15
Ott
2020

Il conviventismo

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Andrea Macciò.

L’articolo 2 della Costituzione italiana “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”. L’articolo 3 riconosce che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. Al momento di legiferare sulle Unioni Civili, nel 2016, il governo guidato da Matteo Renzi considerò la coppia omosessuale una “formazione sociale” nel quale si manifestava la personalità dell’individuo contraente l’unione.

Una consolidata giurisprudenza riconosce alcuni diritti come coppia anche alle “coppie di fatto”, omosessuali o eterosessuali, che volontariamente non aderiscono all’istituto del matrimonio e dell’Unione Civile. 

L’ordinamento giuridico italiano prevede inoltre sanzioni per chi si rende colpevole di “discriminazione, odio e violenza per motivi razziali, nazionali, etnici o religiosi” attraverso la legge Mancino del 1993 ed è in corso di approvazione la legge Zan che punisce la “violenza o la discriminazione per motivi di orientamento sessuale e identità di genere”.

L’ordinamento giuridico italiano recepisce quindi con le leggi Mancino e Zan il principio dell’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge quali siano le loro “condizioni personali e sociali”. Lo shock culturale provocato dal Covid-19 e dalle politiche restrittive ad esso connesse mette per la prima volta in discussione anche un orientamento ormai consolidato verso il riconoscimento progressivo dei diritti delle persone, sia come individui che come coppia.

Il decreto-legge del 7 ottobre 2020 n. 125 stabilisce che la mascherina all’aperto debba essere usata se non è “garantita in modo continuativo l’isolamento rispetto a persone non conviventi”. 

Tale decreto, recependo tutta la giurisprudenza amministrativa dei Dpcm emessi a partire da marzo 2020 in merito al cosiddetto Distanziamento Sociale, costituisce una sostanziale regressione rispetto a un trend di rimozione progressiva delle discriminazioni.

Esistono numerose coppie non conviventi, per diverse ragioni: giovani fidanzati non autonomi economicamente, persone (anche sposate) domiciliate in città diverse per ragioni lavorative, persone che per libera scelta preferiscono abitare in case diverse pur considerandosi coppia.

Il decreto-legge del 7 ottobre n. 125 appare, come tutta la giurisprudenza che ha separato le coppie residenti in regioni diverse per tre mesi e ora molte coppie binazionali, in palese contrasto con l’articolo 3 della Costituzione.

Essere una “coppia non convivente” costituisce una condizione personale e sociale che la Costituzione riconosce, mentre la giurisprudenza dei Dpcm tesi al contenimento del Covid-19 ignora deliberatamente.

In pubblico, una coppia di non conviventi, mettiamo due persone che vivono in città limitrofe e si vedono nei weekend, sono come due perfetti estranei che devono distanziarsi e parlarsi muniti di mascherina. 

Il decreto-legge del 7 ottobre 2020 n.125 istituisce di fatto il misconoscimento, per usare un termine caro ad Axel Honneth, delle coppie non conviventi e una forma sostanziale di discriminazione che possiamo definire “conviventismo”.

 Una discriminazione che formalmente colpisce anche le persone sposate o unite da unione civile che non convivono in maniera continuativa, perché fa riferimento non tanto al rapporto giuridico esistente fra le persone, ma alla situazione di convivenza. Per paradosso, due coinquilini che condividono un affitto possono circolare in pubblico come una “coppia di fatto” e due fidanzati che abitano in case diverse come se fossero due estranei.

Il conviventismo sembra essere l’ultima trovata di un trend di progressiva restrizione non solo delle attività pubbliche, ma anche di attacco ai diritti individuali minimi e del misconoscimento di situazioni di famiglia di fatto che era ormai entrato nella tradizione giurisprudenziale italiana, al di là della loro formalizzazione in unione civile. 

Filosofi come Hegel e Axel Honneth, sociologi come Alain Caillè, ci hanno insegnato l’importanza della questione del riconoscimento per sentirsi parte di una società. Quello che viene perpetrato contro le coppie non conviventi, sempre seguendo le tesi di Honneth, è un “misconoscimento” o “disprezzo” della loro condizione.

 Due persone che si amano costrette in pubblico a interpretare il ruolo degli sconosciuti che si parlano in mascherina in quanto potenziali asintomatici sono vittime di misconoscimento, azione che secondo Axel Honneth implica una possibile lesione psichica dei soggetti.

Axel Honneth ci ricorda che l’uomo è un soggetto non solo razionale, ma anche e soprattutto relazionale. Chi vede misconosciuti i propri diritti tende a non sentirsi più parte di una comunità, essere disapprovato socialmente lo porta secondo Honneth anche a perdere la stima di sé.

Per Honneth il riconoscimento è essenziale per pensare una società autenticamente democratica, aperta e conflittuale il giusto. Uno dei dibatti filosofici più accesi sul conflitto sociale è quello fra redistribuzione e riconoscimento. I conflitti sociali sono determinati solo da ragioni economiche o anche da ragioni simboliche? 

Nell’anno delle politiche anti-covid, abbiamo visto qualche forma di conflittualità nell’ambito della “redistribuzione” o meglio dell’aspetto economico. E abbiamo visto sorgere una nuova forma di lotta per il riconoscimento, prima quelle delle coppie italiane che vivevano in regioni diverse, poi quella delle coppie binazionali. Se la questione economica è stata sollevata dalle opposizioni italiane, anche se in maniera non convinta, su quella del riconoscimento c’è stato un silenzio assordante di sinistra, liberali, giornalisti e intellettuali. Il rischio di chi solleva obiezioni non economiche è essere bollato come “negazionista”.

Anche un intellettuale irregolare come Henry Laborit, medico, biologo e filosofo, sosteneva che “noi non siamo che gli altri”: la dimensione relazionale è fondamentale per la persona.

Il messaggio culturale delle politiche anti-covid, non solo di quelle italiane ovviamente, è l’opposto. Dietro la retorica del “rispetto di sé e degli altri” c’è la condanna della socialità, di quella che Caillé definisce convivialità, un’esaltazione dell’isolamento e della diffidenza verso gli altri come virtù sociali.

E allora, appare difficile che persone alle quali il riconoscimento della loro situazione di coppia di fatto viene negato, possano poi rispondere ai reiterati appelli al sacrificio in nome del bene comune. Persone che si sentono escluse dalla comunità come se avessero una Lettera Scarlatta addosso, pronti a essere additati dai nuovi bigotti “quelli non sono conviventi e si fanno vedere insieme” come possono riconoscere un “bene comune” di una comunità che li misconosce?

 La deriva moralistica delle politiche di contrasto al Covid. -19 cresce ogni giorno. Smessa la mascherina, la coppia non convivente si avvicinerà come meglio crederà nel chiuso della propria abitazione. Il diritto alla libera scelta nel campo dell’amore e della sessualità è stato da subito il grande rimosso delle politiche anti-covid.

A meno che non si voglia stracciare anche l’articolo 14, che stabilisce l’inviolabilità del domicilio, come è stato paventato da un ministro della Repubblica non in parlamento, ma in una trasmissione televisiva. 

 Anche se la norma si trasforma in “raccomandazione”, produce comunque un danno culturale in quanto legittima e rende evidente la dissonanza cognitiva di una sinistra che da un lato difende l’uso della pillola abortiva ed estende i diritti delle coppie omosessuali con la proposta di legge Zan, e dall’altra mette per iscritto la discriminazione di fatto che ho definito “conviventismo”.

Sembra riemergere da lontano l’anatema di Monsignor Pietro Fiordelli, che definì nel 1958 “pubblici concubini” i coniugi Bellandi uniti dal rito civile, sembra riemergere da un passato che credevamo sepolto nei vecchi film degli anni Cinquanta e sessanta l’Italia bigotta del pre-sessantotto, quella del “si fa ma non si dice” e del reato di adulterio della donna.

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1 Response

  1. Davide

    Con tutto quello che sta succedendo, non riuscite a fare di meglio che dedicare la vostra attenzione a questi temi?
    Seriamente?
    Il vostro silenzio sulla dittatura sanitaria è vergognoso.
    Ciliegina sulla torta, citando Hegel diventa chiaro quale concezione della libertà abbiate da queste parti.
    E no, ovviamente non c’è alcun contrasto tra queste norme orrende ed illiberali e la legge Zan: sempre di totalitarismo orwelliano si tratta, in totale spregio di basilari diritti individuali un tempo garantiti costituzionalmente.
    Ma cosa volete che siano questi dettagli, come potere esprimere la propria opinione, di fronte al fatto che qualcuno possa sentirsi “non riconosciuto”.
    Prossimo step: legalizzazione dello stupro, per evitare che qualcuno si senta rifiutato?
    Come distruggere secoli di evoluzione del pensiero liberale in favore del bigotto conformismo politicamente corretto. Che sta distruggendo l’occidente. L’occidente liberale.
    Sempre peggio.
    Il vantaggio di questo 2020 è che emerge la reale natura del pensiero degli italiani, ed il risultato è tragico.
    Salutatemi Burioni.

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