12
Mag
2009

I russi non mangiano più i petrolieri?

Per qualche accidente della sorte, il numero del 20 aprile di Oil & Gas Journal mi è arrivato solo oggi. Altrimenti avrei dato prima questa notizia che mi pare rilevante: dopo qualche anno di bullismo (come hanno imparato Bp e Shell), complice la crisi, la Russia comincia a rivedere l’atteggiamento aggressivo che ne ha contraddistinto i rapporti con le compagnie petrolifere private. Sulle pagine del settimanale americano, Grigory Vygon (direttore del dipartimento di economia e finanza del ministero delle Risorse naturali e dell’ambiente) spiega le nuove strategie del governo per rendere il paese di nuovo appealing per le major. Il dato di partenza, impressionante, è che tra il 2005 e il 2008, nonostante l’impennata dei prezzi del petrolio, il “free cash flow” dell’upstream è sceso da 7,4 dollari al barile a 2,9, mentre i costi operativi sono raddoppiati (da 9 a 18 dollari al barile) e le entrate fiscali sono cresciute ancor più rapidamente (da 20,1 a 45,3 dollari al barile). Quindi,

le principali ragioni per la riduzione dell’attrattività delle attività esplorative sono un sistema fiscale sfavorevole e l’assenza di stimoli per le regioni per finanziare direttamente tali attività.

Vygon enuncia quindi le nuove linee d’azione del paese che, pur continuando a ritenere “strategici” i grandi giacimenti di petrolio e di gas (che dunque dovranno sempre essere operati da consorzi in cui la maggioranza relativa è in mano a un’impresa pubblica del paese), intende tornare ad aprire le porte agli investimenti privati. L’obiettivo è ambizioso: se il ministero stima in 180 miliardi di dollari l’ammontare complessivo degli investimenti necessari da qui al 2020, il 90 per cento di tali risorse dovranno arrivare da tasche private. Come?

Anzitutto, riscrivendo la normativa fiscale, rendendola più semplice e meno onerosa – e in particolare spostando il peso della tassazione dai ricavi ai profitti delle compagnie petrolifere. Anche la svalutazione del rublo (da un rapporto di 23:1 col dollaro nel 2008 si è passati a 33:1 ad aprile di quest’anno) mira a ridurre i costi del capitale, soprattutto per le piccole e medie compagnie petrolifere private (russe e straniere), che hanno la maggior parte dei costi denominati in valuta russa, i ricavi in moneta americana.  Oltre a questo, il ministero vorrebbe, tramite una normativa ad hoc, stimolare un maggior coinvolgimento delle regioni nelle attività esplorative, spingendole a farsi promotrici di nuove campagne attraverso una compartecipazione significativa al gettito delle aste per ottenere le concessioni esplorative. Infine, il Cremlino ammette l’enorme problema infrastrutturale, per cui si impegna a una vasta opera di ristrutturazione delle pipelines e alla realizzazione di nuovi oleodotti e gasdotti laddove necessari.

Non è del tutto chiaro se questo mutamento di attitudine sia dovuto all’effetto che la crisi sta avendo sulle finanze pubbliche del paese, o se sia – come sembra – il segno di un aggiustamento del tiro più di lungo termine (reso necessario anche dalle buie prospettive di produzione, che rischiano di rendere insufficiente la produzione di gas, come spiegano molto bene Michael Economides e altri). E’ nell’interesse di tutti, russi compresi, un superamento dell’attuale fase di inaffidabilità del paese. Se davvero il crollo del fettito fiscale sarà la molla che ha determinato un’evoluzione a lungo attesa, per una volta si può dire che la recessione non è arrivata invano.

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2 Responses

  1. Massimo Nicolazzi

    Caro Carlo,
    io voto per la crisi. C’è uno strano che di magico nelle risorse naturali che fa sì che chi ce le ha se le regola sovrane, e gli dispiace (?) per il mercato (l’eventuale obiezione per cui non è così negli Stati Uniti cozza contro l’intera politica americana del dopoguerra, protezionista coi produttori interni e di totale aiuto pubblico/politico con le majors che lavoravano fuori). Se ne hai in abbondanza, un qualche incantesimo, dalla Mecca a Mosca, ti espone alla tentazione di chiudere la frontiera e gestirtele in proprio (quando erano sovrabbondanti, gli Stati Uniti dopo la Prima Guerra mondiale hanno pure loro chiuso le frontiere alla straniero; che peraltro non era cosacco, ma giusto britannico). Insomma se hai abbastanza soldi da poterci investire tu, lo straniero lo lasci fuori. Salvo riaprirgli se la capacità d’investimento langue. Appunto.
    Non giudico, com’è ovvio; ma giusto (storicamente … ) constato.
    L’incantesimo, peraltro, dovrebbe consigliare di isolare gli idrocarburi dal calcolo dell’indice di affidabilità del Paese. Se guardi alla politica americana del 900 limitandoti agli idrocarburi, sono stati forse ma non chiarissimamente un pelo più affidabili (per non dire liberisti) della Bulgaria. La Russia dovremmo trattarla uguale. Non per dire che è affidabile; ma ad esempio per non dimenticarci che il gruppo di Vittorio Merloni chiude in Piemonte nel mentre produce a pieno ritmo in Russia. L’affidabilità è una nozione relativa. Dipende da rispetto a chi.

  2. Carlo Stagnaro

    Caro Massimo, vedremo. Il successo di queste manovre dipende dalla loro credibilità: tu investi in un paese che crea un clima fiscale favorevole, se ti aspetti che il clima resti più o meno così. A me pare che ci sia un grande sforzo di chiarezza, da parte russa, anche considerato la precisazione sui giacimenti “strategici”, che le major sapranno di non avere alcuna chance di controllare.

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