16
Lug
2013

Il decreto del fare, Articolo 41 – Ambiente

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Gabriele Sabato.

Con l’articolo 41 del “decreto del fare” (rubricato Disposizioni in materia ambientale), il Governo Letta ha in particolare apportato alcune modifiche alla disciplina normativa in materia di gestione e trattamento delle acque di falda,[1] nell’ambito dello svolgimento delle attività di bonifica di siti contaminati, attualmente prevista all’articolo 243 del cd. Codice dell’Ambiente[2] e, parzialmente, a quella in materia di terre e rocce da scavo, prevista dal D.M. 10 agosto 2012, n. 161.[4] Il testo pubblicato in Gazzetta Ufficiale sta già facendo registrare alcune critiche. Ingiuste? Vediamone anzitutto le ragioni, ma non senza aver prima analizzato il contenuto delle nuove norme. In coda all’articolo in commento, infine, il Governo ha introdotto la possibilità per il Ministro dell’Ambiente di nominare commissari ad acta per tentare di risolvere definitivamente l’emergenza rifiuti in Campania.

Acque di falda

La vecchia versione dell’articolo 243 prevedeva che le acque di falda emunte dalle falde sotterranee, nell’ambito degli interventi di bonifica o messa in sicurezza di un sito contaminato, potessero essere scaricate, direttamente o dopo essere state utilizzate in cicli produttivi in esercizio nel sito stesso, nel rispetto dei limiti di emissione di acque reflue industriali in acque superficiali. Le modifiche apportate all’articolo 243 del Codice dell’Ambiente, nell’abrogare contestualmente il testo appena riportato, introducono una disciplina molto più complessa, e per certi aspetti in apparente contraddizione con taluni principi comunitari e costituzionali in materia ambientale (il “chi inquina paga”, su tutti), per non tacere delle ipotetiche distorsioni concorrenziali tra gli operatori che nel corso degli ultimi anni hanno portato a buon fine un processo di bonifica, nei confronti di coloro che, da oggi, potrebbero avvalersi di norme meno restrittive.

Anzitutto la nuova disposizione interessa solo acque di falda contaminate che al contempo “determinano una situazione di rischio sanitario” – così venendo potenzialmente a restringersi dal punto di vista oggettivo il novero delle situazioni cui il nuovo articolo sembra essere applicabile, poiché la nuova disciplina,[4] a differenza di quella precedente, non verrebbe ad applicarsi a situazioni di contaminazione che non comportino allo stesso tempo un rischio sanitario.

In merito poi agli obblighi posti in capo al soggetto attivo nella bonifica, questi sarà tenuto:

  • in primo luogo, a eliminare la fonte di contaminazione, ma solo “ove possibile ed economicamente sostenibile”, senza però che la norma fornisca chiarimenti né su chi sia l’ente che debba esprimere tale valutazione; né su quali siano i parametri intorno ai quali far ruotare il giudizio circa la possibilità e la sostenibilità economica dell’intervento (e peraltro, sembrerebbe, senza che sia stato preso in considerazione il fatto che il concetto di sostenibilità è strutturalmente declinato anche per includere gli interessi delle generazioni future, e non solo di quella presente); e
  • in secondo luogo, ad adottare “misure di attenuazione della diffusione della contaminazione” conformi alle finalità generali e agli obiettivi di tutela, conservazione e risparmio delle risorse idriche stabiliti dalla parte terza del Codice dell’Ambiente.

Le perplessità suscitate dal tenore delle due disposizioni appena menzionate non sembrano del tutto prive di fondatezza. Da un lato perché queste ultime incidono nel pur necessario bilanciamento tra più interessi (tutela dell’ambiente da un lato, e libertà di iniziativa economica dall’altro), in modo da poter lasciare ipoteticamente sguarnito di copertura il primo, e quasi dimenticandosi i superiori principi comunitari – presenti oramai da decenni nei Trattati CE/UE – del “chi inquina paga” e di “prevenzione”. Dall’altro perché si chiarisce apertamente che il fine ultimo non è quello di eliminare la contaminazione, ma di attenuarne, e per quanto possibile, la diffusione, con un giudizio circa attenuazione  e possibilità, i cui contorni non vengono in alcun modo delineati.

Per quanto riguarda poi gli interventi di conterminazione fisica o idraulica con emungimento e trattamento delle acque di falda contaminate, questi saranno ammessi solo nei casi in cui non sia altrimenti possibile eliminare, prevenire o “ridurre a livelli accettabili il rischio sanitario” associato alla circolazione e alla diffusione delle stesse. Nel rispetto dei principi di risparmio idrico sopra menzionati, in tali occasioni dovrà essere valutata – in primis dalla P.A., è da presumersi – la possibilità tecnica di utilizzazione delle acque emunte nei cicli produttivi in esercizio nel sito stesso.

Qualora poi non si proceda secondo i principi sopra indicati, l’immissione di acque emunte in corpi idrici superficiali o in fognatura deve avvenire previo trattamento depurativo da effettuare presso un apposito impianto di trattamento delle acque di falda o presso gli impianti di trattamento delle acque reflue industriali esistenti e in esercizio in loco, che risultino tecnicamente idonei.

Le acque emunte convogliate tramite un sistema stabile di collettamento che collega senza soluzione di continuità il punto di prelievo di tali acque con il punto di immissione delle stesse, previo trattamento di depurazione, in corpo ricettore, vengono assimilate alle acque reflue industriali che provengono da uno scarico, e come tali saranno soggette al regime autorizzatorio previsto dalla parte terza del Codice dell’Ambiente.

Per quanto riguarda invece la reimmissione, previo trattamento, delle acque sotterranee nella stessa unità geologica da cui le stesse sono state estratte, la nuova norma sembra introdurre una disciplina che potrebbe mettere a rischio la salubrità delle acque sotterranee, dato che è venuto meno l’inciso che richiedeva che tali acque non dovessero contenere altre sostanze “pericolose”. Ad avviso di alcuni l’abrogazione dell’aggettivo “pericolose” potrebbe essere una ulteriore fonte di pericolo per la tutela delle acque. In realtà, la norma si limita a prevedere che nessun’altra sostanza – ivi incluse quelle “pericolose”, è da intendersi – dev’essere contenuta nelle acque emunte reimmesse.

Più in generale, e in conclusione, va detto che per un paese che al 31 maggio 2013 contava ben 31 procedure di infrazione comunitaria in materia ambientale, su un totale di 103,[5] non si avvertiva la necessità di un provvedimento con fin troppe zone d’ombra, e che già da una prima rapida lettura presenta non poche contraddizioni con norme ad esso sovraordinate: su tutte, la direttiva comunitaria in materia di acque (2000/60/CE), che ha come obiettivo ultimo quello di raggiungere un “buono stato” ecologico e chimico di tutte le acque comunitarie entro il 2015, e quella sul danno ambientale (2004/35/CE), che – per i danni che interessano l’acqua – mira a ripristinare le condizioni originarie dell’ambiente precedenti al danno; nonché, a livello nazionale, gli articoli 9, 32 e 41 della Costituzione, per come ripetutamente interpretati dai Giudici della Consulta sino ad oggi.

Terre e rocce da scavo

Non si può poi non menzionare una nuova norma introdotta in materia di terre e rocce da scavo[6] (ad opera del comma 2 dell’articolo 41 del “decreto del fare”) che prevede che il D.M. 10 agosto 2012, n. 161 – che regola l’intera materia da quasi un anno a questa parte – sia da applicarsi solo alle terre e rocce da scavo che provengono da attività o opere soggette a valutazione d’impatto ambientale (VIA) o ad autorizzazione integrata ambientale (AIA). Il testo approvato, di per sé apparentemente innocuo nella sua chiarezza, si dimostra essere forse, ma è legittimo immaginare inavvertitamente, l’ennesimo indizio di come l’ipertrofia normativa per decretazione d’urgenza, che ormai colpisce il nostro sistema istituzionale da tempo, possa condurre a una pessima attività di redazione normativa, con conseguente fragilità della regolazione e sua inevitabile inefficacia.[7]

Infatti, pochi giorni dopo l’entrata in vigore del “decreto del fare” (22 giugno 2013), è entrata in vigore la legge n. 71/2013 (26 giugno 2013) di conversione dell’antecedente decreto legge n. 43, del 26 aprile 2013, contenente norme applicabili a Expo 2015 e altre emergenze ambientali, e con essa la questione delle terre e rocce da scavo ha subito un’ulteriore evoluzione normativa, a distanza di soli 4(!) giorni dall’entrata in vigore del “decreto del fare” (il quale, a sua volta, subirà verosimilmente ulteriori cambiamenti ad opera delle Camere in sede di conversione).

Nel caso che qui ci interessa, l’articolo 8-bis, comma 2, della legge n. 71/2013 prevede che ai cantieri con volumi di scavo sino a 6 mila/mc si applicheranno di nuovo le indicazioni dell’articolo 186 del Codice dell’Ambiente. In virtù dell’entrata in vigore della legge n. 71/2013 rimarrebbe peraltro incerto il regime di gestione delle terre e rocce per i cantieri non soggetti a VIA – AIA, ma con volumi di scavo maggiori a 6 mila/mc per i quali rimane l’alternativa di utilizzare le previsioni dell’articolo 186 del Codice dell’Ambiente ovvero quelle generali sui sottoprodotti dell’articolo 184-bis del medesimo codice.

Se gli interventi in corso per i quali sono state seguite le indicazioni del D.M. n. 161/2012 dovrebbero legittimamente essere portati a termine seguendo quanto ivi previsto, per i nuovi interventi appare assolutamente necessario che tanto il Parlamento in sede di conversione del “decreto del fare”, quanto il Ministero dell’Ambiente in sede di applicazione/interpretazione delle norme attualmente vigenti, forniscano al più presto – come già richiesto da alcuni operatori – una chiara lettura delle norme vigenti.

Emergenza rifiuti Regione Campania

Infine, in relazione alla procedura di infrazione comunitaria n. 2007/2195 (che si è conclusa con sentenza C-297/08 che ha constatato l’inadempimento dell’Italia, non avendo adottato questa, in relazione alla regione Campania, tutte le misure necessarie per un corretto smaltimento e recupero di rifiuti), l’articolo 41 del “decreto del fare” prevede che al fine di consentire la semplificazione e l’accelerazione nell’attuazione degli interventi di adeguamento del sistema dei rifiuti nella Regione Campania e di accelerare l’attuazione delle azioni in corso per il superamento delle criticità della gestione del sistema stesso, il Ministro dell’Ambiente debba nominare uno o più commissari ad acta per provvedere, in via sostitutiva degli enti competenti in via ordinaria, alla realizzazione e l’avvio della gestione degli impianti nella Regione, già previsti e non ancora realizzati, e per le altre iniziative strettamente strumentali e necessarie.

Per vedere tutti i commenti degli esperti dell’Istituto Bruno Leoni, clicca qui.

Gabriele Sabato è avvocato, LL.M. University of Michigan Law School (2009), e dottorando di ricerca in Diritto ed economia dell’ambiente presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”.

Note

  1. Articolo 243 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152.
  2. Decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152.
  3. Regolamento recante la disciplina dell’utilizzazione delle terre e rocce da scavo.
  4. Peraltro, anche la necessità di procedere ad accertamento della sussistenza del rischio sanitario, oltre a rallentare di per sé il procedimento, si presenta come piuttosto complessa, e non sempre di facile soluzione.
  5. Cfr. dati sito internet Ministero per le Politiche Comunitarie, http://www.politicheeuropee.it/attivita/15141/dati.
  6. Articolo 184-bis del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152.
  7. Ipertrofia, peraltro, che ultimamente è stata bacchettata dalla pronuncia della Corte Costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità di alcuni articoli dei decreti legge n. 201/2011 e n. 95/2012, rispettivamente convertiti in legge n. 214/2011 e n. 135/2012, con cui Governo Monti e Parlamento della passata legislatura avviarono la riscrittura della disciplina in materia di province.

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