21
Ott
2020

Il virus del vittimismo

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Andrea Macciò.

Solo un anno fa quello che sta accadendo in Europa e nel resto del mondo occidentale sarebbe stato impensabile. Milioni di persone che rinunciano tacitamente ai diritti fondamentali di libera circolazione, di manifestazione e riunione, di lavoro, di culto, di autodeterminazione della propria vita sentimentale e sessuale.

Per qual motivo le popolazioni delle democrazie liberali, Europa, Canada, Usa, hanno accettato senza particolari segni di ribellione una misura foriera di pesantissimi danni economici e psichici, come il lockdown?

Tanto più stupisce la passività dei cittadini dei paesi dell’Europa Meridionale come la Francia, la Spagna, l’Italia. I Gilet Gialli che hanno messo a ferro e fuoco Parigi per mesi, sostanzialmente scomparsi. Gli indipendentisti catalani anche. E, per restare in Italia, i mille comitati Nimby, pronti alle barricate per una strada in più nel proprio quartiere. 

L’Italia è scesa in piazza contro la Tav, contro la Tap, contro la Gronda di Genova, contro la Fornero, contro le trivelle di Termoli, contro gli inceneritori, le nuove infrastrutture, le nuove autostrade, le ferrovie ad alta velocità. Sono scesi in piazza i misteriosi Forconi del 2013, davanti ai quali gli agenti di polizia si tolsero il casco applauditi dal leader carismatico del Movimento 5 Stelle Beppe Grillo. Sono scesi in piazza nel 2003 i tifosi di Genoa e Catania per chiedere il ripescaggio in serie B a seguito di una vicenda calcistico-giudiziaria avviata da un ricorso di Luciano Gaucci, allora presidente del Catania. Sono scesi in piazza “i cittadini esasperati” di Torre Maura, guidati dall’estrema destra di Casa Pound, contro i campi Rom. Nel 2016 nella frazione ferrarese di Gorino hanno fatto le barricate contro l’arrivo di due donne africane rifugiate e quindi regolarmente presenti nel territorio italiano

Come spiegare allora la passività di fronte alle gravissime limitazioni dei lockdown totali e delle loro versioni soft, come il coprifuoco notturno imposto ieri dal governatore lombardo Attilio Fontana?

In Italia le tesi prevalenti sono state tre: la paura del contagio, che ha spinto le persone ad auto recludersi; la paura di sanzioni; la retorica ufficiale governativa “io resto a casa nel rispetto mio e degli altri”, uno slogan privo di senso reale, ma efficace perché adatto al decennio populista che (speriamo) si sta per concludere. Il lockdown sarebbe dunque stato accettato per “senso civico”.

La paura di morire o essere intubati ha prevalso su quella del default economico. Del disagio psichico, della privazione di amore, affetto, sessualità, ludicità, cultura, lavoro. Ma io non credo sia avvenuto per altruismo e senso civico.

Io credo che dobbiamo volgere il nostro sguardo indietro e cercare un altro virus, diverso dal Covid-19, ma non per questo meno pericoloso: il virus del vittimismo, o meglio della postura vittimaria.

Due studiosi anglosassoni di sociologia giuridica, Jonathan Simon con il suo fondamentale “Il governo della paura. Guerra alla criminalità e democrazia in America” del 2007, e David Garland, con una paziente acribia storica hanno ricostruito come lentamente, diciamo a partire dagli anni Ottanta, la vittima sia diventata l’idealtipo della legislazione penale dei paesi anglosassoni. Al cittadino attivo, libero e responsabile, titolare di diritti civili, una figura forte e attiva, si è sostituita una figura la vittima.

La vittima è una figura totalmente passiva, che allo stato non richiede diritti, ma protezione dalla morte fisica. È una nuova versione del patto hobbesiano con il Leviatano. Nei paesi anglosassoni questa svolta è simboleggiata dall’adozione delle cosiddette “leggi-persona”: la Megan’s law, la Sarah’s law e moltissime altre, ricostruite da Simon e Garland, emesse in nome non di un principio universale, ma della singola vittima, Come se la sua esperienza di vittimizzazione fosse universale. Come se l’essere vittima potenziale determinasse l’appartenenza a una comunità politica, come afferma Jonathan Simon.

Il virus del vittimismo, o della retorica vittimaria, è un mostro a più teste.

C’è la retorica vittimaria della destra populista, per la quale non era possibile argomentare in maniera razionale sulle migrazioni senza prima aver considerato la situazione di ogni singola vittima autoctona del migrante: il poliziotto o il controllare aggredito, la ragazza violentata o uccisa, il pensionato scippato. In nome della vittima (che peraltro non conosceva) agì nel 2018 il militante dell’estrema destra Luca Traini. 

C’è la retorica vittimaria dei movimenti della destra religiosa, come Manif pour Tous o Le sentinelle in piedi, per le quali i veri discriminati sarebbero gli eterosessuali.

C’è la degenerazione vittimista delle identity politics di sinistra, ben ricostruita da Mark Lilla nel suo The once and future liberal del 2017. L’idea di un mondo come una federazione di minoranze definite per lingua, genere, orientamento sessuale, origine etnica, in perenne concorrenza vittimaria (Caillè, 2007) fra loro. Le politiche di sinistra per i diritti civili sono degenerate secondo Lila in un’olimpiade del vittimismo nei quali le minoranze fanno a gara per autorappresentarsi come le più sfortunate.

C’è la degenerazione vittimista del #metoo, campagna nel quale la donna si autorappresenta come vittima a prescindere, già denunciata con anticipo da Valeria Ottonelli nel 2012 nel suo “La libertà delle donne. Contro il femminismo moralista”.

C’è il vittimismo maschilista e surreale della subcultura Incel, che denuncia la discriminazione dei maschi e in particolare dei “celibi involontari” vittime di quella che loro definiscono ipergamia femminile, ovvero la libertà delle donne di scegliere il proprio partner. Una subcultura pericolosa che ha prodotto anche attentati terroristici come quello dello studente canadese Alex Minassian.

In definitiva, l’ingroup del noi si definisce oggi in base a una potenziale comune esperienza di vittimizzazione. Come ricorda Daniele Giglioli, la vittima oggi è intoccabile: “essere vittima immunizza da ogni critica”.

Nel 2019 il dibattito mediatico-politico sulla legittima difesa, riguardante tre/quattro casi all’anno di cittadini privati o negozianti condannati per aver sparato a un ladro, trasformò 60 milioni di italiani in vittime potenziali di una rapina in villa o in tabaccheria, anche senza possederle.

Nihil sub sole novi. 

La narrazione dominante sul Covid-19 è stata proprio quella di trasformare i cittadini, i soggetti di diritto, delle democrazie liberali, in vittime potenziali, di un virus sconosciuto, grave, ma non dotato della letalità del virus Ebola. Una narrazione per la quale il mondo è un ospedale pronto ad accogliere potenziali malati.

Le vittime potenziali della criminalità analizzate da Simon sono diventate malati potenziali di Covid: in entrambi i casi, la paura resta un metodo efficacissimo di governo.

Questa narrazione, a differenze delle precedenti, è trasversale: riguarda persone di destra e di sinistra, eterosessuali e omosessuali, uomini e donne. Di tutte quelle che abbiamo esaminato è la più pericolosa per la democrazia liberale, andando a toccare corde profondamente irrazionali dell’essere umano. Nulla è più irrazionale e prepolitico della paura di morire.

Il virus del vittimismo ha avuto, come ricostruiscono Simon e Garland, una lunghissima incubazione, quasi trentennale. Come si diceva avesse quello della “mucca pazza”. E ora ha infettato in maniera forse irreversibile le democrazie liberali.

Se sostituiamo al cittadino libero e responsabile titolare di diritti inalienabili, la figura passiva della vittima, che richiede solo protezione fisica dalla malattia o dai reati, mettiamo in discussione gli aspetti fondamentali della democrazia liberale, compreso il sistema di pesi e contrappesi volto a limitare i poteri degli esecutivi. Non si contano più gli “Stati di emergenza” decretati da paesi come Francia e Italia, prima per il terrorismo islamico (in Italia peraltro mai manifestato in modo attivo) e poi per il virus.

Sentirsi vittime bisognose di protezione, eternamente infantilizzate, senza diventare mai adulti responsabili delle proprie scelte, porta a lasciarsi governare della paura e con la paura.

Il virus del vittimismo ha infettato le democrazie occidentali e liberali, rendendole simili a democrature. Speriamo non in maniera irreversibile.

Riferimenti bibliografici

Caillé A. (2007) A la quête de la reconnaissance, nouveau phénomène social total, Paris, La découverte-Ma

Garland D. (2001a) Mass imprisonment in the U.S.A: social causes and consequences, London, Sage

Garland D. (2001b) The culture of control, trad.it 2007 La cultura del controllo. Crimine e ordine sociale nel mondo contemporaneo, Il Milano, Il Saggiatore

Lilla M. (2017) The once and future liberal, trad.it. L’identità non è di sinistra. Oltre l’antipolitica, 2018, Venezia, Marsilio

Ottonelli V. (2012) La libertà delle donne. Contro il femminismo moralista, Il Nuovo Melangolo, GenovaSimon J. (2007) Governing trough crime. How the war of crime transformed american democracy and created a culture of fear, trad.it 2008 Il governo della paura. Guerra alla criminalità edemocrazia in America, Milano, Raffello Cortina

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