19
Ott
2017

Initial Coin Offering: quando l’innovazione colpisce la finanza

L’avvento delle criptovalute ha portato con sé nuove modalità di finanziamento per le start-up. Si tratta delle cosiddette ICO (initial coin offering). Come le IPO (offerte pubbliche iniziali) servono alle grandi aziende esistenti a fare il loro ingresso in borsa alla ricerca di nuovo capitale, così le ICO servono a finanziare aziende che si trovano ai loro stadi iniziali di sviluppo.

In verità, le prime parrebbero essere sempre più rare: in Italia, tra il 2013 e il 2016, sono state lanciate solo sette IPO; anche negli Stati Uniti si osserva una tendenziale diminuzione di IPO nel corso degli ultimi anni (vedi qui). Il contrario di quanto accade per le ICO, che a livello globale stanno crescendo in fretta e nei primi sette mesi del 2017 erano già state 92 e avevano raccolto in totale 1,25 miliardi di dollari. Nel mese di giugno 2017, i fondi raccolti per le start-up nel mondo attraverso le ICO superavano per la prima volta, e di gran lunga, quelli finanziati da business angel e venture capitalist: 550 milioni di dollari delle prime contro neanche 300 milioni dei secondi. A luglio del 2017 si confermavano in testa le ICO che avevano raccolto 300 milioni di dollari contro i 200 milioni dei “vecchi” investitori tradizionali.

Al pari del crowdfunding, le ICO rappresentano un sistema innovativo che facilita l’incontro tra persone che vogliono realizzare nuove idee d’impresa e altre persone che queste idee vogliono finanziarle. Come spesso accade nel crowdfunding, il quale può assumere anche forme di partecipazione diverse dal capitale di rischio, le ICO consentono a tutti i potenziali consumatori di un prodotto non ancora nato di comprare un titolo di partecipazione allo sviluppo dell’idea. Questo titolo prende la forma di “token” o criptovaluta, l’equivalente di un’azione in un’azienda (anche se a trattare le novità con le vecchie categorie si corre il rischio di perdere per strada molte delle sfumature che rendono tale una novità).

Se in passato la raccolta di capitale da parte di imprenditori era possibile solo convincendo a investire qualcuno particolarmente abbiente o, al limite, una banca, queste piattaforme innovative hanno facilitato l’incontro tra domanda e offerta di investimenti, con gli imprenditori da un lato e i risparmiatori, piccoli o grandi che siano, dall’altro. È il solito vantaggio a cui ci ha abituato il mondo di internet: quasi totale assenza di barriere all’entrata e costi di transazione, anche tra aree geografiche lontanissime tra loro, pressoché nulli.

L’utilizzo della criptovaluta (del token) come titolo è forse l’innovazione tecnologica più rilevante. Si tratta di valute il cui valore viene determinato da domanda e offerta. A differenza delle monete tradizionali, a gestione centralizzata, la maggior parte delle criptovalute adotta la “blockchain”, un sistema che registra la proprietà della valuta in circolazione, transazione dopo transazione, distribuendo le informazioni su tutta la rete, cosiddetta peer-to-peer.

Come tutte le novità, che essendo tali in principio non si conoscono, un sistema di questo tipo deve essere studiato e deve essere compreso. Ci troviamo su un campo in cui è facile perdere l’orientamento, soprattutto per chi non ha competenze informatiche. Ci vorrà tempo per distinguere che cosa funziona bene e che cosa meno bene, gli eventuali successi nonché i fallimenti e le possibilità di miglioramento.

I governi di molti Paesi nel mondo non sembrano intenzionati a lasciare che questo processo di apprendimento si realizzi. Al contrario, alcuni si sono già scomodati per provare a frenarne lo sviluppo. In Cina è stato recentemente approvato il divieto di eseguire e partecipare alle ICO, considerate dalle autorità cinesi “una minaccia per l’ordine economico e finanziario”. Poco dopo lo stesso è accaduto in Corea del Sud.

Le ragioni a sostegno dell’intervento dei governi contro le ICO parrebbero essere molteplici. Ci sono innanzitutto le buone intenzioni di chi vorrebbe proteggere gli ignari risparmiatori da eventuali truffe. Il rischio è che si crei una sorta di bolla alimentata soprattutto da tutte quelle persone che magari hanno guadagnato scommettendo presto su Bitcoin e simili e che forse ora hanno l’impressione che sia difficile mobilitare quella ricchezza nel mondo fisico. Ma se le truffe dovessero prevalere non sarà necessario l’intervento del governo per fermare la diffusione di questa tecnologia. Crollerà da sola per manifesta incapacità di selezionare i progetti sani e di successo, come fino ad ora si è rivelato essere, per esempio, Ethereum, da quelli truffaldini, come già se ne sono visti in gran numero.

C’è chi vede il pericolo di dare una mano, attraverso l’anonimato del sistema, a criminali di vario genere. Ma frenare lo sviluppo tecnologico per non dare nuovi strumenti a chi vuol commettere crimini sembra una strategia storicamente poco assennata. Alla maggior parte di noi oggi sembrerebbe assurdo vietare l’utilizzo dei cellulari perché questi facilitano le comunicazioni tra criminali.

L’unica ragione che sembra fondata è quella di chi non vuol perdere i benefici derivanti dalla chiusura del sistema finanziario. La concorrenza è sempre osteggiata da chi se la vede arrivare addosso. Ma come sempre, per i consumatori, a ostacolarla c’è tanto da perdere e poco da guadagnare.

@paolobelardinel

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