26
Apr
2016

Dopo Hannover restano 4 grossi guai tra Usa e Ue

Il vertice di Hannover tra Obama, Merkel, Cameron, Hollande e Renzi non ha purtroppo aggiunto nulla di nuovo a quanto era già chiaro. In sintesi, quattro lezioni sono di fronte a noi, ed è difficile capire se Stati Uniti ed Europa davvero troveranno il modo di uscire dagli errori sin qui commessi, ognun per sé e nei loro reciproci rapporti.  Sono errori pesanti: riguardano la sicurezza comune cioè la NATO, il Medio Oriente,  gli scambi commerciali, e le conseguenze anche per gli USA di un’eurocrisi politica che, da conclamata qual è già, può diventare presto galoppante.

Se guardiamo alla sicurezza europea, Obama chiude il suo mandato sotto il segno del disincanto. Nel 2008, il suo tour tedesco suscitò entusiasmi spettacolari, dopo i che i suoi predecessori erano associati alla guerra in Iraq e Afghanistan. Ma aver delegato alla Germania il timone della crisi russo-ucraina si è rivelato un enorme errore da parte di Obama. Di fatto, Germania e Ue non si sono rivelati in grado di una vera regia politico-militare capace di ingaggiare Putin. Non potevano farlo, visto che la politica di difesa comune all’Europa manca. A oggi, restano le sanzioni alla Russia e nessuno sa come uscirne, perché Mosca non ci pensa proprio a far marcia indietro dalla Crimea e Ucraina orientale. Il rafforzamento dello schieramento americano nell’Europa centrale e orientale della NATO deciso da Washington a fine 2014 ha alzato la tensione militare con Mosca, ma non risolve nulla.  La NATO è avvertita sempre più debole come cemento comune, proprio dai paesi est europei che vedono l’euroscetticismo crescere a ogni elezione (e non sono i soli). Ad Hannover, di questo, praticamente non se n’è parlato.  Se ne occuperà il prossimo inquilino della Casa Bianca.

In Medio Oriente, non casualmente una grande novità è venuta proprio mentre i 5 leader entravano nel castello di  Herrenhausen. Il contestato neoleader nazionale libico Serraj ha chiesto un intervento internazionale militare, a difesa degli impianti energetici libici minacciati dall’Isis. Renzi, fedele alla linea italiana secondo cui tutto deve passare per l’ONU, ha garantito piena disponibilità, se solo la domanda è inoltrata e approvata dal Palazzo di Vetro. Ma in realtà ieri ad Hannover i leader Ue erano divisi: di fatto, le forze speciali francesi sono già da mesi sul campo impegnate a favore del generale Haftar, che attacca Isis in Cirenaica e nella Sirte non riconoscendo affatto Serraj, e Parigi lavora in sienzio per una frattura della Libia d’accordo con il generale al Sisi, il raiss del Cairo. Con il quale i rapporti italiani sono ai minimi termini per via dello stallo sulla dolorosa vicenda Regeni. E mentre anche forze speciali britanniche si danno da fare nella Sirte. La delega americana all’Italia sulla Libia di fatto non viene riconosciuta da Parigi e Londra. E Obama si è presentato in Europa dovendo ammettere che nel 2011 ha commesso un gravissimo errore, perché non aveva minimamente un piano dopo la destituzione militare di Gheddafi. Al contrario, in Medio Oreinte tutte le energie di Obama sono andate in questi due anni all’accordo con l’Iran. Non a caso, nel 2010 un editorialista del New York Times in visita alla Sala Ovale della casa Bianca si avvide che gli orologi internazionali a parete riportavano le ore di Teheran, di Pechino e dello Yemen, ma di nessuna capitale europea.  Spetta al governo italiano, di conseguenza, valutare quanto e come tutelare i nostri interessi in Libia prima che Parigi e Londra rifacciano il bis del 2011.

Sul commercio, Obama si è presentato tardi e male per promuovere il grande accordo transatlantico commerciale, il TTIP. A differenza dell’analogo strumento transpacifico firmato dagli USA con le 10 maggiori economie asiatiche nell’ottobre dell’anno scorso, ma che il Congresso Usa comunque non ratifica, il negoziato con l’Europa dopo quasi 3 anni è ancora fermo su alcuni punti fondamentali. Arduo immaginare dunque che l’accordo si chiuda prima della fine della presidenza Obama: il che significa che se ne riparlerà tra un paio d’anni, se va bene.

Malgrado Usa e Ue siano i primi partner commerciali reciproci, e Washington abbia importato dall’Europa beni e servizi nel 2015 per più di 100 miliardi di dollari di quanto abbia fatto dalla Cina, ad oggi negli USA il dibattito delle elezioni presidenziali è diventato ostile alle intese commerciali, mentre in Europa la controinformazione populista di nazionalisti e autarchici ha finito agevolmente per attribuire al TTIP una vera e propria leggenda nera, come se si trattasse di consentire attacchi alla salute e ai redditi degli europei in nome di inconfessabili interessi di zannute multinazionali americane. In realtà il TTIP serve a darsi standard e regole comuni. Ma i dissensi sono ancora forti: sugli arbitrati internazionali a cui affidare contese commerciali senza incartarsi nelle differenze dei diversi ordinamenti giudiziari; sulla infinita lista di eccezioni, oltre 200, avanzate sia dagli Usa che dai Paesi europei sui settori da escludere all’offerta su base paritaria di servizi; sul no degli Usa ad aprire le loro forniture pubbliche a imprese europee; e naturalmente sull’agricoltura, che è ipersussidiata pubblicamente e fonte di voti su entrambe le rive dell’Atlantico. Pessimo affare, aver lasciato per tre anni che l’unica informazione sul TTIP e la sua colossale portata potenziale di miglioramento degli scambi euro-americani venisse condotta dai no global di ogni colore.

Infine, l’eurocrisi. Non è un guaio crescente e forse incontrollabile che investe solo noi. Per gli States non è affatto priva di effetti. Anche se nelle primarie americane risuonano toni praticamente e simmetricamente analoghi a quelli delle recenti elezioni austriache, francesi, ungheresi e polacche.  Se a fine giugno il Regno Unito sceglie l’uscita dall’Unione Europea, alla crisi di Schengen e a quella turca, alla nuove difficoltà greche e portoghesi, al dramma irrisolto dei migranti si sommerà un biennio di trattativa con Londra – questo è il tempo previsto dal Trattato europeo. Durante il quale si voterà di nuovo in Spagna, e nel tempo in Francia, in Germania, nella stessa Italia. Su ogni turno elettorale, la presa e la portata degli argomenti favorevoli a rompere l’Europa, da destra e da sinistra, saranno sempre più forti. Per l’Italia ad alto debito e banche debolissime, sarebbe un disastro ritrovarsi di nuovo esposta sui mercati (checchè si dica, è certo che avverrebbe).  Ma anche per l’America sarebbe un pessimo affare, ritrovarsi con un’Europa a pezzi pronta all’appeasement con Putin e con Erdogan,  e con nessuna voglia di combattere ISIS in nome di un comune interesse occidentale. Naturalmente, non resta che sperare che così non sia. Ma il rischio c’è, bisogna saperlo.

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