.

La cura alla crisi sono le riforme che rendano competitiva l’economia di un Paese, ma una politica fiscale restrittiva può costituire una premessa necessaria a metterle in atto. Negli ultimi anni, in Spagna, contemporaneamente a drastici tagli di spesa, è stato reso decisamente più flessibile il mercato del lavoro (ad esempio riducendo della metà i costi dei licenziamenti per le imprese in difficoltà), è stato rivisto il sistema pensionistico e le banche sono state rifinanziate dalla BCE. Tali misure hanno provocato forti tensioni e proteste, ma nel 2014 la Spagna è cresciuta dell’1.3% e oggi può permettersi di ridurre la pressione fiscale, forte del notevole tasso di crescita previsto per il 2015. Anche Portogallo e Irlanda – dopo essere passate per il severo bisturi della famigerata Troika – hanno ricominciato a crescere (rispettivamente dello 0.6, 0.9 e 3.6% nel 2014).

Che il piano di salvataggio greco abbia funzionato male – e certamente peggio degli altri nell’Eurozona – è verosimile. Ma prendersela con l’austerity, come se questa rappresentasse una politica fiscale precisa, è quantomeno miope. Anche a causa di un argomento per così dire controfattuale: cosa sarebbe successo se, quattro anni fa, non fosse stato intrapreso il piano di risanamento stabilito dalla Troika? Impossibile dirlo. Forse ci sarebbe stata un’improvvisa e miracolosa crescita economica. Più probabilmente, si sarebbe innescata un’austerity ben peggiore di quella contro cui si è scagliato il governo targato Tsipras. Un’austerity molto più vicina alla sua drammatica origine etimologica, che non riguarda tagli al welfare, ma – in una fase iniziale – ulteriori forti aumenti dei tassi d’interesse, prelievi forzosi dai conti correnti dei cittadini e un ulteriore indebolimento del settore bancario. In poche parole: la premessa al default. Vi ricorda nulla?

Twitter: @glmannheimer

7
Lug
2015

Grexit, l’haircut dalla BCE è il vero count-down

In attesa dell’eurogruppo straordinario odierno sulla Grecia e mentre i media romanzano, raccontando storie di vendette necessarie su nibelunghi che pretendono di usare l’abaco invece del cuore, nell’enfasi degli storytelling non si è riflettuto sulla novità venuta ieri dalla BCE: una novità che pochi si aspettavano, e che – diciamolo subito, per tagliare l’erba a ogni possibile polemica – è coerente alle regole alle quali la BCE deve attenersi.

Ieri e oggi, sui mercati, la situazione è di allarme ma sotto controllo. Il Consiglio della Bce ieri ha riesaminato, come fa ormai due o tre volte la settimana, i requisiti e il livello della linea straordinaria di liquidità ELA sin qui concessa alle banche greche, senza della quale esse non potrebbero operare né riaprire tra qualche giorno, visto che secondo fonti dell’associazione bancaria greca venerdì scorso avevano ormai in cassa solo poco più di 1 miliardo di euro e qualche spicciolo. Tutti si aspettavano che la BCE non avrebbe certo elevato ELA sopra il tetto degli 89 miliardi (erano 60 a febbraio, poi saliti progressivamente), sin qui concessi e in larga parte già utilizzati. Aumentare ELA da parte della BCE sarebbe stato improprio e impossibile, il giorno prima che al vertice europeo, oggi, si capisca (?) qualcosa di concreto sui termini possibili, gli esiti immaginabili, e soprattutto sui tempi eventualmente necessari per la ripresa della trattativa con la Grecia. Infatti, la BCE ha confermato gli 89 miliardi, senza accrescerli. Ma la sorpresa è stata quella di aver aumentato gli scarti di garanzia sul collaterale accettato in BCE da parte dele banche greche, per poter usufruire della liquidità d’emergenza. In altre parole, è stato abbattuto ulteriormente il valore dei titoli pubblici greci che costituiscono il residuo capitale in pancia alle banche elleniche. Se ne era rimasto – secondo alcune stime, la BCE ieri non ha dichiarato l’entità dell’haircut – per l’equivalente di 15-17 miliardi di euro, ora l’abbattimento del valore residuo riconosciuto porta il valore reale del capitale spendibile dalle banche in garanzia di liquidità a una cifra ancora inferiore, tale da garantire pochissimi giorni di reale operatività, sia pure limitata dai vincoli di capitale molto stretti che permarrebbero anche quando le banche riaprissero gli sportelli.

Per chi volesse accusare l’Europa, una riflessione: il signor Tsipras, nel marzo scorso, facendo saltare i tempi dell’accordo possibile sul terzo programma di assistenza e facendoli prorogare al 30 giugno, ha automaticamente rinunciato a 10,9 miliardi che erano rimasti a disposizione non utilizzati, dei circa 40 stanziati dall’EFSF europeo nel 2012 per rimettere in piedi le banche greche.  Un atto suicidario, visto quanto quei denari servirebbero oggi. Ma tipico di chi mira a far saltare il banco, rischiando anche e soprattutto quel che non ha…

L’haircut sui collaterali da parte della BCE è il più forte segnale trasmesso alla Grecia dopo il suo referendum. E ha il significato di un allarme che dal trillo continuo diventa campana a martello. Non è sui tempi lunghi e lunghissimi della trattativa politica, che si misura la possibilità greca di evitare l’uscita dall’euro. E’ sui tempi brevissimi di un possibile e sereno ritorno all’operatività del suo sistema bancario e dei pagamenti. Fino a ieri si pensava che il tempo consentito alle banche greche per operare grazie alla BCE era di due settimane, fino al 20 luglio quando scade la rata dovuta dalla Grecia alla BCE, in assenza del cui pagamento la BCE dovrebbe automaticamente considerare le banche greche insolventi e sospendere l’ELA. Ma da ieri il tempo è diventato ancor più limitato. Perché le banche greche si troverebbero non solo senza liquidità ma senza capitale. Perché in assenza di un qualunque accordo non potrebbe ricapitalizzarle l’ESM europeo. Al massimo, si dovrebbe immaginare un intervento straordinario del Fmi, che oggi né i greci né molti in Europa vogliono più intervenga nelle faccende europee. E a quel punto l’uscita dall’euro sarebbe un dato di fatto, al di là di ogni intenzione politica dei greci e dell’euroarea.

Evidentemente, nel Consiglio della Bce tra i 25 membri ieri ha prevalso la necessità di attenersi rigorosamente alle norme cautelari che obbligano la BCE ad evitare perdite. Visto il no al referendum, e considerate le incertezze di tempi lunghi: procedure straordinarie erga omnes di ristrutturazione del debito in permanenza dell’euroarea mancano purtroppo nelle regole europee, per le quali ogni caso implica invece un negoziato a parte (come già avvenuto con la Grecia nel secondo salvataggio del 2012). In tali condizioni la BCE non ha potuto far altro che avanzare le lancette del conto alla rovescia, verso il default bancario greco.

E’ un messaggio lanciato a Tsipras, perché non rifaccia il furbo menando il can per l’aia. Ma è altresì un messaggio per l’intera euroarea. Di tempo ne rimane pochissimo. Bisogna avere idee chiare e non perdersi in fumisterie. Altrimenti, fuori dal sistema internazionale dei pagamenti e impossibilitata a usare quello domestico, la Grecia avvamperà in un ulteriore ondata di furore nazionalista, che però non la salverà da amarissime conseguenze. Altro che no all’austerità, i greci se la ritroverebbero moltiplicata nell’immediato. E l’euroarea “irreversibile” diverrebbe un ricordo nel museo della politica inconsapevole di che cosa implichino i suoi impegni: misure straordinarie volte a risolvere anche l’impensabile, se si crede a un obiettivo comune.

7
Lug
2015

Contro la net neutrality

“Politici e commentatori di tutto il mondo sostengono che dobbiamo assicurarci che Internet continui a essere una piattaforma libera, aperta e plurale. Ma allora perché dovremmo modificare il regime giuridico che l’ha regolata così bene e resa – appunto – libera, aperta e plurale sino ad oggi? È un non sequitur.

Risponde così Thomas Hazlett – celebre studioso di economia dell’informazione e professore alla George Mason University School of Law – quando, a margine del seminario che si è tenuto ieri all’Istituto Bruno Leoni, gli chiedo cosa pensa della net neutrality. Un tema tornato alla ribalta dopo l’approvazione da parte della Commissione Europea della bozza di accordo sulle nuove regole delle reti di Internet, secondo cui il traffico del web non dovrebbe potere “subire discriminazioni” o essere soggetto a “corsie preferenziali” disposte dai singoli providers. Tali limitazioni riguarderebbero, ad esempio, gli abbonamenti a determinate applicazioni o servizi, oppure la fornitura a prezzi differenziati di connessioni diverse per caratteristiche di velocità e sicurezza. E non solo sono sempre esistite; secondo Hazlett, sono proprio ciò che ha determinato, sopra ogni altra cosa, il successo di Internet.

“Nel 1993, AOL non era il gigante del media blogging che è oggi. Il loro core business era fondamentalmente un “giardino recintato” (cioè uno spazio virtuale privato) chiamato USENET. Per promuoverlo, AOL iniziò a regalare CD contenenti il loro software. Fu una campagna enorme: dopo qualche mese, secondo alcune indagini, più di metà dei CD di tutto il mondo erano targati AOL. E i servizi wireless, a ben vedere, nascono proprio da lì.”

Il successo di USENET fu strepitoso, tanto che fu coniato un termine – “eternal september” – tuttora molto usato nel gergo del web – per descrivere il massiccio afflusso di utenti sulla piattaforma. “Che era tutto fuorché neutrale!”, sottolinea Hazlett.

“Così come non è neutrale i-mode, una piattaforma lanciata già nel 1999 dalla giapponese NTT DoCoMo che permette di accedere a siti appositamente creati per poter essere utilizzati con successo sugli schermi ridotti dei telefoni cellulari. E che ha costi differenti a seconda della velocità del servizio e del tipo di abbonamento. Risultato: gli utenti di i-mode sono quasi 50 milioni, di cui ben 6 milioni fuori dal Giappone.”

E cosa dire, ad esempio, di Google, che lo scorso settembre ha rimosso l’app di Amazon dal suo Google Play Store? Non è forse anche questo un “ostacolo” alla net neutrality?

“È un esempio emblematico: sostenere che Google non possa farlo significa attentare alla sua libertà d’impresa e alle sue strategie commerciali. La politica commerciale dell’iPhone, del resto, mostra in modo macroscopico come la presunta discriminazione sia spesso proprio ciò che attrae i clienti. Perché in realtà è innovazione. E non c’è proprio nulla di male, perché non obbliga i consumatori ad alcuna scelta: al contrario, ne amplia il ventaglio. E cosa dire del New York Times, che conta un milione di sottoscrizioni alla propria sezione a pagamento?”

Ma net neutrality significa anche molto altro. Per l’utente comune, in particolare, significherebbe non poter bloccare preventivamente flussi di dati indesiderati e rendere prioritari flussi desiderabili sulla base di criteri come le ricerche pregresse e il tipo di abbonamento. In altre parole: significherebbe combattere la personalizzazione e l’innovazione dei servizi su Internet. Cioè prendere la strada opposta a quella che il web sta scegliendo da anni senza imposizioni.

Open Internet significa garantire a consumatori, investitori e fornitori di servizi di poter scegliere, lasciando che siano efficienza e innovazione a guidarli. I regolatori hanno scambiato il processo spontaneo che ha creato il web per una struttura predeterminata, e per questo vogliono imporre nuove regole, con lo scopo di proteggere qualcosa che, al contrario, si è evoluto senza di loro. Ecco cosa dovrebbe essere davvero neutrale: l’atteggiamento dei politici verso la rete.”

Twitter: @glmannheimer