3
Dic
2012

Italia. La visione industriale che non c’è – di Angelo Spena

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Angelo Spena.

Guai a chiamarla politica industriale. È rétro e sa di dirigismo. Allora parliamo di visione industriale. In Italia, semplicemente, non c’è. Chi può, fa da solo lobby, spesso altrove. I big del vecchio continente (dovremmo esserci anche noi, ma non è così) hanno fatto le loro scelte da decenni, le hanno imposte all’Europa e le esportano nel mondo. Tanto per fare un esempio, cos’altro è il tautologico totem del target 20-20-20 ? Chi lavora nel comparto, sa con quanta spregiudicatezza i tedeschi usino le normative ambientali che riescono a introdurvi, per acquisire vantaggi competitivi in specifici settori industriali. Per tacere dell’imbarazzante flop dell’emergenza “buco dell’ozono”. Eppure quelli che contano ci hanno fatto ottimi investimenti.

Di energia, come di alimenti, d’altra parte non si può fare a meno. È un business che non conscerà mai tramonto e i big vi si impegnano a fondo, fanno politica industriale sfilando il consenso delle opinioni pubbliche anche per via subliminale: per amore dell’ambiente, la guerra alla CO2 mette d’accordo tutti, chi fa affari con il nucleare e la catena del freddo (Francia) e chi li fa con le rinnovabili e gli isolamenti (Germania). Guarda caso.

Da noi invece si gioca con la filiera nucleare, adesso sì-adesso no, si rimesta con la filiera fotovoltaica, compro tutti i pannelli all’estero, non importa se domani costeranno metà-li voglio tutti oggi (uno scempio, con i broker che hanno assicurato i pannelli a un prezzo che l’indomani già non valeva più), si assiste alle convulsioni dell’industria (e delle culture) siderurgica e mineraria, sprofondino pure questi residui del novecento, il futuro è leggero come il turismo ma il biglietto per entrare agli scavi di Pompei costa meno di quello per vedere i finti nativi nei finti villaggi degli everglades. E mentre i magistrati devono supplire in extremis all’accumulo degli effetti di decenni di laissez-faire ministeriale, governativo e amministrativo, Fiat lentamente se ne va per non morire.

Il punto è che non risponde mai nessuno, perché in assenza di una strategia industriale lo stato interviene lo stesso, ma a sua discrezione, episodicamente, fuori da un quadro, e come Pilato poi, se va male, può lavarsene le mani. Senza assunzioni di responsabilità.

I più seri discutono sui temi recentemente rilanciati da Paolo Savona.[1] Temi che impongono, calati nella realtà – quella più ovvia, del buon senso, quella cioè che sempre più spesso sfugge ai frastornati cittadini – di incrociare i paradigmi dell’economia con le istanze della moderna complessità. Savona rammenta la condizione postbellica di macerie edilizie e di zero potere d’acquisto che innescò il boom economico: ”il modello (che fu) di sviluppo dell’economia italiana ha due motori: quello delle esportazioni e quello delle costruzioni” e per il presente propone: “… il governo deve agire, ma occorre tempo per raccogliere gli effetti. Ha però in mano lo strumento delle costruzioni.” Le ragioni del rilancio sono riprese e caldeggiate a diversi livelli, da periodici di settore al piano governativo:[2] “… i progetti di housing sociale non sono sufficienti per far fronte a un fabbisogno abitativo incalzante. Serve un vero e proprio piano casa sul modello del piano Fanfani degli anni 50”. E sintetizza[3] Valerio Castronovo: “il settore delle costruzioni è un volano dell’economia e, in tempi di recessione, ha sempre svolto una funzione anticiclica”. Ma gli scenari economici non sono più quelli. I “due motori” giravano lubrificati dalle libere svalutazioni competitive e dall’inflazione. C’è oggi il retropensiero di un abbandono dell’euro? Anche per il territorio, sessant’anni non sono passati senza traccia. Per una legge di natura, un’impronta indelebile (un aumento di entropia, preciserebbe un pedante) ha segnato il bel Paese. E si fa fatica ad assimilare e omologare ricostruzione postbellica e mercati maturi, prodotti di consumo dalla vita sempre più breve con edifici e infrastrutture dalla vita pluridecennale se non secolare. A far valere lo stesso paradigma per le lavatrici o gli i-pod, come per le case. Perché, vedete, mattone dopo mattone, in Italia siamo arrivati a disporre (sono dati governativi,[4] non di irriducibili ambientalisti) di 62 metri quadrati di appartamenti – cioè circa 2,5 vani – procapite. Abbiamo ormai[5] un porto turistico ogni 14 chilometri di costa. Ogni anno si trasferisce da campagna a cemento l’uno per cento del territorio. Di questo passo, altri due “piani Fanfani” e tra ottanta anni non ci sarebbe più un solo filo d’erba dal Brennero a Pantelleria. Purtroppo la funzione anticiclica del mattone “volano dell’economia” presuppone che il suolo sia una risorsa illimitata. Invece è già saturo. In Italia, sempre le stesse statistiche governative dicono che a fronte di 5,4 milioni di abitazioni principali (e il 74% delle famiglie possiede quella in cui risiede) esistono ben 4,3 milioni di unità immobiliari che risultano “a disposizione”. Cioè: vuote! È nobile e generoso voler portare al 100% quella condivisione di benessere, ma non sarebbe logica e sana una politica fiscale per la casa che incentivi le locazioni, prima di por mano a nuove ridondanti costruzioni? Il “motore” rischia di grippare, se non è sostenibile la progettualità. Un piano declinato sui canoni del passato può divenire un rischioso cocktail di opportunità speculative per l’economia illegale e di mutui subprime all’italiana. Se davvero si ha a cuore la qualità della vita, occorre un piano che non invada le aree destinate all’agricoltura, che non pregiudichi gli ecosistemi, ma che riqualifichi le zone industriali e gli immobili residenziali esistenti in termini di sicurezza antisismica e – dove economicamente conveniente – di risparmio energetico. Un piano che armonizzi le modifiche evolutive del paesaggio prevedendo insieme censimento, recupero, ristrutturazione e riuso dell’esistente, demolizione dell’inutilizzabile, sottrazione del minimo necessario possibile di terra al ciclo della natura. Sono questi gli obiettivi con i quali si va affermando in Europa la figura professionale del landscape designer: ridisegnare paesaggi urbani, verdi, industriali, per diverse e nuove funzionalità condivise e partecipate da cittadini consapevoli.

Certo, uno o più driver di sviluppo industriale vanno individuati. Siamo sul mercato globale. E per rimanere alla dicotomica rappresentazione tra “esportazione” e “costruzioni”, va oggettivamente riconosciuto che tutta Europa ha nell’industria delle costruzioni un gigantesco problema, trattandosi di un comparto che pesa il 10-11% del Pil, e che vive divorando territorio; come avere un sanbernardo in casa. Purtroppo – o per fortuna – in Italia quell’industria più di una mission peculiare ce l’ha. Primo: mettere in sicurezza e ricostruire a causa dei terremoti. Secondo: accrescere la sostenibilità degli edifici. (Non solo applicando isolanti e doppi vetri, ma verticalizzando la filiera, inventando nuovi materiali, costruendo e ricostruendo in modo adatto ai climi mediterranei, perfezionando sistemi di cogenerazione e microcogenerazione, e integrando il tutto con le fonti rinnovabili in una edilizia veramente intelligente. Da esportazione). Terzo, costruire all’estero. Mettendo a frutto il lato buono della globalizzazione. Esportando tecniche del costruire bene, efficiente, sicuro, con materiali belli e innovativi che giustifichino perfino il trasporto: un marchio Italia per le costruzioni, ha invocato il presidente dell’Ance Paolo Buzzetti.[6] Gli obiettivi comunitari di arrivare nell’edilizia al 2020 con 60 miliardi di euro di investimenti, e 80 di risparmio energetico, voluti a Bruxelles non siano appannaggio dei soliti big. Questa volta facciamoci trovare preparati, e agguerriti. Anche perchè il fatturato estero è passato dal 2004 al 2011 da 3 (31%) a quasi 8 (54%) miliardi di euro, e questa è la strada: costruire là dove c’è necessità, anzichè qui per cementificare. E va spianata dal governo con strumenti operativi adeguati.

L’altro aspetto della questione riguarda l’industria manifatturiera. Ovvio, deve esportare. E quindi va promossa l’innovazione competitiva, al di là dei dilemmi nicchia di eccellenza o massa critica, campioni nazionali oppure no, o quale ruolo per Finmeccanica. Ad esempio opzionando pesantemente le filiere della green economy ancora non esclusivamente monopolizzate da Francia e Germania, quali l’efficienza energetica, l’impiantistica, le combustioni pulite. E se per ridurre il gap di produttività (peraltro dagli incerti margini) con la Germania, il nostro grande competitore, e mantenere il vantaggio sugli altri paesi europei, occorrerà affrontare quei fattori proprietari, dimensionali, tipologici che Paolo Savona giustamente indica, lo si faccia ma con grande cautela. Sono fattori strutturali e mutuamente correlati, su cui pende il rischio di squilibrare e stravolgere il sistema ottenendo benefici minori dei danni. In questo senso proprio il paventato disimpegno Fiat potrebbe costituire un insperato stimolo culturale e di sistema per un upgrade dimensionale delle nostre PMI.

Anche sul mercato interno si potrebbe fare di più, contestualizzando nuove filiere industriali al nostro interesse collettivo. Che è – prima di ogni altra cosa – lavoro e benessere. Perché guai a girarci intorno: nella presente duratura crisi economica una necessità svetta su tutto: l’occupazione. Possibilmente, qualificata. E il benessere – oggi perfino quantificabile, sulla base dei risultati del rapporto Stiglitz[7] – essendo fondato non solo sul Pil, ma anche sulla sostenibilità e sulla qualità della vita, conferisce all’occupazione duplice valenza, come moltiplicatore sia del Pil che del benessere stesso. Per l’occupazione primo driver di sviluppo, non basterà però promuovere tecnologie avanzate; così si premia il capitale ma – per intrinseca definizione di innovazione – di lavoro se ne crea sempre meno. Meglio sarebbe individuare produzioni industriali ad alto contenuto tecnologico sì, ma che in aggiunta al lavoro “incorporato” (come direbbe Smith), per il loro uso richiedano l’occupazione di figure professionali (follow-up e indotto) di alto profilo, e che possibilmente concorrano ad accrescere il benessere sociale percepito. Per individuarle servirebbe però, come da me proposto recentemente[8] al think-tank ItaliaCamp, uno sforzo di sistema: costruire una gigantesca matrice a più dimensioni in cui incrociare i fattori del benessere (un mix ad ampio spettro di attività per la sicurezza, l’ambiente, il welfare, la salute, la cultura, l’inclusione), con l‘offerta dei distretti industriali italiani, con le prospettive di mercato nazionale e anche internazionale, con le professionalità e le eccellenze scientifiche esistenti, con l’offerta universitaria attuale e potenziale. Il tutto ovviamente subordinato al successo di sperimentazioni sul territorio che coinvolgano amministrazioni, share e stakeholders, organizzazioni di giovani specializzati, e inserito nel circuito nascente di start-up o spin-off alla ricerca di capitali privati con ragionevoli leverages. E soprattutto con un aggiornamento evolutivo delle relazioni industriali sottese dal nuovo approccio.

Il problema è: sarebbe possibile far questo in Italia? Eccesso di dirigismo? Comunismo di mercato alla cinese? Il nostro tallone d’Achille, si sa, è la riluttanza a fare sistema. Che con la modernità si declina nella mancanza di una cultura trasversale di incrocio a rete dei dati e delle conoscenze. E manca il coraggio politico di fare scelte. Oggi che la competizione non ha frontiere, questi sono impedimenti inaccettabili per un Paese che ha riconosciute potenzialità uniche al mondo. Perché, vedete, tra noi e la Cina una importante differenza sta nel fatto che mentre lì, presa una decisione, si muovono tutti di moto d’insieme nella stessa direzione, noi individualisti e abbandonati a noi stessi ci agitiamo ognuno per conto proprio, ostacolandoci in moto browniano. È una delle ragioni del nostro declino: pur spendendo tanta energia e risorse, restiamo spesso al punto di partenza. Possibile che non si trovi una terza via?

1 dicembre 2012

Note

  1.  P. Savona, “Per rilanciare le costruzioni, Francoforte guardi alla Fed”, Corriere della Sera, 19 ottobre 2012
  2.  G. Santilli, “Un piano Fanfani per la casa”, Il Sole24Ore, 22 novembre 2012
  3.  V. Castronovo, “Crescita, il volano del mattone”, Il Sole24Ore, 26 novembre 2012
  4.  “Gli Immobili in Italia” (dati al 2008), Dipartimento delle Finanze, Agenzia del Territorio, Sogei
  5.  Elaborazione dati del Centro Studi TCI, 2011
  6.  “Il mercato mondiale delle costruzioni. Le opportunità per il sistema imprenditoriale italiano”, Made expo, Milano, ottobre 2012
  7. www.stiglitz-sen-fitoussi.fr
  8. www.italiacamp.it

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4 Responses

  1. Ornella Trojani

    “…a fronte di 5,4 milioni di abitazioni principali (e il 74% delle famiglie possiede quella in cui risiede)…”
    Temo che ci sia un errore: suppongo manchi un 1 davanti al 5,4 che diverrebbe così una cifra più coerente col discorso, ma è solo una supposizione e mi piacerebbe conoscere la cifra esatta.

  2. Mario45

    Tranquilli, adesso arriva Bersani e ci fa un bel piano quinquennale, altro che mancanza di visione industriale. Poi un paio di leggine che rendano OBBLIGATORIA la produzione di ricchezza da parte di chiunque intraprenda, ricchezza che, una volta prodotta, verrà redistribuita secondo canoni di giustizia ed equita’ stabiliti da partito e dai magistrati, che gia’ ora suppliscono (!?) a decenni di lassismo, et voila’, siam pronti a ricalcare le orme dei compagni ricchi e soprattutto felici che ci hanno preceduto facendo grande la sacra madre URSS.
    Ridurre drasticamente lo stato no eh ?

  3. Gianfranco

    E’ eccesso di dirigismo eccome.

    Nella sua visione lei cerca di spostare il problema della reattivita’ al sistema economico (azzerandola) nel modo piu’ dirigista possibile: creandola.

    Lo stato deve essere pronto a cogliere le occasioni, come giustamente da lei segnalato dicendo che dovrebbe incentivare in ogni modo l’export di cio’ che sappiamo fare bene.
    Ma il nostro non reagisce. Al ministero c’e’ un ciccione di dirigente che timbra, va a fare la spesa e ritimbra la sera prima di andare a casa. Non c’e’ qualcuno a cui questo interessi.

    Allora cosa dovremmo fare? Creare i bisogni per legge?
    Imponiamo normative che facciano girare l’economia in un certo modo?
    Certo. Come la Germania. Alt. Non e’ cosi’. La Germania si trova forte in pannelli solari e invade il mondo. Non impone a nessuno i pannelli solari per invadere il mondo.

    Cosi’ come lei non puo’ pretendere che si produca cio’ che non serve.
    Lasci girare l’economia, tolga le tasse.

    Ancora a tutti a parlare di investimenti dall’estero. Perche’? Noi abbiamo la lebbra? Non pensa saremmo brillanti, se lasciati un po’ piu’ liberi?

    La sua matrice non funziona per un semplice fatto: cosa sappiamo fare bene? Pochissime cose. Quindi dobbiamo ancora imparare ad essere bravi. E lo diventiamo solo se abbiamo la possibilita’ di farlo.
    Quindi l’unica cosa e’ fare in modo che siamo noi italiani ad imparare.

    Vuole dirigere qualcosa? Allora prenda nota dei suoi obiettivi reali:
    – abbassare in qualunque modo il costo dell’energia.
    – incettare materie prime a basso costo.
    – intrufolarsi in qualche modo nel mercato del petrolio.
    – semplificare la legislazione.
    – abbattere le tasse.

    Al resto si fidi: pensiamo noi. E’ forse questo e’ il problema?

    Faccia tutte le matrici multidimensionali che vuole: quando le calera’ nella legislazione vigente, nelle tasse vigenti e nei costi vigenti, diventera’ un puntino.

    Saluti

    ps. a meno che lei pensi che noi italiani, che ce ne fottiamo delle regole, seguiremmo poi quelle di un think tank. ci prenda per cio’ che siamo: una manica di pirla. ma brillanti, creativi, adattabili. non sara’ un think tank a cambiarci. non c’e’ mai riuscito nessuno. siamo come bambini che vanno lasciati giocare.

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