4
Giu
2025

La fretta di Trump

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Paolo Zannetti

È difficile trovare articoli a favore del Presidente Trump sulla stampa europea. Quasi impossibile nella stampa italiana. Ogni tanto qualche accenno favorevole trapela tra le righe di un articolo, anticipato però da lunghi distinguo per mettere in chiaro al lettore che l’autore del pezzo non è certo un “trumpista”. Mi riferisco, per esempio, agli articoli di Federico Rampini che ha saputo gestire un efficiente cerchiobottismo su questo tema.

Questa mancanza di informazioni bilanciate crea difficoltà a coloro – pochi – che sui temi politici fondamentali vogliono sempre sentire le due campane, e leggere opinioni diverse. Era così anche con il Presidente Reagan, negli anni ’80, almeno all’inizio del suo mandato.

Trump va interpretato. La cosa è facile, per chi abbia la voglia di farlo, perché il suo metodo di lavoro e le sue strategie sono sempre quelle da lui descritte nel suo famoso libro The Art of the Deal e da lui usate in tutta la sua carriera di imprenditore, investitore, e personalità televisiva. Trump non improvvisa, non cambia le carte in tavola, non indietreggia, non si arrende. Semplicemente parte da posizioni estreme e provocatorie, usando tutte le armi in suo favore (anche i colpi sotto la cintura) alla ricerca poi di un compromesso che comunque lo favorisca.

La recente battuta – un meme in cui Trump viene chiamato “TACO” – è simpatica: significa Trump Always Chickens Out, ovvero Trump fa sempre marcia indietro. In un certo senso la battuta è appropriata, ma bisogna capire che ciò fa parte della sua strategia.

Questa sua tattica inizialmente provoca caos e sconcerto, per esempio nei mercati azionari che, per la loro natura, amano pace e stabilità. Ma poi tutto si aggiusta quando l’inevitabile compromesso viene raggiunto. Oggi, per esempio, l’indice SP 500 è a 5,900; il giorno prima che Trump fosse eletto era a 5,700. Nonostante tutte le previsioni drammatiche e disastrose che ci avevano rifilato sui dazi di Trump, ci sono state sì forti fluttuazioni sui mercati azionari, ma non le crisi ed i “miliardi bruciati” su cui tante critiche erano state formulate. Anzi, si può forse ipotizzare che furono proprio le critiche allarmistiche, più che i dazi, a causare una bella fetta delle fluttuazioni.

I dazi di Trump hanno finora generato un suo incasso di $68 miliardi. Tutti sappiamo – e anche gli amici dell’Istituto Bruno Leoni, che mi ospita, ce l’hanno ripetuto ad nauseam – che le tariffe possono generare inflazione. Ma l’inflazione in USA rimane sui minimi storici (2.3% in Aprile!), mentre con Biden aveva raggiunto picchi del 9%. Tutti sappiamo che nuovi dazi possono creare guerre commerciali, con conseguenze catastrofiche, come quelle causate dallo Smoot-Hawley Tariff Act del 1930. Ma la mia interpretazione è che le tariffe di Trump siano solo punti di partenza per negoziati e non dichiarazioni di guerra commerciale. E molti negoziati, per esempio quelli con il Regno Unito, stanno avendo successo. Tutti dovremmo sapere che molte delle critiche di Trump verso Cina ed Europa sono fondate, sia per i dazi da loro applicati per decenni per ostacolare le esportazioni USA, e sia per le pratiche commerciali sleali, e cioè le famose e spesso nascoste barriere non tariffarie.

L’Unione europea però è in forte difficoltà. Mentre altri paesi, per esempio UK, possono trattare direttamente con Trump, l’UE è costretta a farlo come blocco di nazioni. Le trattative diventano lunghe, difficili e poco efficienti. E Trump ha fretta. Sa di avere solo 4 anni di Presidenza, e sa che a Novembre 2026 può perdere il controllo di Camera e/o Senato, com’è tradizione nelle mid-term elections in USA, dove il partito del Presidente spesso perde.

Trump ha fretta su tutto. È nel suo DNA.

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