5
Dic
2011

Manovra Monti: Più accise, meno crescita

Servono soldi? Prendili agli automobilisti! Potrebbe essere il sottotitolo di una parte consistente della politica fiscale della prima repubblica e anche della seconda, governi tecnici compresi. La manovra approvata ieri dal consiglio dei ministri prevede, all’articolo 15, l’ennesimo aggravio della tassazione sui carburanti per autotrazione, peraltro in un momento di forte tensione sui prezzi: a partire dal 1 gennaio 2012, su ogni litro di benzina si dovranno pagare 0,704 euro, mentre sul gasolio l’accisa salirà a 0,593 euro. Al lordo dell’Iva al 21 per cento (che grava pure sulla componente fiscale, oltre che sul prezzo propriamente detto) questo fa lievitare l’imposta effettiva, rispettivamente, a 0,852 e 0,718 euro al litro. Altri aumenti sono attesi dal 1 gennaio 2013, quando si passerà, rispettivamente e al netto dell’Iva, a quasi 0,705 e 0,594 euro / litro (quasi 0,853 e poco più di 0,718 euro / litro).

Ci sono varie ragioni per cui questo aumento è una scelta scellerata nel merito e sbagliata nel metodo, oltre che dannosa. La ragione più ovvia – che si estende ovviamente a tutti gli altri interventi in materia di maggiori entrate – è che, in un momento come questo e con la pressione fiscale che già abbiamo, ogni aumento del carico tributario mette un’enorme ipoteca sulle prospettive di crescita del paese. Lo hanno detto Alberto Alesina e Francesco Giavazzi sul Corriere della sera di ieri, e c’è poco da aggiungere. Secondo: l’aumento delle accise si prevede produrrà un gettito di oltre un miliardo di euro, che si andrà aggiungere ai quasi 23 miliardi che le solo accise (al netto dell’Iva) su benzina e gasolio si stima abbiano prodotto nel 2010. Un gettito che tiene, in virtù dei continui inasprimenti fiscali, a dispetto di una dinamica dei consumi piatta o in declino, e che nel 2011 è molto probabilmente aumentato ancora.

Infatti, e questa è la terza ragione per cui si tratta di un intervento scellerato, il 2011 è stato un anno record per la fiscalità sui carburanti: abbiamo assistito ad aumenti incontrollati e, per l’entità complessiva, forse senza precedenti. Facciamo il riassunto, a uso e consumo degli smemorati: dal 6 aprile paghiamo quasi 1 centesimo in più su entrambi i prodotti per garantire il finanziamento del Fus (ce ne siamo occupati qui con Filippo Cavazzoni). Il 28 giugno l’emergenza immigrati ha “giustificato” l’aggiunta di 4 centesimi, ancora una volta sia sulla benzina sia sul gasolio. Il 1 luglio l’ingordo Fus ha preteso altri 1,9 centesimi. L’alluvione di novembre ha portato in eredità un altro centesimo ancora. Complessivamente, fanno quasi 6 centesimi, parte dei quali avrebbero dovuto “scadere” alla fine di quest’anno. Invece, Babbo Natale porterà in dono un’addizionale di oltre 8 centesimi sulla benzina e 11 sul gasolio, sempre al netto dell’Iva (circa 10 e più di 13 includendo l’imposta sul valore aggiunto). Tutto ciò senza considerare, naturalmente, le addizionali regionali sulla benzina: dal 1 gennaio 2012, Toscana e Piemonte si aggiungeranno alle sette regioni che già le hanno (Campania, Molise, Liguria, Marche, Puglia, Calabria, mentre l’Abruzzo la sta cancellando), con valori da un minimo di 2,58 centesimi in Campania, Molise, Puglia e Calabria fino al record di 7,6 centesimi nelle Marche.

Ora, la prima legge dell’economia dice una cosa molto semplice: “più lo tassi, meno lo consumi”. Che è la terza ragione di perplessità, per usare un eufemismo. Costringere gli italiani a rinunciare sempre più all’automobile, in un paese policentrico e dove comunque il trasporto pubblico è quello che è, significa imporre una tara enorme sia agli individui e alle famiglie, sia al sistema produttivo, che vedrà lievitare il costo di tutti quei beni, servizi o fattori di produzione per cui il costo del trasporto è una voce rilevante. Questo non può che avere effetti recessivi.

Quinta e ultima ragione, è che il governo sembra muoversi nella convinzione, che peraltro ha animato l’azione anche di tutti i governi precedenti di destra o di sinistra che fossero, che il settore petrolifero (o, che è lo stesso, i consumatori di prodotti petroliferi) fosse la tasca profonda nella quale è più facile pescare dei soldi. Purtroppo, se mai questo è stato vero, non lo è più, specialmente se si considera che, in Italia, il settore petrolifero è essenzialmente downstream (raffinazione e distribuzione dei prodotti raffinati), non upstream (esplorazione e produzione, dove oggi stanno i “soldi veri”). La raffinazione, in particolare, soffre per una crisi strutturale che ha molte cause, le più importanti delle quali sono l’aumento dei costi dettato dalla regolamentazione (qui e qui un quadro generale rispettivamente mio e di Lisa Orlandi, qui la posizione delle imprese, qui Lucia Quaglino sul caso particolare della riduzione del tenore di zolfo nei bunkeraggi). Questa crisi – ben visibile negli andamenti preoccupanti dei margini di raffinazione – non è solo italiana ma europea; l’Italia, tuttavia, pur avendo alcuni punti di forza soffre di una fiscalità particolarmente aggressiva sia sui prodotti, sia sulle imprese (taglieggiate dai 10 punti della Robin Tax). Il risultato è un serio rischio di chiusura di alcune raffinerie nell’immediato, e di prolungata agonia dell’intero settore nel medio termine.

Ora, la domanda è semplicemente questo: ha senso, per un miliardo di euro di maggiori entrate, stringere il cappio attorno al collo di famiglie e imprese che consumano prodotti petroliferi, e condannare all’estinzione un altro pezzo della nostra industria? Si può anche rispondere di sì, ma bisogna avere il coraggio di farlo esplicitamente.

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